Premessa
Non si tratta di un manuale: non vi dirà come comportarvi né che cosa fare per togliervi dall’affanno e dall’ingombro di un abbandono. Non ha trama, se non quella dell’indagine dei movimenti amorosi
(Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso)
Quello che segue non è un discorso compiuto, è piuttosto un groviglio di questioni tra loro interconnesse. Si propongono alcune suggestioni, così come sono emerse in questi mesi con al centro le domande: cosa dice la pandemia alle scienze sociali? Di quale sociologia abbiamo bisogno per interrogare questo tempo? Nel testo non si cercano risposte ma si azzardano alcune riflessioni che provano a proporre una visione sociologica che guarda all’importanza delle molteplici interconnessioni tra umani e non umani, secondo la prospettiva degli Studi Sociali sulla Scienza e la Tecnologia (STS). Gli stimoli proposti assumono una prospettiva che è insieme sociale e materiale dialogando con alcuni elementi del materialismo filosofico e del pensiero femminista orientato alla tecnoscienza. La proposta si muove su tre piani: la necessità di ripensare il sociale ponendo le associazioni come centro di osservazione; guardare alla scienza come a un laboratorio a cielo aperto mettendo al centro il viaggio con-del virus; le nuove forme di alleanza tra scienza, politica e società (non dimenticando le questioni di genere). Alcune conclusioni finali porranno l’accento sul tema dell’interdisciplinarità indicando in sintesi alcuni dispositivi teorici utili a sostenerne la possibilità.
1. Dal sociale alle associazioni: alleanze e (s)connessioni
1.1. Associarsi con le masse mancanti
La prima sfida alle nostre certezze di sociologi è che invece di intendere il sociale come composto di un certo numero di entità, distribuite e separate nello spazio e nel tempo e centrate sull’umano, dobbiamo modificare la visione stessa del sociale, in modo da includervi anche i microbi, i virus, gli animali e tutti gli oggetti tecnici con cui entriamo in relazione. Siamo parti di ecosistemi fragili e multistrato, archeologie stratificate che si tengono insieme in modo traballante, non inclusivo, non lineare, non stabile. Per entrare in questa visione si tratta di assumere la prospettiva che dai non umani di Latour (2009) ci conduce fino al Chthulucene di Donna Haraway (2016), un’ampia visione capace di accogliere connessioni inedite che ridefiniscono la temporalità e la spazialità e capace di guardare agli eventi (umani e non) come effetti relazionali senza la necessità di ricercare cause univoche e incontrovertibili: le cause sono già effetti.
Come ci invita a fare Bruno Latour, invece di pensare il sociale come una lista chiusa di elementi corrispondenti ai poteri, alle lotte per l’influenza tra gli uomini, ai paradigmi, alle rappresentazioni di interessi sociali, bisognerebbe inventare un modo di descrizione che permetta di includere nella definizione del sociale gli elementi non umani (viventi e non), o in altre parole di passare dalla descrizione sociologica, dallo studio del sociale allo studio delle associazioni (Latour 2000). Siamo interrogati, come studiosi sociali, a re-inventare i modi di descrizione per includere nella definizione del sociale non solo gli esseri umani ma ogni elemento (vivente e materiale) che insieme al sociale concorre (da vicino e da lontano) a produrre campi di effetti relazionali in cui tutti siamo immersi. Non si tratta di un panteismo sociale o di una visione olistico-sistemica che tutto tiene insieme; no, non c’è un tutto che si tiene insieme, piuttosto si tratta di descrivere le reti di legami emergenti e le dinamiche che si muovono nel tempo e nello spazio. La descrizione di questi effetti relazionali è da intendere come azione di ricerca capace di mettere in evidenza azioni, reazioni, resistenze, fallimenti e visioni del mondo.
Può essere allora utile passare da una descrizione del sociale allo studio delle associazioni, alle relazioni, al modo in cui le cose si legano tra loro nel mentre agiscono. L’obiettivo è formare uno sguardo non sugli umani e sugli effetti che le loro azioni producono sulle cose (o viceversa), ma avere piuttosto uno sguardo tra le cose, dove le cose (umani e non) si incontrano (o non si incontrano), dove si alleano, si intrecciano e dipendono le une dalle altre. Ci sono due movimenti in questa descrizione delle associazioni tra viventi e cose: da una parte l’osservazione delle associazioni minute, specifiche e situate per cogliere quegli eventi relazionali capaci di produrre nel loro farsi conseguenze più ampie e, dall’altra, aprire le grandi e piccole scatole nere in cui si sono andate a chiudere soluzioni, conoscenze, valori, interessi e progetti. Si tratta di un doppio movimento che è descrittivo e analitico insieme.
In questa direzione muove l’ampia e variegata prospettiva degli Studi Sociali sulla Scienza e la Tecnologia che ha introdotto questo “sguardo tra” grazie al quale abbiamo imparato come gli scienziati – emblematica la vicenda di Pasteur ricostruita da Latour (1991) – riconobbero i microbi (invisibili) a partire dagli effetti che producevano e costruendo situazioni sociali e materiali rivolte alla visione pubblica di questi effetti; come l’attivismo pubblico negli anni ’80 ha consentito una diversa visione dell’AIDS avviando strategie di ricerca sull’HIV (Epstein 1996); come le pratiche d’uso hanno condotto alle forme attuali della bicicletta (Pinch and Bijker 1984); come nelle cucine dei laboratori scientifici si estrae l’ordine dal disordine (Latour and Woolgar 1979) e altro ancora. Metodo e risultati che operano un distacco da qualsiasi tendenza essenzialista sia della natura che degli eventi sociali e che afferma come ogni idea scientifica, ogni manufatto tecnico, ogni fatto sociale, ogni evento del vivente, umano e non, sono il prodotto di intricate reti di relazioni in cui interagiscono umani e non-umani.
In queste intricate e mobili reti tra elementi umani e materiali (incluse tutte le forme del vivente) si vanno a inscrivere e distribuire forme di potere, idee, progetti, estetiche, valori, norme, etiche, conseguenze che finiscono per essere oggettivate in eventi che rischiano di apparire univoci, dati per scontati, non più problematizzati, oggettivi. Se teniamo aperta la visione degli eventi, intesi come reti relazionali, colti come se fossero sempre inediti e senza mai separare sociale, tecnico e naturale, si può tentare di vedere come situazioni simili (stessi spazi, stessi oggetti) raccontano storie diverse. Se accettiamo di dare la parola alle masse mancanti (Latour, in Mattozzi 2006), visibili e invisibili, viventi e non, possiamo ri-pensare il sociale come campo di associazioni mai date per scontate. Come stimolo per guardare da vicino alle associazioni tra umano e materiale possiamo guardare a due ambiti maggiormente coinvolti nella pandemia, quello educativo e quello sanitario. La lettura di queste situazioni può consentire una sorta di thick description (Geertz 1973), per aggiungere strati di significati alle situazioni sociali.
Il primo ambito è quello educativo. In alcune recenti foto apparse su riviste nazionali e internazionali realizzate presso la scuola elementare Dajia di Taipei, Taiwan, il 13 marzo 2020 si vedono gli alunni che siedono ai banchi con i divisori istituiti per combattere la diffusione di Covid-19 (evento prefigurato e poi forse scongiurato anche in Italia)[1]. Nelle foto leggiamo spazi scolastici che alla frontalità e alla unidirezionalità, un modello di apprendimento uno a molti, introducono oggetti usati per aggiungere nello spazio scolastico tra gli studenti sicurezza e protezione. I divisori che separano gli studenti tra loro suggeriscono una relazionalità ispirata al controllo, alla vigilanza, alla sorveglianza ma anche sicurezza, protezione, distanziamento, indennità, raccomandazione e prevenzione. I divisori introducono pratiche che ri-configurano lo spazio: banchi e paratie sono utilizzate da bimbi che indossano indumenti protettivi (guanti e mascherine) che configurano la produzione di micro-ambienti utili per studiare e alimentarsi in sicurezza. Lo spazio scolastico, strutturato secondo un modello trasmissivo e individuale dell’apprendimento, viene ulteriormente adibito in termini di protezione e sicurezza: strati di oggetti che inscrivono morale, valori e divengono vincoli ambientali e relazionali.
Il secondo ambito è quello medico centralmente coinvolto (stravolto) nella fase della pandemia (figura 1)[2]. Nella prima immagine si vede un micro-ambiente medico di bio-protezione in cui sono assemblati elementi diversi (guanti, lettino, pareti plastificate) che consentono ai sanitari di operare in sicurezza proteggendo altresì la persona malata. Un ambiente di contenimento per il malato attraverso cui i sanitari possono operare per salvare vite proteggendosi. Si tratta di un tipo di ambiente che fino a qualche tempo fa potevamo associare a film di fantascienza distopici e che oggi riconosciamo come ambiente protetto che consente la pratica medica in situazioni di rischio. Nelle immagini sono associati, assemblati e incorporati norme, etiche, conoscenze che attraverso inedite connessioni consentono pratiche di emergenza e di routine. La seconda foto mostra altri rischi e mancate alleanze. Oggetti tecnici, come le mascherine di protezione, immessi nelle catene della pratica quotidiana non trovano dopo il loro uso altre catene di connessione per il loro smaltimento e riuso ma si vanno a situare in altri tipi di connessioni e associazioni che alimentano le già gravi problematiche ambientali. In questo caso gli effetti relazionali che si attivano, sono descrivibili con altre parole: rischio ambientale, inquinamento (del terreno e delle acque), mancato smaltimento, pericolo. Anche in questo caso, oggetti simili ma disposti in modi diversi e letti nei loro effetti relazionali mostrano nuove alleanze protettive o piuttosto deficit di alleanze e rischi: oggetti simili e effetti opposti.
Figura 1 Nuove alleanze e nuove (s)connessioni
Guardare gli eventi attraverso le associazioni sociali e materiali può far emergere e dare un ruolo, finora negletto e dimenticato, alle masse mancanti, agli oggetti e alle relazioni con gli altri elementi a cui si connettono. È proprio dalla lettura delle associazioni che possiamo descrivere nuovi legami sociali che mostrano connessioni o sconnessioni tra le cose (umane e non). Porre al centro dell’analisi le associazioni offre la possibilità di descrivere nuove alleanze o nuove (s)connessioni. Ma possono le associazioni (quelle buone) essere apprese? Il tipo di ancoraggio che si attiva nelle pratiche può renderle “buone” solo agendo diversamente e aprendo le possibilità di produrre associazioni di carattere sociomateriale (Orlikowski 2007), capaci di tradurre buone relazioni nelle pratiche tecnoscientifiche (Mol 2002). La strutturazione e la stabilizzazione di dispositivi e di pratiche di contenimento e protezione hanno richiesto tempo (all’inizio della pandemia sono morti molti più medici e infermieri che in seguito) e forse anche gli eventi legati alla letalità del virus sono stati condizionati, nelle prime settimane, dall’inesperienza nella gestione di tali dispositivi. È stato necessario, per il personale medico-infermieristico in tutta Italia, imparare a fare i tamponi, a vestirsi in sicurezza negli ambienti ospedalieri, a portare la mascherina, a costruire e vivere percorsi di sicurezza e di distanziamento per i malati e gli operatori. In questo nuovo campo di azione professionale quale ruolo hanno giocato tutte le forme di inesperienza e insieme la necessità di apprendere nuove pratiche nei luoghi della cura? E quale ruolo gioca l’invisibilità dell’agente virale nel processo di apprendimento che è sociale e materiale insieme? E, infine, in che modo gli agenti visibili si sono andati man mano ad associare più efficacemente (uso corretto dei dispositivi in campo sanitario) per il contrasto all’azione degli agenti invisibili (cariche virali)?
Come afferma Latour in un testo uscito all’inizio della crisi sanitaria (2020)[3], il virus è solo un anello di una lunga catena e mette in evidenza l’interconnessione tra due crisi, quella sanitaria e quella ambientale, e la definizione classica di una società che guarda solo gli umani tra di loro non ha più alcun senso:
Lo stato del sociale dipende, in ogni momento, dalle associazioni tra molti attori, la maggior parte dei quali non ha una forma umana. Questo vale per i microbi – lo sappiamo fin dai tempi di Pasteur – ma anche per Internet, per il diritto, per l’organizzazione degli ospedali, per le capacità dello Stato così come per il clima (Latour 2020).
Spostare la descrizione verso le associazioni sociomateriali può conferire una lettura che proietta analiticamente in un campo più ampio facendo diventare piccoli eventi, nella loro dimensione situata, particolare, singolare e locale, emblematici di situazioni macro.
1.2. I molti alleati nel viaggio del virus
Virus, animali, mercati, uomini, donne, malati, anziani, bambini, Stati, soldi, aerei, cellule, aria, anticorpi, politici, ospedali, mascherine, tamponi, camici, cibo, farmaci, vaccino, scienziati (virologi, anestesisti, infettivologi, veterinari, farmacologi, pneumatologi, epidemiologi, economisti, sociologi, statistici) infermieri, medici, protocolli, decreti, regole, app, dati, big data, database, standard, procedure, numeri, cadaveri, respiro, dispositivi, polmoni, ecc.
Tutti questi elementi, con i quali abbiamo costruito familiarità, disposti su un piano parrebbero tra loro sconnessi mentre in questi mesi abbiamo imparato a coglierli come parte di una relazione inestricabile e vulnerabile rete sociomateriale alla ricerca di connessioni stabili. Solo se guardiamo ai modi in cui questi elementi si stanno tra loro associando possiamo cogliere i molteplici effetti relazionali, locali e globali in cui siamo immersi. Come ha affermato in un recente intervento Donna Haraway[4], solo se intendiamo le catene di associazioni come naturacultura, come elementi non separate tra loro, possiamo cogliere il superamento della centralità dell’umano. La sottolineatura di queste associazioni si può cogliere nel viaggio del virus che ha innescato la pandemia nel 2020.
Abbiamo sentito che si tratterebbe di un prodotto dell’evoluzione e certamente non di una “costruzione” in laboratorio. Ma cos’è il naturale se si tratta di un evento che è stato facilitato, attivato, amplificato da azioni che implicano anche l’animale umano? In che senso si può separare il naturale dall’umano in questa storia? Cosa c’è di non umano in questo “naturale” che apparterrebbe solo al virus?
Attraverso la narrazione di molti scienziati, giornalisti scientifici, esperti, abbiamo imparato che non c’è stato un solo evento scatenante, una causa, un colpevole singolare ma si è trattato piuttosto di una catena di eventi che sono divenute insieme concause e effetti. Il Coronavirus ha fatto il giro del mondo ha iniziato il suo viaggio, come molti virus, nel passaggio di specie. Abbiamo imparato cos’è una zoonosi e come questo non sia un evento eccezionale tra le specie viventi, umani inclusi. Il passaggio di specie racconta di effetti relazionali tra animali umani, non umani e altri elementi materiali (viventi e non). Il primo caso che incontriamo nel libro di Quammen, Spillover (2014) racconta del morbillo dei cavalli che si scatenò nel settembre del 1994 in un sobborgo della zona nord di Brisbane, in Australia, in un paese di nome Hendra (il nome che prenderà il virus) descritto come «un tranquillo e vecchiotto paese, pieno di ippodromi, appassionati di cavalli, casette di legno convertite in stalle, edicole che vendevano fogli specializzati in scommesse ippiche e caffè» (ivi, 13). Cosa lo aveva scatenato? Nella ricostruzione l’autore segue le associazioni tra umani natura e animali che portano a descrivere quanto accaduto:
Dopo il nostro primo incontro in un bar di Hendra, Peter Reid mi diede un passaggio fino al luogo dove Drama Series si era ammalata. Era situato parecchi chilometri a sudest, oltre il fiume Brisbane, in una zona detta Cannon Hill. Un tempo terra di pascoli ai confini della città, l’area si era trasformata in un sobborgo in piena espansione a pochi passi dall’autostrada M1. Dove un tempo c’erano stalle, ora si vedevano file di villette a schiera affacciarsi su strade private. Della campagna rimanevano ben poche tracce, ma al fondo di una via, in una rotonda chiamata Calliope Circuit, c’era un grande Ficus macrophylla, sotto le cui fronde i cavalli un tempo trovavano riparo dal feroce sole tropicale che splende in quella parte d’Australia. ‘È quello’ disse Reid. ‘Il maledetto albero’. Voleva dire: è lì che stavano i pipistrelli (ivi, 20).
Il “maledetto albero” era rimasto da solo dove un tempo c’era un’area “terra di pascoli ai confini della città” dove probabilmente molti altri erano gli alberi. È rimasto però l’unico sotto cui i cavalli si riparavano dal caldo, l’unico anche per i pipistrelli che lì si erano rifugiati. Spillover porta l’attenzione su tutte le volte che gli umani hanno violato spazi, appropriato risorse, invaso ecosistemi, eventi come il disboscamento forzato, l’inurbamento e il riscaldamento globale procurando la fuoriuscita di virus da animali, i cui ecosistemi sono stati violati, verso altre specie e verso l’umano. Nella narrazione che diversi scienziati e scienziate hanno fatto in questi mesi abbiamo ritrovato analoghi segni. La virologa Ilaria Capua parla del virus come un prodotto del nostro mondo, di una foresta violata, di un mercato in cui animali appartenenti a ecosistemi diversi sono rinchiusi vivi in cattività nelle stesse gabbie: il pipistrello e il pangolino nella paura e nel terrore in cui vengono “imprigionati” dagli umani si scambiano umori e agenti virali. Il pangolino, da ipotesi non confermate ma attendibili, sarebbe stato l’involontario “ospite intermedio” del nuovo Coronavirus, il ponte per il salto di specie del virus dal pipistrello all’uomo, il pangolino pare non possieda sistemi di difesa contro le infezioni virali, ma le tollera divenendo un serbatoio di microbi pur proteggendosi dai loro effetti[5].
Nella storia dell’inizio del viaggio del virus ci sono tante associazioni che di naturale (separata dall’umano) hanno molto poco: animali, uomini, mercati, cibo, abitudini alimentari. E poi altre associazioni che si sono esponenzialmente prodotte in poche settimane fatte di aerei, viaggi, aeroporti, navi, malati, ospedali, morti, ecc. Tempo e spazio sono entrati in un potente cortocircuito, in una geografia che si è fatta subito globale con tempi velocissimi e accelerati. Il Coronavirus ha camminato con i nostri piedi veloci, gli aerei, e si è mosso subito su scala mondiale da oriente a occidente (all’inizio è stato chiamato il virus dei ricchi, il virus in giacca e cravatta). Un virus che si è associato molto bene alla caratteristica principale del contemporaneo e alle sue vite mobili (Elliott and Urry 2013), una mobilità che lo ha fatto viaggiare, usando gli umani come veicolo, prima verso le rotte occidentali e poi nel resto del mondo[6].
2. La ricerca scientifica come laboratorio globale a cielo aperto durante la pandemia
2.1. Un laboratorio a cielo aperto
La scienza è uscita dai laboratori e si è messa a lavorare a cielo aperto, raccoglie indizi, fa tentativi di analisi, fa appello a conoscenze pregresse, associa eventi, indica tendenze, suggerisce condizioni di protezione per contenere l’azione virale, condizioni che richiedono una modifica radicale delle nostre relazioni. Anche il virus agisce solo come agente relazionale, usa i suoi ospiti e non esiste da solo[7]. E allora ci affidiamo all’alleanza con dispositivi capaci di ri-creare il senso dello spazio sociale: dispositivi che sono entrati nelle routine quotidiane sul piano globale. La ricerca scientifica ci invita a seguire i nuovi processi sociomateriali al fine di produrre una sorta di addomesticamento del virus. Sia nella sfera pubblica che in quella professionale (sanitaria) sono infatti entrati in gioco nuovi oggetti tecnici che con la loro azione tentano di arginare, di gestire o di intermediare l’azione del virus, da un lato, e, dall’altro, contribuiscono a ri-definire il concetto di salute pubblica e di benessere individuale. Mascherine, sapone, disinfettanti, camici, guanti, tamponi, paratie e strumenti per favorire il distanziamento fisico, e poi reagenti, respiratori, sieri, ecc. sono entrati sulla scena incorporando, a diverso titolo, imperativi per il comportamento individuale e collettivo. Impariamo a convivere con questi oggetti per poter convivere con il virus.
Molti scienziati in questi mesi si sono trovati sotto una enorme esposizione nello spazio sociale. L’incertezza con cui gli scienziati si confrontano nel loro lavoro è una dimensione che i politici (e anche l’opinione pubblica) faticano a capire. La politica e la società vogliono la scienza già fatta e resistono a guardare alla instabile costruzione in azione del sapere scientifico. Eppure la ricerca scientifica in laboratorio vive di incertezze, di dubbi, di approssimazioni, di dati da analizzare e interpretare, di fenomeni che si prova a addomesticare. In laboratorio non c’è la scienza già fatta, la scienza è sempre nel suo farsi, più o meno stabilizzato, e certamente in questa fase la scienza, in tutte le sue componenti, è dentro un processo di costruzione in fieri e ci vorrà tempo perché si arrivi a processi di stabilizzazione fondati accordi ampio (la scienza è fatta di accordi che si stabilizzano nel tempo e di disaccordi che permangono). La costruzione della scienza è un processo sociale incerto alla ricerca di prove per costruire forme di stabilità che non sono definitive. Ma forse è difficile per la società e per i politici accogliere la ricerca che si propone a cielo aperto, troppo preoccupati a chiedere certezze e a separare il sociale, il politico e lo scientifico. La ricerca scientifica lavora a cielo aperto, elabora strategie, maneggia nuove conoscenze e cerca prove per poterle stabilizzare. L’instabilità del sapere scientifico è uno dei suoi fondamenti[8].
Negli studi STS una importante ricerca che mostra la scienza nello spazio pubblico è quello di Latour che racconta di Pasteur (1991) e le corrispondenti trasformazioni dei microbi dall’invisibilità alla loro visibilità e potenza sociale. Latour mostra come la scienza di Pasteur per potersi affermare va e viene tra laboratorio e vita pubblica. Nell’esperimento pubblico nella fattoria di Pouilly-le-Fort del 1881 Pasteur mostra in una arena sociale aperta come il vaccino può sconfiggere il batterio del carbonchio negli animali. Cosa fa Pasteur? Allea la comunità scientifica (gli igienisti, i batteriologi, i veterinari) e porta la scienza pratica nello spazio pubblico. A quell’evento partecipano coltivatori, giornalisti, decisori pubblici, popolazione comune, animali, microbi, tecniche, tutti erano in gioco. La scienza dei vaccini di Pasteur per essere riconosciuta e legittimata aveva necessità dello spazio pubblico e della costituzione di una rete sociale e materiale capace di stabilizzare una conoscenza che era tanto tecnico-scientifica quanto sociale. Pasteur interpreta in modo pubblico l’agire della scienza che per affermare se stessa deve agire con la collaborazione della sfera sociale e politica.
Allo stesso modo assistiamo oggi a una inedita esposizione pubblica della scienza, abbiamo tutti imparato a comprendere elementi tecnici, abbiamo appreso termini e metodi, li adottiamo nel nostro linguaggio quotidiano, la scienza in tv e sui media pur parlando la sua lingua si fa capire. I tanti esperti che parlano le loro lingue e maneggiano questioni tecniche che non hanno ancora stabilità, ci hanno mostrato la loro “cucina”, come Latour e Woolgar chiamano il lavoro quotidiano della scienza in laboratorio (2013). I laboratori scientifici di tutto il mondo stanno entrando sulla scena pubblica e, come nella fattoria di Pouilly-Le-Fort, cercano soluzioni pratiche capaci di addomesticare il virus. La pratica scientifica non è una scatola nera con soluzioni già pronte, cerca strade, confronta ipotesi e sperimenta metodi e protocolli alla ricerca di tendenze ricorrenti che possono costruire conoscenza più stabile: il laboratorio è a cielo aperto, tutti ci siamo dentro e gli scienziati parlano e agiscono nello spazio pubblico: nel confronto, nelle controversie, nel dibattito aperto never ended.
Un secondo importante lavoro STS che sottolinea l’importanza del processo della scienza nello spazio aperto è quello di Steven Epstein sull’AIDS. Nel 1998 l’OMS stimava che fossero oltre 30 milioni le persone colpite dal virus, con almeno 12 milioni di deceduti dall’inizio dell’epidemia agli inizi degli anni ottanta. La teoria che trova oggi maggiori consensi circa l’origine dell’HIV sostiene che si tratti di un virus derivato da mutazioni genetiche, di un virus che colpisce alcune specie di scimpanzé africani. Si è trattata anche in questo caso di una zoonosi, una infezione trasmessa all’uomo da altre specie animali. Il virus sarebbe migrato dal serbatoio dei primati a quello umano probabilmente con la cacciagione oppure tramite riti tribali che comportavano il contatto con il sangue di questi animali. Il lavoro di Epstein (1996) mostra come l’AIDS è entrato nelle «realtà» pubbliche e private in USA e di come l’approccio al virus, alla malattia e alle sue conseguenze siano stati modellati da una varietà di forze sociali, strutture e interazioni tra la scienza biomedica, i malati e la sfera pubblica. Epstein parlando nel suo lavoro di scienza impura offre un’analisi di come la produzione di conoscenza legata all’AIDS si sia prodotta nella tensione tra diverse posizioni scientifiche, nella relazione con gruppi, attivisti, malati e di come tutte queste relazioni hanno nel tempo contrastato stereotipi e avviato terapie sempre più risolutive nei confronti dell’azione del virus.
Ancora un elemento è entrato nello spazio e nell’immaginazione pubblica: le metafore che stanno accompagnando il viaggio del virus per renderlo visibile e trattabile. Come suggerito da Susan Sontag già negli anni settanta (1979) le immagini metaforiche sono una potente costruzione sociale per relazionarsi a eventi avversi come le malattie e i contagi. La più comune e immediata che si è diffusa è stata quella della guerra, del combattimento, del fronteggiamento su un ring. Una metafora che richiama il virus come nemico da combattere. La metafora di una guerra da combattere e del nemico da abbattere è stata la più immediata ma poi pian piano, e proprio grazie al linguaggio di alcune scienziate, si è passato dalla sola metafora guerriera a quella della convivenza a quella della danza con il virus[9]. Visioni meno marziali introdotte quando la circolazione del virus è stata ridotta dalle misure di distanziamento. Una terza immagine che è stata suggerita è quella dell’adattamento all’ospite:
Certo servono più prove scientifiche di una mutazione ma si può dire che man mano il virus tende ad adattarsi all’ospite. Un virus nuovo è sempre molto aggressivo nelle prime fasi, poi impara a convivere. Si tratta di un atteggiamento opportunistico, che gli consente di sopravvivere[10]
Convivenza, danza, adattamento: ecco il nuovo campo di associazioni da abitare. Si stanno producendo pratiche di addomesticamento non solo verbale ma anche materiale che vedono l’azione del virus inglobata in reti sociomateriali di contenimento, distanziamento e protezione così da rendere le nostre relazioni (tra umani e virus) meno pericolose e più vivibili. Si cerca così di arginare gli effetti della pandemia che il filosofo materialista americano Timoty Morton (2013) definirebbe come Iperoggetto. Morton, esponente del movimento filosofico dell’Ontologia orientata all’oggetto (OOO), usa gli Iperoggetti come strumenti concettuali per interpretare il mondo, si tratterebbe di entità di ampie dimensioni spaziali e temporali che producono effetti sul piano locale e globale[11].
2.2. Scienza politica e società (e questioni di genere)
…ci sono da una parte i mezzi della scienza, i ricercatori, gli strumenti ecc. e dall’altra i risultati e questi due ordini di cose non si devono contaminare, ecco penso che si tratta di un’impostura, o di un’incapacità di comprendere e di accogliere nel mondo contemporaneo l’attività scientifica. Penso che per ragioni politiche non si è trovato ancora il modo di accogliere nella filosofia, o almeno non nella filosofia politica, il lavoro scientifico, si sono accolti i risultati delle scienze, ma non il lavoro scientifico, si è accolta la scienza, ma non la ricerca. C’è una opposizione tra scienza e ricerca…[12]
In questi tempi è parso azzerato il divario, apparentemente incolmabile, che ha spesso separato nello spazio pubblico da una parte la scienza (incaricata di comprendere la natura e i suoi oggetti) e dall’altra la politica (che ha sempre avuto compito di regolare la vita sociale) (Latour 2000). Assistiamo a tre processi: la scienza e la politica si parlano e stanno pubblicamente a comuni tavoli; molti saperi scientifici sono messi in azione in una polifonia di voci esperte che entrano nello spazio sociale e pubblico; agenti patogeni e oggetti materiali divengono attori centrali dell’attenzione globale.
Si tratta di fenomeni che gli STS studiano da decenni e che oggi sono sotto l’attenzione di tutti. Il virus ha ricomposto una distanza tra scienza e società e la scienza mostra pubblicamente la scatola ancora aperta dell’elaborazione dei punti di vista, della ricerca di maggiori stabilità e condivisioni. Contrariamente a quanto affermava Merton, in questo tempo del Coronavirus viene messa profondamente in questione l’immunità sociologica della scienza: la società e la scienza sono alleati, ibridano i propri spazi e i laboratori di ricerca spostano il loro campo d’azione nel pieno dello spazio sociale. Ospedali, centri di ricerca, esperti, scienziati, politici, pazienti, sono in una comune arena e cercano argini comuni, immaginano soluzioni e prefigurano scenari. Scienza e società, scienza e politica, siedono accanto nei team ministeriali, nei talk show televisivi, nelle arene politiche regionali e vediamo in atto una profonda ridefinizione del ruolo dell’attività scientifica e di quella politica. Gli studi sociali varcano la soglia dei laboratori, imparano linguaggi tecnici e così gli scienziati che si trovano ad agire come attori pubblici, agenti di policy per il solo fatto che parlano pubblicamente di misure, di numeri, suggeriscono e avvertono. Si compone uno spazio più ampio dove le voci plurali cercano di dirsi qualcosa. Oggetti tecnici, d’uso quotidiano (mascherine, camici, guanti, reagenti) divengono centrali nella vita di tutti, escono dallo sfondo, cessano di essere masse mancanti (Latour 2006). Le alleanze sociomateriali divengono la sfida per la costruzione di reti stabili capaci di fronteggiare l’emergenza, creare nuovi ordini e ripristinarne altri precedenti. Siamo tutti entrati nella cucina dei laboratori di ricerca e immersi in un laboratorio globale osserviamo il mondo microscopico che è uscito dall’invisibilità per agire visibilmente come potenza sociale. In effetti facciamo da tempo i conti con gli “invisibili” e gli STS ne hanno dato conto: Pasteur per mostrare l’agire non visibile dei microbi dovette alleare un miriade di attori non umani e umani, ma anche geni, genoma (Nowotny e Testa 2012) e cellule (Bucchi e Neresini 2006) sono entrati nel nostro immaginario, pur non visibili abbiamo imparato a riconoscerli e a considerarli parte del nostro spazio personale grazie alle immagini scientifiche rese possibili dagli sviluppi della microscopia digitale. La vita pubblica degli agenti invisibili è divenuta una componente importante della socializzazione all’immaginario scientifico. La scienza e la politica cercano tra loro alleanze, lo spazio sociale viene investito da nuovi ordini materiali, umani e non umani (umani e virus) si fronteggiano e cercano nuove connessioni (umani, mascherine, guanti, sapone), nuove pratiche sociali sono apprese su scala globale: cosa resterà di queste nuove alleanze ibride?
La scienza nello spazio pubblico è sempre mossa da due spinte opposte, come il Giano bifronte di Latour (1998). Uno dei due visi mostra la scienza pronta per l’uso (una sorta di scatola nera) che fornisce certezze, farmaci, soluzioni stabilizzate, l’altro viso mostra la scienza nella sua costruzione, mentre vive le sue controversie, incertezze e instabilità. La società (facendo il gioco della separazione) di solito ama la prima e critica come relativista e controversa e caotica la seconda: è proprio quello che sta accadendo oggi. La società (la politica) chiede risposte certe, pronte, rassicuranti, univoche ma la scienza, gli scienziati, in tutto il mondo, portano esiti parziali, in fieri, incerti, non rassicuranti, instabili. I laboratori sono sotto pressione, lottano con il tempo, lavorano a cielo aperto, gli esperti parlano in pubblico di esperimenti in corso, presentano slide delle cellule infette nei programmi televisivi, mostrano andamenti e ne forniscono letture parziali nello spazio della comunicazione, pensano cose diverse, battono strade diverse, si pubblicano articoli ancora non referati che propongono ipotesi non ancora pienamente accertate: la cucina del laboratorio è aperta al pubblico, prego entrate tutti! La società interpella la scienza per avere risposte e la scienza si presenta alla società con domande aperte. In questa tensione tra urgenze sociali e sanitarie, scienza fatta e pronta per l’uso e ricerca in corso tutta da farsi, si esprimono le nuove alleanze e si mostrano le fragilità del campo: scienza e società sono più nude, più vulnerabili e questo non è necessariamente un male.
Le alleanze si sono espresse immediatamente nell’uso delle task force, esperti e scienziati, chiamati ad agire nel campo pubblico per gestire in prima persona le fasi di emergenza. Molte alleanze (e task force) stanno agendo sul piano internazionale (OMS), nazionale e anche regionale. Mettono insieme scienziati e esperti di altri campi tecnici e politici, una collaborazione, inedita e importante. La scienza, gli scienziati (virologi, epidemiologi, clinici di tutti i campi, ecc.) sono stati “radunati” per un evento che copre tutte le latitudini. Solo in Italia più di 1000 persone sono state implicate in questi gruppi che hanno gestito le emergenze e la strutturazione di proposte per il futuro. Una annotazione può essere fatta in merito alle modalità con cui nei vari Stati queste nuove routine sono state messe in campo. Ci sono stati paesi come l’Italia che hanno radunato gruppi di scienziati e di esperti di emergenza sanitaria e pubblica messi accanto ai politici come consiglieri in una sorta di collaborazione permanente; paesi come la Germania che hanno scelto come interlocutore una istituzione scientifica nazionale prestigiosa (l’Istituto Robert Koch), un’organizzazione responsabile per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive, facente parte del Ministero federale della salute tedesco; la Cina (interessata da altre epidemie nel tempo) ha predisposto nei primi giorni di febbraio una Missione congiunta composta da 25 esperti nazionali e internazionali provenienti da Cina, Germania, Giappone, Corea, Nigeria, Russia, Singapore, Stati Uniti d’America e Organizzazione mondiale della sanità (OMS) guidata dall’OMS e da scienziati della Repubblica popolare cinese; in Inghilterra e negli Usa si è scelto il modello dell’esperto unico (di solito uno scienziato molto in vista) che illustra dati e suggerisce condizioni (di solito non seguite dagli stessi politici di quei paesi). In Italia è interessante sottolineare le modalità di progressione nella composizione delle task force. La prima è stata il Comitato Tecnico Scientifico, istituita con decreto del 5 febbraio 2020, più volte integrata da esperti. Uno di loro, Ranieri Guerra, rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, medico, specializzato in salute pubblica con ampia esperienza internazionale, in una intervista televisiva esprime pubblico apprezzamento su come i politici italiani (in particolare il Presidente del Governo e il Ministro della Sanità) si sono messi in ascolto degli scienziati. L’11 aprile viene nominata una seconda task force nazionale per la ricostruzione composta da manager, economisti, statistici, psicologi e sociologi. In questa diversa composizione si può notare la separazione dei saperi esperti: da un lato le scienze della vita biologica e dall’altra quelle della vita sociale. Questa separazione denota una assenza di visione sull’intreccio profondo degli effetti che il virus ha fatto emergere e che dice: non si possono separare la sfera biologica da quella sociale! Ma ora dopo la prima emergenza l’umano si riprende il suo posto centrale e ri-separa il sapere scientifico dal sapere sociale. Una ulteriore separazione è stata attivata fin dal principio negando una alleanza di base: quella di genere. Solo il 12 maggio, a emergenza di fatto conclusa, cinque donne esperte sono state inserite nella task force del manager Colao, e sei nel Comitato tecnico-scientifico composto da 20 uomini su 20. È stato necessario il movimento spontaneo #Datecivoce che ha visto la mobilitazione in massa a dar voce alla presenza femminile. Eppure in questi mesi molte scienziate hanno preso parola nello spazio pubblico, sono state ascoltate e riconosciute, tranne che dalla politica che ha avuto necessità di una mobilitazione pubblica per fare un intervento comunque residuale e posticcio.
Ancora una questione rilevante che si può osservare dal punto di vista dei processi associativi: l’accelerazione che si è impressa nel rapporto tra laboratori di ricerca e clinica. La ricerca deve tradursi al più presto in farmaci, in studi per i vaccini, e già dai primi giorni (in Cina e poi nel mondo) sono stati avviati studi clinici di ogni tipo. Si tratta di un movimento di accelerazione che si era già impresso da decenni, dopo il Progetto Genoma Umano, che vede sempre più medici, scienziati e pazienti collaborare nelle strategie di cura. La ricerca traslazionale ha lo scopo di velocizzare la scoperta di nuovi trattamenti e strumenti diagnostici utilizzando un approccio multidisciplinare che comporta un elevato livello di collaborazione (Crabu 2017). Descritta come la pratica di trasferire la conoscenza scientifica “dal laboratorio al letto del paziente”, from bench to bedside (Neresini e Viteritti 2014), già sviluppata soprattutto in campo oncologico (Cambrosio et. al. 2006), si fonda sulla traslazione più ravvicinata tra la ricerca di base e lo sviluppo di nuove terapie o procedure mediche. In questa direzione vanno anche i test sierologici, i nuovi farmaci e i vaccini. La questione che si pone è di costruire piattaforme comuni tra gli scienziati per lo scambio immediato di informazioni per favorire l’analisi di dati complessi basati sull’analisi computazionale di grandi basi di dati, sulla relazione tra fonti diverse dati e sulla interoperabilità tra ampi sistemi di dati.
Per ora la scienza, mentre continua a lavorare a cielo aperto, ha contribuito alla quasi stabilizzazione di alcune pratiche che sono diventate routine quotidiane, pubbliche e private: le pratiche diagnostiche come i tamponi e i test sierologici, quelle di distanziamento fisico coadiuvate dall’uso corretto di dispositivi di protezione, e la disposizione protetta degli spazi pubblici (commerciali, istituzionali e del tempo libero) e quelle di tracciamento (app e sistemi informativi). Ognuna di queste pratiche, inestricabilmente tecniche e sociali insieme, apre campi di indagine e di riflessione su cui non ci soffermiamo in questo scritto ma che delineano diverse alleanze e associazioni tra umani e non tanto necessarie quanto problematiche.
3. Alcune considerazioni finali
Le scienze sociali da sole non bastano, devono dialogare, contaminarsi, ibridarsi con saperi altri e imparare a muoversi tra e con le altre scienze. Gli STS provano a farlo da decenni, e per farlo dialogano e si intrecciano con altre lingue quali l’informatica, la biologia, l’ingegneria, la fisica, l’architettura. Il coinvolgimento tra saperi è utile per rompere la competizione tra gli epistemi e per colmare il divario che separa la scienza (che avrebbe come incarico la comprensione della natura) e la politica (che avrebbe invece il compito di regolare la vita sociale)[13].
Oggi come scienziati sociali siamo coinvolti nel comprendere le conseguenze e gli effetti della pandemia. In accordo con Latour si dovrebbe propone una sorta di ecologia politica che passa attraverso una profonda ridefinizione del ruolo dell’attività scientifica e di quella politica. Dobbiamo lavorare sulle cuciture e sulle connessioni cercando di praticare forme di compenetrazione tra i domini disciplinari che il moderno ha rigidamente separato dando invece forza alla parcellizzazione tra i saperi e alla distinzione fondamentale tra natura e società (2000). Ma come può reggere questa illusione di autoconsistenza degli ambiti davanti all’incremento di ibridi (come i virus) che legano oggetti e viventi, che non sono solo naturali e non sono solo umani? Come viventi, umani e non, siamo ingarbugliati insieme, non c’è un fuori da cui governare i processi, siamo tutti interamente coinvolti in connessioni locali e estese i cui effetti prodotti dall’umano diventano ambiente per altri elementi e gli effetti prodotti da altri elementi diventano ambiente per gli umani. Come possiamo allora conoscere gli eventi se poniamo solo l’umano al centro? E come possiamo descrivere, conoscere e anche intervenire negli eventi se i saperi scientifici non cercano alleanze? Una politica con la natura e non solo per la natura. Scienziate di vari campi hanno posto, anche di recente, la centralità di una ricerca interdisciplinare, unico argine per comprendere la complessità del vivente in tutte le sue forme naturali-sociali-culturali-materiali-tecnologiche[14]. Gli studi STS come campo scientifico plurale e non antropocentrico, in dialogo con altre forme culturali (quali il femminismo tecnoscientifico), possono allora contribuire a descrivere connessioni che dalla sola prospettiva disciplinare sociologica rischiano di rimanere escluse avvitando le analisi sull’umano che pensa solo alla sua centralità mentre è esso stesso esito di effetti prodotti da connessioni che lui contribuisce a alimentare (nel bene e nel male). Con la pandemia abbiamo imparato l’impatto dell’effetto farfalla – di effetto si parlava anche in quel caso e non di cause – e come scienziati sociali dovremmo sviluppare più competenze nella lettura di effetti che non sono dati, che non sono lineari e non sono sequenziali. Stiamo imparando che forse abbiamo bisogno di altri dispositivi teorici che ci facciano pensare a agire in un mondo effetto di intrecci e connessioni, siamo immersi in network eterogenei (Law 1992) di cui come umani non siamo protagonisti e artefici ma elementi che agiscono in processi intra-azione (Barad 2007), che indicano la costituzione reciproca e aggrovigliata degli elementi in contrasto con il termine interazione che presuppone l’esistenza di elementi individuali e separati che precedono la loro interazione:
The neologism ‘intra-action’ signifies the mutual constitution of entangled agencies. That is, in contrast to the usual ’interaction’, which assumes that there are separate individual agencies that precede their interaction, the notion of intra-action recognizes that distinct agencies do not precede, but rather emerge through, their intra-action. It is important to note that the ’distinct’ agencies are only distinct in a relational, not an absolute, sense, that is, agencies are only distinct in relation to their mutual entanglement; they don’t exist as individual elements (Barad 2007, 33).
Esistiamo, come componenti umane e non, solo all’interno di fenomeni relazionali sociomateriali aggrovigliati e intricati. In questo senso come individui contribuiamo fortemente a perturbare equilibri locali e globali creando catene associative dannose che concorrono all’innesco di fenomeni “virali” che muovono velocemente dal piano locale a quello globale. Come suggerisce Donna Haraway, dobbiamo forse attrezzarci, teoricamente, culturalmente e materialmente, a vivere in un pianeta infetto, essere pienamente consapevoli di vivere come ibridi cercando adattamenti non antropocentrici (2016). Le scienze sociali, meglio attrezzate, dovrebbero sviluppare ricerca capace di descrivere sempre di più queste catene associative aggrovigliate e contribuire a comprendere fenomeni complessi che si muovono velocemente nel tempo e nello spazio anche per poter fornire contributi capaci di mostrare nuove connessioni, visioni alternative e un mutamento adattativo centrato sulle interazioni tra umani e non.
Riferimenti bibliografici
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