Introduzione
In tempi in cui la straordinarietà di un evento pandemico sta ridefinendo i confini spazio-temporali della nostra vita quotidiana, ha acquistato una rinnovata centralità la famiglia che sembrava ormai entrata culturalmente in crisi dietro le spinte di un’edonistica affermazione del sé. Sebbene di declino della famiglia si parli sin dall’origine dell’attenzione pubblica e scientifica per l’istituzione famigliare (Smart 2003; Castiglioni e Dalla Zuanna 2017), è altrettanto evidente che essa non sta scomparendo, piuttosto va incontro a una serie di trasformazioni che rendono necessarie nuove categorie interpretative e un cambio di prospettiva analitica nell’approcciarla. Anche di fronte alle misure restrittive adottate dal governo per contenere e gestire l’emergenza epidemiologica da Covid-19, e ai mutamenti dell’ordinaria suddivisione di tempi e spazi per la cura, per il lavoro, per la scuola o per la socialità verso una straordinaria convergenza spazio-temporale di tutte queste attività nello spazio domestico coabitato, la famiglia ha bisogno di una lettura che superi quella epifenomenica della contingenza. Quali novità o, viceversa, costanti possiamo cogliere nelle condizioni di vita delle famiglie e dei loro membri in questa fase straordinaria? Pur nella mancanza di dati empirici “densi” e in uno scenario comunque in trasformazione, in questo articolo mi prefiggo di far dialogare l’approccio processuale delle pratiche famigliari teorizzato da David H.J. Morgan (1996; 2011) con le osservazioni prodotte da una lettura attenta dei temi e dei dibattiti emersi nel discorso pubblico in questo periodo di pandemia. Le osservazioni che propongo sono dunque parziali e provvisorie ma vogliono contribuire a sviluppare quella riflessività sociologica che un momento come quello che stiamo vivendo richiede.
L’idea contenuta nella prospettiva di Morgan è che famiglia sia un concetto fluido, implicato in una vasta gamma di sfere sociali, e che al centro dell’analisi debbano essere i modi – le pratiche – attraverso cui essa viene costruita dai suoi attori. Concepita quale un insieme di attività, anche i suoi membri non appaiono unicamente inermi di fronte a un sistema in mutamento ma come individui che «stanno facendo famiglia». In questo senso il doing family apre a un’analisi dei ruoli agiti dai suoi differenti attori, compresi i bambini, spesso marginali nei lavori sociologici italiani (Satta 2012), la cui esperienza può contribuire a una ridefinizione nel loro complesso dei concetti di famiglia e cura. Focalizzandosi sulle dimensioni spaziali e temporali attraverso cui bambini e genitori sono definiti socialmente ma al contempo danno senso e radicano quotidianamente la loro idea di famiglia, l’articolo ricolloca le trasformazioni straordinarie delle famiglie nell’ambito della processualità della vita famigliare e dei mutamenti strutturali dell’infanzia e della genitorialità degli ultimi decenni.
1. Fare famiglia: l’approccio delle pratiche famigliari
Secondo il cambio di prospettiva suggerito da David H. Morgan, la famiglia, più che essere la semplice manifestazione di ruoli ascritti e di funzioni sociali che la cristallizzano in una visione istituzionale densa di norme e di prescrizioni formali, è un «fare» (Morgan 1996; 2011). Essa non è cioè “data” una volta per tutte ma “si fa”, quotidianamente, attraverso pratiche ordinarie e straordinarie di coppie, genitori, figli, parenti e talvolta anche di altri soggetti dediti alla cura dei suoi membri. Tale approccio, offrendo una lettura microprocessuale della famiglia legata a nuovi orientamenti sociologici e a contesti di vita quotidiana, sia domestici, sia extradomestici, si focalizza sull’azione, sulla processualità e sulle pratiche quotidiane degli attori che la co-costruiscono (cfr. Satta 2020b per un’introduzione al pensiero teorico di Morgan). Alla base dell’impalcatura teorica del doing family vi è il concetto di «pratica famigliare» di cui l’autore argomenta la tenuta interpretativa delineando una lista tematica di sei punti relativi alle implicazioni che l’uso può apportare allo studio della famiglia (cfr. Morgan 2011, 5-9). Innanzitutto, l’idea della pratica crea un «legame tra la prospettiva dell’osservatore e quella dell’attore», nel senso che proceduralizza e movimenta il significato di famiglia, ma soprattutto avvicina lo sguardo del ricercatore a quello dei membri della famiglia rendendola intellegibile con un concetto teorico meno reificante di “la famiglia”; in secondo luogo, restituisce «un senso attivo» alla famiglia. La vita famigliare, in fondo, è una serie di attività e gli attori famigliari non stanno solo ricoprendo il ruolo di padre e madre, ma possono essere anche visti come soggetti che “stanno facendo” la paternità e la maternità. Inoltre, per Morgan, la pratica famigliare comprende «un senso del quotidiano», che include sia gli eventi classici della vita della maggior parte della popolazione (i fidanzamenti, la genitorialità, la malattia, il lutto) sia quelli che sembrano irrilevanti e di poco valore; l’obiettivo è, in questo caso, rompere con una tradizione che lega spesso il tema della famiglia a quello del “disagio”, e che si concentra solo sulle sue esperienze di rottura o di disfunzione, sottolineando, al contrario, le comunanze trasversali alle differenze di classe o etniche. Pratica famigliare esprime «un senso del normale», di regolarità e ordinarietà che caratterizza tutte le famiglie, sia essa un compito routinario che si ripete giornalmente o settimanalmente, riguardante magari specifiche fette di popolazione (ad esempio le famiglie con figli rispetto all’orario di ingresso scolastico mattutino), o caratteristiche specifiche di una famiglia, come delle battute o dei ricordi condivisi che vanno a costituire un proprio “lessico famigliare”. Riflette, inoltre, «un senso di fluidità»; in primis, dei confini dell’insieme di attività che stabiliscono chi è, a seconda delle situazioni, incluso o escluso: «Chi conta come famiglia dipende in parte anche da chi sta facendo la domanda (un ricercatore, un famigliare, un assistente sociale) e dalle circostanze in cui la definizione dell’appartenenza famigliare può essere considerata importante (cerimonie religiose, matrimoni, notifiche di morte e così via)», in secondo luogo, delle stesse pratiche che possono essere «descritte come famigliari ma anche in altri modi, almeno in parte. […] Il pendolarismo può essere normalmente considerato una pratica di lavoro ma volendo, poiché è da casa al lavoro, anche in quanto pratica famigliare» (ibidem). Il concetto di pratica, in sintesi, restituisce l’idea della sovrapposizione e del continuo sconfinamento della famiglia in altre sfere sociali, ci traghetta da un confine all’altro e riconosce infine «un legame tra storia e biografia» agevolando la consapevolezza, da un lato, del bagaglio biografico che le persone portano nella famiglia quando iniziano una “vita a due” e, dall’altro, del fardello strutturale che impedisce loro di condurre la propria vita pratica completamente svincolate da tutta una serie di prescrizioni legali, economiche o di condizionamenti culturali che le precedono. La pratica famigliare può quindi essere intesa come una forma di azione all’interno di limiti sovrastrutturali.
A partire da questa breve disamina del concetto, emerge quanto variegato e stratificato può essere il modo di intendere la famiglia e, soprattutto, quanto diversificati possono essere i modi in cui i soggetti fanno e comunicano esternamente il loro essere famiglia attraverso delle pratiche talvolta banali, talaltre eccezionali. L’articolo farà riferimento senza pretesa di esaustività e in forma ancora esplorativa a estratti di scritti autobiografici dal valore testimoniale, riflessioni giornalistiche e analisi specialistiche, circolati in rete o pubblicati sui maggiori quotidiani nazionali nei mesi di lockdown, che hanno offerto uno spaccato del discorso sulla famiglia emerso a livello mediatico digitale (Lupton 2015; Arvidsson e Delfanti 2013). Discorso che, come vuole sostenere questo saggio sulla base dei concetti del doing e del displaying family di Morgan e di Janet Finch, si è concentrato sulle pratiche famigliari e sulla loro esibizione.
Anche nella pandemia si è potuto osservare infatti come i genitori in un regime di compresenza famiglia/lavoro abbiano operato più attivamente di prima, da un lato, per definire alcune pratiche come specifiche “della famiglia” (stabilendo orari, spazi e attività ludico-ricreative per curare le relazioni intime), dall’altro, per comunicarle volutamente all’esterno come tali (si pensi alla fervente attività sui social in cui sono stati esibiti – secondo copioni di stile ben distinti in base alla composizione del nucleo famigliare e all’accento maggiore da dare all’unità di coppia, a quella famigliare o al proprio ruolo genitoriale – prelibati piatti culinari, interni domestici con tutta la famiglia all’opera nella realizzazione di un determinato compito e prodigiosi “lavoretti” fatti dai bambini con la pasta di sale o a seguito di esperimenti scientifici realizzati con oggetti di casa). Secondo Finch (2007), che ha contribuito a integrare l’approccio teorico di Morgan, un elemento importante delle relazioni famigliari è infatti dato dalla loro «esibizione». «Le famiglie – sostiene – hanno bisogno di mostrarsi così come di essere fatte» (ivi, 66). La manifestazione «è il processo attraverso cui individui, o gruppi di individui, comunicano tra loro e ad altri pubblici rilevanti che alcune delle loro azioni costituiscono un “fare cose di famiglia” e così danno prova che queste relazioni sono relazioni famigliari» (ivi, 67). Ugualmente durante la quarantena, le famiglie, in una tendenza che accomunava già prima della Covid-19 i personaggi famosi e le persone comuni in questa ostentazione della propria riuscita genitoriale e famigliare (Satta 2016; 2018), hanno continuato a mostrare se stesse in spaccati di intimità famigliari per un consumo pubblico. Se prima l’esibizione poteva avvalersi prevalentemente di location più esotiche e meno banali di uno spazio domestico[1], durante l’isolamento non solo è stato cambiato il setting ma lo si è recuperato nella sua funzione originaria, quella fondativa della famiglia. Attraverso la domesticità le persone hanno cioè fatto e mostrato il loro essere famiglia e, come vedremo nei paragrafi successivi, esibito in particolare le loro capacità genitoriali in un momento storico in cui l’assenza materiale della scuola richiedeva un’ulteriore presenza dei genitori. In molti hanno continuato a interpretarla nella cornice della nuova costruzione sociale e culturale della genitorialità configurandola sempre più come un una “genitorialità del fare” (LaRossa and LaRossa 1981). Un buon genitore deve cioè assumere una postura attiva nell’esercizio del proprio ruolo materno o paterno “facendo” attività con i propri figli[2]. Se l’obiettivo è portarli a dei traguardi di successo nella loro vita lavorativa futura, il suo dovere è individuare le attività utili a conseguirli e a esibirli[3]. È su questo aspetto che la nuova genitorialità e la teoria delle pratiche famigliari di Morgan si incontrano, non solo a seguito di un ripensamento della famiglia all’interno dei family studies come un insieme di pratiche, ma proprio perché le attività di cura nella sfera domestica ed extradomestica sono al centro della definizione pubblica della buona famiglia (Satta 2016).
Un’attenzione alle pratiche fa quindi emergere quanto la famiglia fosse già fluida e in continua ridefinizione ben prima dell’emergenza pandemica ed è pertanto attraverso una concettualizzazione basata sui significati prodotti quotidianamente dagli individui in relazione ai contesti in cui si trovano e con cui interagiscono, che maggiormente si possono cogliere i mutamenti e le costanti della vita famigliare.
2. Le vite famigliari prima e durante la pandemia
In Unequal Childhoods: Class, Race and Family Life, diventato ormai un classico degli studi sulle diseguaglianze sociali tra bambini appartenenti a famiglie differenti per classe sociale, capitale culturale e origine migratoria, Annette Lareau scrive che se «nel diciannovesimo secolo, le famiglie si riunivano attorno al focolare, oggi, al centro della casa del ceto medio c’è il calendario» (2003, 63). Una gestione manageriale degli impegni extrascolastici dei figli, sempre più impegnati in attività sportive e ricreative, da conciliare con quelli lavorativi dei genitori, fa apparire le case dei ceti medi come «poco più che sale d’attesa per i suoi occupanti durante i brevi periodi in cui si trovano tra un’attività e l’altra» (ivi, 64).
Lareau con l’efficace immagine del focolare sostituito dal calendario e delle case trasformatesi in sale d’attesa descrive due fenomeni, tra loro collegati, che hanno riguardato l’infanzia e la famiglia negli ultimi decenni: l’istituzionalizzazione del tempo libero dei bambini (Ennew 1994; Näsman 1994), sempre più mercificato (McKendrick, Bradford and Fielder 2000), e quella che è stata definita in letteratura la «nuova cultura della genitorialità» (Faircloth and Murray 2015) sintetizzabile «come quelle regole e quei codici di condotta più o meno formalizzati emersi negli ultimi anni che riflettono questa visione deterministica del ruolo dei genitori e definiscono le aspettative sociali su come un genitore dovrebbe crescere il proprio figlio» (Lee 2014, 9-10).
Il suo studio intercetta dunque un cambiamento dei compiti e delle aspettative sociali riposte nella famiglia, sempre più incentrata sulla definizione e cura di un programma educativo per i propri figli che assume progressivamente i lineamenti di un «progetto di famiglia» (Gubrium 1998).
Tali trasformazioni, evidenti nell’organizzazione della vita quotidiana delle famiglie, specie del ceto medio, ma secondo altre recenti ricerche (Satta 2016; 2018; Vincent 2017) trasversali anche ad altre classi sociali, sono causa ed effetto dell’emersione di una nuova cultura dell’infanzia e di un differente sentimento verso i bambini che si è progressivamente consolidato nelle società occidentali. L’accresciuta importanza dei bambini in quanto «beni dal valore affettivo inestimabile» (Zelizer 1987), e non più quindi come soggetti produttivi nell’economia famigliare, ha generato profondi mutamenti nelle relazioni genitori-figli, ma anche in quelle presenti nei contesti ludico-ricreativi per bambini, organizzati e gestiti secondo un «imperativo educativo» volto a massimizzarne il potenziale di sviluppo e le competenze (Buckingham 2002). Viviana A. Zelizer nell’analizzare questo cambio di atteggiamento nei confronti dei bambini parla di «sacralizzazione» dell’infanzia per sottolineare, in senso figurato, il significato morale, e quasi religioso, attribuito ai bambini nella nostra società (2009). In questa nuova cornice di dichiarata preziosità affettiva, e di più generale individualizzazione e detradizionalizzazione delle relazioni famigliari (Beck 1986; Beck und Gernsheim 1990), i genitori si ritrovano soli di fronte a nuove e continue scelte e cercano di controllare l’incertezza costante dando molta più rilevanza che in passato alle attività svolte dai propri figli. Spetta al genitore la valutazione dei rischi a cui possono essere esposti e a lui viene demandata la responsabilità da uno Stato con un welfare sempre più in ritirata. L’educazione dei bambini, da quella scolastica a quella extrascolastica, viene quindi sempre più vissuta e promossa socialmente, quando non politicamente, come un ambito di investimento famigliare sul loro futuro in cui un buon genitore è chiamato a impegnarsi (Hays 1996; Kjørholt and Qvortrup 2012; Lee et. al. 2014).
È in questo scenario di istituzionalizzazione spazio-temporale dell’infanzia e, al contempo, di familizzazione (Satta 2020a), vista la centralità che assumono le famiglie materialmente e moralmente in tutte le attività della vita quotidiana dei figli (Harrington 2006; Kay 2009), che va inquadrata la quarantena dei bambini e dei genitori italiani.
2.1. Io resto a casa. La multidimensionalità dello spazio domestico
Dopo l’iniziale momento di incertezza e confusione rispetto alla reale pericolosità del virus per la nostra salute, in cui si oscillava tra appelli di medici di base che invitavano alla prudenza[4] e dichiarazioni di alcuni esperti che lo derubricavano a “poco più di un’influenza”, con il crescere del numero dei contagi, dei ricoveri in terapia intensiva e dei primi decessi, lo scetticismo e la confusione hanno lasciato lo spazio a un movimento di responsabilizzazione collettiva, accompagnato da successivi decreti restrittivi della nostra libertà di movimento, ben sintetizzato dall’espressione “io resto a casa”. Più correttamente, le nostre vite hanno dovuto trovare spazio all’interno del perimetro di casa e l’ambito domestico è diventato l’emblema della nostra esistenza in quarantena per più di due mesi. La casa, rappresentata come il luogo sicuro in cui rifugiarsi lasciando il virus «fuori dalla porta», con il passare dei giorni e delle settimane ha assunto anche altri significati rivelando tutte le ambivalenze di un termine a cui nel senso comune ci riferiamo per descrivere metaforicamente un luogo accogliente, protettivo e “della famiglia”. “Famiglia”, “spazio domestico” e “domesticità” sono usati spesso in modo sinonimico e rivelano la concezione moderna di quell’«ideale domestico» (Allan and Crow 1989, 1) in cui la casa è storicamente diventata il luogo d’elezione delle relazioni intime e dove regolare i rapporti tra i generi e le generazioni.
Il significato di casa è però tutt’altro che univoco e condiviso dato il suo carattere «multidimensionale», (Mallett 2004) che può essere coniugato in due aree tematiche considerate solitamente slegate: «la prima riguarda l’esperienza del sentirsi a casa, ossia sistemati durevolmente in un luogo che ci “rappresenta” in senso identitario. […] La seconda […] concerne la pratica quotidiana dell’abitare la casa, “organizzandone” la configurazione attraverso una negoziazione costantemente rinnovata di responsabilità, tempi e spazi» (Rampazi 2010, 22). Se nella prima ci si riferisce più alla prospettiva della «casa-mondo», in cui è l’orizzonte temporale a definire un radicamento del soggetto, che risponde a un bisogno di sicurezza ontologica, nella seconda la casa è uno spazio fisico da abitare, che implica una presenza e un movimento di corpi «entro un contesto spaziale delimitato» (ivi, 27). È importante riconoscere che tanta parte del sentirsi ontologicamente a casa si costruisce attraverso la materialità di oggetti e di corpi, con età e generi diversi, che negoziano il proprio posto nel mondo sin dallo spazio domestico (Casey, Martens 2007; Mandich 2010; Miller 2008; Ochs and Kremer-Sadlik 2013), e che, pur definendosi nel presente, contiene in sé, tramite il concetto dell’abitare, anche la dimensione del divenire (Douglas 1991; Boccagni 2017). In questo senso parlare di famiglia attraverso l’analisi dello spazio domestico significa incorporare la memoria (che si materializza negli oggetti, nei ricordi e negli aneddoti famigliari) ma anche le dimensioni del futuro attraverso cui essa si costituisce nel tempo (Rampazi 1999; 2014), non solo nei termini del progetto e della previsione, ma anche dell’aspirazione, della speranza, del desiderio di “fare” casa (cfr. Cook 2018).
Ugualmente, questa doppia dimensione ontologica e fisica e quella del divenire non si sono attenuate, al contrario, si sono espresse con maggiore evidenza durante la quarantena. Quella ontologica, in particolare, si è manifestata attraverso un’incontenibile vocazione alla narrazione autobiografica. Sono state tante le autonarrazioni circolate spontaneamente in rete, così come gli inviti di case editrici, quotidiani, riviste scientifiche e generaliste a raccontare le giornate “in casa”, il risultato è stato sorprendente per la quantità di parole e descrizioni condivise per “dare un senso” alla propria esistenza a partire dalle proprie case[5]. Attraverso “il narrarsi”, talvolta anche in forma diaristica, i soggetti hanno cercato di radicarsi oltre un orizzonte temporale che per la prima volta è parso collettivamente, e non solo per alcuni soggetti marginalizzati, sospeso. Alcuni hanno testimoniato il loro presente più immediato e materiale offrendo scorci di vita domestica, altri non hanno smesso di proiettarsi nel futuro, non solo con la consumata formula dei buoni propositi di cambiamento personale, ma anche con più prosaiche proiezioni di quello che avrebbero fatto non “appena tornati” dalla quarantena[6]. Il racconto è servito anche come forma di evasione dalla dimensione fisica, quella spaziale e corporea della casa, che, come vedremo nel paragrafo successivo, può esercitare una certa «tirannia» sui suoi abitanti (Heller 1999).
2.2. Insieme ma separati. L’insostenibile presenza dei corpi
Le case, che erano luoghi di transito da un’attività extradomestica all’altra, si sono improvvisamente trasformate in microcosmi densamente coabitati in cui far convergere nella loro interezza le nostre vite prepandemiche. Le nuove tecnologie sono state – per chi le possedeva – lo strumento che ha reso possibile il mantenimento dei contatti con tutte le sfere di vita (lavorativa, scolastica, sociale, fisica e culturale) lasciate fuori dalla porta generando inedite riconfigurazioni famigliari nello spazio domestico. In letteratura, negli studi sull’impatto delle nuove tecnologie sulla vita famigliare, è stata coniata l’espressione living separately together (“vivere insieme separatamente”)[7] per riferirsi alle divisioni spaziali create all’interno della casa dai figli adolescenti che si ritirano nelle loro stanze tecnologicamente pluriaccessoriate per connettersi con il mondo esterno extrafamigliare (Livingstone 2002). Ugualmente, durante la quarantena le case sono diventate degli hub telematici attraverso cui il blocco della mobilità e l’assenza di presenza fisica sono stati per molti compensati, non tanto da un mantenimento, bensì da un’accelerazione di scambi con il mondo esterno. Il lavoro da remoto e la teledidattica, dopo un’iniziale fase di assestamento, sono ripartiti con dei micro-aggiustamenti che poco però avevano dello “smart working” e tanto invece del più tradizionale lavoro “da casa”. Lo smart working è infatti una forma più agile di organizzazione spazio-temporale del lavoro in base alle mansioni o ai compiti da svolgere che lascia una certa autonomia al lavoratore rispetto ai tempi e agli spazi in cui eseguirlo. Durante il lockdown, al contrario, il lavoro è stato obbligatoriamente svolto da una postazione domestica, il più delle volte, improvvisata[8]. Per questo, in primo luogo, dovremmo più correttamente definirlo come un “lavoro da casa”; in secondo luogo, dovremmo interrogarci su cosa sia il lavoro svolto da casa a livello di immaginari e da un punto di vista materiale e corporeo (Gregg 2011). Esso è infatti tradizionalmente il lavoro invisibile, non retribuito e dallo scarso valore sociale svolto dalle donne ed è materialmente un lavoro fisico che ha a che fare con la cura dei corpi ma anche con lo sporco e con la fatica (cfr. Marchetti 2004). Ciò che lo ha reso quindi un lavoro meno smart ma più domestico è stata la non riducibilità in questa occasione della casa a mero scenario per una performance lavorativa o a rifugio in cui ritirarsi all’occorrenza per sfuggire a dinamiche lavorative troppo pressanti e insistenti. La casa e la vita domestica hanno agito sulla dimensione lavorativa – così come quest’ultima è ricaduta sulle relazioni famigliari e sulle attività di cura – lasciando molta poca autonomia ai singoli di organizzarsi gli impegni lavorativi ma solo il tempo per rincorrere appuntamenti di riunioni e seminari a cui partecipare o scadenze di lavori da consegnare tra un’incombenza famigliare e l’altra.
Lo spartiacque nelle esperienze di quarantena tra i soggetti è stato infatti l’avere o non avere figli piccoli o in età scolare, vale a dire tra l’avere o non avere carichi di cura e di lavoro domestico per una casa sempre più “esigente” in termini di pulizie e di ordine. Se per alcuni questa interruzione della vita ordinaria ha significato una dilatazione del tempo, la possibilità di partecipare a maratone di lettura[9], di riscoprire un tempo per sé, attività o angoli della casa dimenticati, per altri è stato esattamente l’opposto[10]. Una compressione spazio-temporale che è ricaduta diversamente sui padri e sulle madri, come hanno segnalato in più sedi i primi risultati di alcune indagini che hanno valutato l’impatto del lockdown sugli equilibri di genere in famiglia (cfr. tra i tanti, Del Boca et al. 2020[11]; Alon et al. 2020), ma che non fa che confermare le disparità di genere e l’ordinaria difficoltà delle donne italiane a rimanere nel mercato del lavoro alla nascita del primo figlio e a rientrarvi successivamente[12].
L’attività di lavoro da conciliare con quella di cura all’interno dello stesso spazio e in orari spesso coincidenti ha generato una coreografia di movimenti degli abitanti della casa, prevalentemente adulti, alla ricerca di spazi in cui potersi temporaneamente isolare per ricongiungersi successivamente con i famigliari in altri ambienti comuni. Le testimonianze proliferate nella rete hanno raccontato di camere da letto trasformatesi in postazioni di lavoro “a chiamata”, di cartelli appesi alle porte delle camere per vietare l’ingresso con su scritto “papà/mamma sta lavorando” o, come nel caso dei figli adolescenti, un più tassativo “non entrate”, di balconi a cui affacciarsi, di finestre da cui osservare il mondo “là fuori” per essere rassicurati che qualcosa di vitale ancora scorreva fuori dalle routine domestiche del carico/scarico continuo di lavastoviglie e lavatrici, di tavoli da pranzo suddivisi tra figli e partner per lavorare e studiare[13], di auricolari con cui isolarsi in salotto mentre i figli piccoli giocavano, di giardinetti posseduti, condivisi o solo agognati in cui sgranchirsi le gambe, o sognare di poterlo fare, e dell’unico bagno in cui rinchiudersi desiderando di possederne «una chiave tutta per [sé]»[14]. Più di tutto, quello che queste storie hanno rivelato è che il senso di compressione non è stato generato unicamente dall’invasione reciproca tra le attività lavorative e quelle di cura – perché anche in un regime ordinario i dispositivi tecnologici o gli stessi carichi del lavoro e della famiglia producono continuamente questi sconfinamenti (Morgan 2011) – bensì dall’insostenibile presenza dei corpi, diversi in primis per età, in uno spazio limitato e per un tempo illimitato. Sembra quasi che la pandemia ci abbia fatto riscoprire che il nostro essere sociali significa, a tutti gli effetti, essere «soggetti incorporati» (cfr. Ghigi e Sassatelli 2018) e che, in particolare, la corporeità dei bambini è percepita dagli adulti come eccedente, fonte di disordine e, in quanto tale, bisognosa di limiti e di contenimento. Come vedremo nel prossimo paragrafo questa non è una recente scoperta, ma il risultato della costruzione sociale dell’infanzia sin dall’età moderna che si riverbera nel rapporto dei bambini con lo spazio pubblico e con quello domestico-famigliare.
3. L’ordinaria assenza dei bambini dallo spazio pubblico
Dalla nascita del «sentimento dell’infanzia» (Ariès 1960), inteso non come affezione ma come «coscienza delle particolari caratteristiche infantili che distinguono il bambino dall’adulto» (ivi, 145), prende avvio nelle società occidentali un processo di separazione del mondo infantile da quello adulto (Saraceno 1979). Guidato dalla duplice rappresentazione dominante del bambino come soggetto dionisiaco e apollineo, da disciplinare o da proteggere (Jenks 1996), esso ha portato alla progressiva scomparsa dei bambini dallo spazio pubblico e all’affermazione del principio di appartenenza delle strade agli adulti (Valentine 2004). Così si spiega la parallela diffusione di spazi specificamente progettati per il tempo libero dei bambini, «adatti ai loro bisogni, spesso distinti per età, distribuiti come isole nella mappa della città (Zeiher 2003, 66)», basata sull’assunto che i bambini possono nuovamente giocare fuori casa ma solo all’interno di aree designate e riconosciute come sicure dagli adulti e comunque sempre sotto il loro sguardo. Luoghi, questi, che esprimono la progressiva affermazione della «domesticazione» dell’infanzia» negli ultimi due secoli, la quale «non è semplicemente materiale, nel senso che i bambini spendono sempre più tempo a casa, ma è anche ideologica, poiché c’è una tendenza secondo la quale questo è il posto dove essi dovrebbero passare il loro tempo» (Holloway and Valentine 2000, 15).
Se lo spazio esterno è dominato dalla «geografia delle paure genitoriali» (Valentine 2004, 15), identificate nel pericolo dell’estraneo e del traffico automobilistico, nella paura del pedofilo, di episodi di violenza anche da parte di coetanei, il legame tra bambini e spazio domestico non solo è più saldo ma addirittura rafforzato. Parimenti il gioco che un tempo si svolgeva al di fuori delle mura domestiche e senza il controllo genitoriale, nelle strade, nelle piazze o nei parchi, è stato sempre più ristretto alla casa o a delle aree delimitate, protette e sicure, previste per questa finalità dagli adulti.
Alla luce di tali trasformazioni strutturali dell’infanzia nei paesi occidentali va riletta anche la pressoché inesistente attenzione data ai bambini, in termini normativi, durante la quarantena. La loro assenza nei decreti governativi di contenimento dell’emergenza epidemiologica che si sono succeduti il primo mese, chiarita solo tardivamente nella circolare del 31 marzo 2020[15], non ha invero nulla di anomalo, bensì è lo specchio dell’ordinaria assenza dei bambini dall’agenda politica e dal discorso pubblico[16]. Essa rivela una questione molto più complessa di una semplice mancanza di riferimento all’ora d’aria (presa in considerazione ad esempio sin da subito come esigenza per gli animali domestici), ma è espressione e sintomo dell’ambiguo riconoscimento dell’infanzia nella nostra società. Al di là delle retoriche sull’importanza sociale dei bambini, un figlio è infatti ancora una questione privata, un carico o un lusso della famiglia di appartenenza. Se da un lato i bambini sono trattati come soggetti affettivi dal valore inestimabile, e non più come meri soggetti produttivi all’interno dell’economia familiare, dall’altro, non appena prendono corpo e si fanno spazio nella società, la loro presenza non è più oggetto di un’accettazione incondizionata. La crescente regolamentazione di un uso autonomo dello spazio pubblico da parte dei bambini era d’altronde già riscontrabile in regime d’ordinarietà attraverso l’aumento di limiti e divieti di gioco con la palla, dalle piazze ai cortili condominiali, o alla luce della stessa carenza di spazi per i bambini in città che non siano dei recinti per il gioco (Satta 2014).
Tutto questo mostra quanto ordinaria e cronica sia la loro assenza in un paese come l’Italia ancora fortemente permeato a livello culturale, politico ed economico dei valori della famiglia tradizionale ma allo stesso tempo con uno dei più bassi tassi di fertilità in Europa (Eurostat 2017). In Italia, per via di un’impostazione ancora familistica del welfare, lo Stato continua a fare affidamento sulle famiglie (pur diverse per risorse economiche e sociali) per la cura, per la protezione sociale dei figli e per la promozione delle loro pari opportunità (Naldini 2018). Non deve quindi stupire che sia nell’alveo familiare a ricadere e a essere gestita anche l’emergenza sanitaria per i bambini e le bambine, con conseguenti differenze di opportunità e limiti a seconda delle condizioni socioeconomico-culturali e abitative della famiglia a cui “appartengono”.
Il “posto dei bambini” concesso o negato ci racconta pertanto molto di più di una questione solamente spaziale ma ci rivela i margini di inclusione, e esclusione, dei bambini nella sfera pubblica. Lo spazio che viene loro negato – oggi come pochi giorni prima dell’emergenza Covid-19 – non è altro che la rappresentazione in termini spaziali di una visione del bambino e delle modalità in cui una società regola i rapporti tra le generazioni. È simbolo delle relazioni intergenerazionali ma allo stesso modo condizione di queste relazioni. Ci racconta in sintesi di quanto, indipendentemente dalle dichiarazioni sul valore affettivo dei bambini, poco investiamo sul loro valore sociale, come dimostrano anche i preoccupanti dati sulla crescita della povertà minorile in Italia, che è economica ed educativa al tempo stesso (Openpolis 2019; Save the Children 2020b).
4. Dentro la famiglia, con i bambini
Nei paragrafi precedenti sono state evidenziate le principali tendenze socio-culturali, politiche ed economiche all’interno delle quali va interpretata la condizione dell’infanzia nella società italiana. La sua sacralizzazione, una nuova cultura della genitorialità, la demonizzazione dello spazio pubblico insicuro, con la conseguente istituzionalizzazione del tempo libero dei bambini e la loro domesticazione, li conducono sempre più all’interno delle famiglie e mai come durante questa emergenza sanitaria questa lettura apparentemente astratta si è rivelata in tutta la sua concretezza fisica e spaziale. I bambini sono stati cioè assorbiti dalla famiglia, sia a livello di normazione politica delle loro vite, sia di discorso pubblico.
A dire il vero, anche sotto questo aspetto, nessuna novità, almeno per la disciplina sociologica. Tradizionalmente ritenuti dei «piccoli oggetti insoliti» (Sirota 2010) o meri destinatari di cure e processi di socializzazione adulta, i bambini sono stati convenzionalmente ricompresi all’interno delle istituzioni educative principali, la famiglia e la scuola, venendo sempre nominati, studiati e descritti dagli adulti che hanno costruito una storia dell’infanzia a partire dalla loro prospettiva adultocentrica. In molti, agli inizi degli anni Settanta, quando una nuova attenzione rispetto al mondo infantile stava cominciando a diffondersi nell’ambito della sociologia e dell’antropologia, hanno paragonato la ricerca sui bambini a quella sulle donne poiché «sia le donne che i bambini potevano essere chiamati “i gruppi zittiti”» (Hardman 1973, 85).
Silenzio che stride con la centralità che i bambini hanno invece assunto progressivamente nelle nostre vite mutando, quantitativamente e qualitativamente, il coinvolgimento dei genitori contemporanei rispetto a qualche decennio fa in quello che è stato definito un «all embracing, child-centric parenting» (Och and Kremer-Sadlik 2013). Tuttavia, molte ricerche e riflessioni continuano a concentrarsi unicamente sul punto di vista dei genitori e sugli effetti della genitorialità (Furedi 2002; Satta 2017; Bertone 2017), come se fossero gli unici soggetti attivi nella costruzione “dell’unità famigliare” e tanta parte non fosse in verità giocata anche dai bambini con le loro riflessioni, i loro silenzi, capricci, desideri o semplici aneddoti. Ugualmente, durante la pandemia, i bambini sono stati raccontati e rappresentati visivamente dagli adulti o negli articoli di giornali che riportavano gli allarmi degli esperti sui danni di questo isolamento forzato nelle nostre case[17], o sui canali social dei genitori, più frequentemente madri, che attraverso i figli hanno messo in scena e costituito il loro ideale di famiglia. Di essi sono stati riportati talvolta ludicamente degli spaccati di vita quotidiana e talaltra più drammaticamente le difficoltà con la didattica a distanza, con la noia, con la mancanza dei nonni, dei parchi gioco o dello sport[18]. Poco o nulla abbiamo saputo delle loro scoperte, dei nuovi giochi che hanno imparato a fare, di quanto hanno contribuito anche loro a curare i genitori, e non solo a essere curati. Ci sono cioè mancate quelle che la sociologa Wendy Luttrell definisce «contro-narrazioni» sulla cura raccontate dai bambini (2013) e i modi in cui hanno eventualmente “sabotato” questi ideali famigliari.
Nel tempo sospeso della quarantena sembra essersi amplificato quello che Morgan chiama «family gaze» (2011, 93), uno dei dispositivi attraverso cui l’altro in famiglia è controllato, ma allo stesso tempo definito. Uno sguardo di cura che, pur essendo costitutivo delle relazioni famigliari nello spazio domestico, quando rivolto ai bambini non ammette reciprocità. I genitori sentono di avere non solo il dovere ma anche il diritto di osservare i propri figli in tutti i momenti e gli spazi della loro vita in casa, ma non ritengono che essi possano fare lo stesso nei loro confronti. Tuttavia, applicando l’inversione del fuoco prospettico sostenuto dalla sociologia dell’infanzia (Baraldi 2008; Corsaro 1997; James, Jenks and Prout 1998; Satta 2012), si può cogliere anche il ruolo attivo dei bambini in famiglia, per scoprire ad esempio come, pur essendo ossessivamente osservati, abbiano capacità mimetiche di ascolto con cui intercettano i discorsi privati “dei grandi” che vengono spesso candidamente spifferati alle insegnanti, ai parenti o ai genitori dei lori amici.
Questi spaccati di vita dei bambini in famiglia, seppur sempre più documentati (Brannen and O’Brien 1996; Jensen and McKee 2003; Seymour and McNamee 2012), sono però ancora trattati alla stregua di aneddoti. Ancora molto si deve fare per includere le loro voci nella ricerca.
Conclusioni
Abituati ormai da più di un decennio a “fare famiglia” fuori dalle nostre case, in tutte le attività di consumo e di tempo libero, e molto spesso a distanza, è certo che le relazioni famigliari abbiano avuto una rimodulazione interna durante l’esperienza straordinaria della pandemia. Il paradosso, in una fase storica in cui la teorizzazione della centralità dell’individuo autonomo, svincolato dai condizionamenti e dagli obblighi tradizionali, è stata accompagnata da una progressiva e consistente dismissione dello stato sociale dalle vite degli individui, è che molte persone si siano ritrovate a dover dipendere proprio da quei famigliari “condizionanti” per avere un supporto materiale e morale.
Nell’impossibilità di dare delle letture approfondite di un fenomeno in continua trasformazione, proprio a seguito della specificità di un virus ancora oggetto di studio, l’articolo ha proposto la prospettiva analitica delle pratiche famigliari di David Morgan come lente in grado di cogliere e comprendere le famiglie quali configurazioni fluide e campi di relazioni intergenerazionali, all’interno di mutamenti strutturali dell’infanzia e della genitorialità.
Mai come durante la quarantena infatti la famiglia si è configurata come una pratica spazio-temporale di cura che è sconfinata nel lavoro ed è dal lavoro stata invasa, così come dalle altre sfere della vita quotidiana tradizionalmente extra-domestiche (la socialità con amici e parenti, la didattica a distanza, l’attività fisica o meditativa, le attività culturali, eccetera). L’emergenza sanitaria ha avuto, come tutti i momenti di rottura di un ordine fatto di routine e di ritmi regolari, l’effetto di rendere visibile quanto la famiglia sia un fare, un insieme di attività, banali e eccezionali, che spesso accomuna le esperienze famigliari indipendentemente dalle differenze di classe o etniche ma altre volte le distingue. Il fare famiglia, sia esso un’incombenza giornaliera o un’ideale da raggiungere, richiede da parte dei suoi membri un quotidiano impegno, non privo di conflittualità, nella manutenzione e nel rammendo dei legami famigliari attraverso cui essi comunicano a se stessi e esternamente che “sono una famiglia”. Un’attenzione specifica meritano in tutto questo i bambini. Varie questioni li hanno riguardati in questo periodo: la chiusura delle scuole, il loro isolamento nelle case, la mancanza dell’ora d’aria, l’assenza dei contatti con i loro coetanei e le difficoltà della didattica a distanza. Alla loro invisibilità nello spazio urbano ha fatto da contraltare un’ipervisibilità nelle reti social dei genitori, se non sempre sotto forma di immagini da condividere, come racconti o aneddoti adulti delle loro giornate. Nuovamente, la straordinarietà della pandemia ha solo amplificato dinamiche e rappresentazioni che sono sempre state, e sono tuttora, sottotraccia nella vita ordinaria. I bambini, considerati “di pertinenza” delle famiglie, sono da esse stati inglobati e raccontati secondo uno script funzionale alla rappresentazione dell’unità famigliare.
Sostenere una nuova lettura della famiglia a partire dal punto di vista e dalle pratiche dei suoi membri più piccoli non significa, in una logica meramente additiva, aggiungere la “variabile” bambino, bensì assumere una prospettiva relazionale e processuale che lo riporti dentro la famiglia attraverso un’inversione del fuoco prospettico sulle relazioni genitori-figli (Satta 2020b). Essendo mancata in questo periodo la loro narrazione su come hanno “fatto famiglia” durante la pandemia e come l’hanno manifestata all’esterno, magari durante le video lezioni con i compagni e le insegnanti, non è escluso che si possa recuperare il loro ricordo tramite ricerche specifiche.
Certamente, questa focalizzazione processuale sulle pratiche non è slegata dalla cornice strutturale, con gli obblighi e i condizionamenti socio-economici e culturali, che le accompagna.
Le relazioni intime sono storicamente sempre state intrecciate a fenomeni su larga scala, sia nel favorire le trasformazioni della modernità sia nell’esserne influenzate. La stessa pandemia ha ad esempio acuito le differenze esistenti tra i nuclei famigliari e le loro case, generando o aggravando povertà abitative, alimentari e educative per i più giovani, e pare aver riconfermato orientamenti valoriali e stereotipi su infanzia e genitorialità ben radicati nella nostra società.
Un’attenzione alle pratiche non deve cioè far tacere dell’ambivalenza dei fenomeni.
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