AIS

2020/16

Scienza, expertise e senso comune: dimensioni simboliche e sociomateriali della pandemia (Science, expertise and commonsense: Symbolic and socio-material dimensions of the pandemic experience), di Olimpia Affuso, Maria Carmela Agodi, Flavio Antonio Ceravolo


Da emergenza sanitaria, la crisi pandemica è divenuta fatto sociale totale. Il consenso al lockdown generalizzato è stato l’esito di un’attribuzione negoziata di senso che ha coinvolto, sui media, scienza, expertise e senso comune. Un’infodemia, di notizie, campagne di comunicazione, dibattiti, ha prodotto un’unica grande narrazione e sollecitato forme espressive di cui si sono resi protagonisti artisti e persone comuni. All’inizio della crisi, la scienza dettava l’agenda, mentre la gente comune si esprimeva con pratiche e rituali di rassicurazione collettiva. Al rallentare del contagio, si è passati da una definizione sostanzialmente condivisa della situazione al proliferare di punti di vista tra loro divergenti. Le differenze di condizioni socio-materiali, su cui la pandemia e le misure di contenimento adottate avevano prodotto i loro effetti, venivano reinterpretate all’interno di alleanze emergenti e di prospettive alternative nei confronti del post-pandemia. La posta in gioco, adesso, per l’analisi sociologica, è far emergere una prospettiva riflessiva e responsabile nei confronti delle possibilità alternative che si aprono per un futuro oggetto di decisione collettiva.

The paper introduces the pandemic crisis in Italy ( but not only there) as a challenge for sociological analysis. Starting as a health emergency, the pandemic has impacted all domains of social systems and social life. The decision to stop most work and leisure activities to avoid the collapse of the health system resulted in a generalized lockdown. People’s compliance with lockdown measures was part of an ongoing negotiation of sense making that involved science, expertise and commonsense. The main arenas of this negotiation were traditional and social media. Particularly online, the discourse about the pandemic gave rise to an info-demic of not only news, science communication campaigns, comments and debates, but also engaged market communication and advertising, and expressive performances by artists and the public. At the start of the pandemic, science dictated the agenda while people were engaging in new social practices and rituals of mutual reassurance. As the spread of the pandemic slowed, the public arena experienced a shift from a common definition of the situation to the emergence of alternative ones. These new definitions stemmed from the differential impact of the pandemic in terms of socio-material conditions and inequalities, which were reinterpreted within the framework of emerging alliances and divergent perspectives on envisioned futures. What seems mow to be at stake is a reflexive and responsible stance towards those alternative futures.

La pandemia da SARS-CoV-2 ha rappresentato una vera sfida per la sociologia italiana. Iniziata come un’emergenza sanitaria, essa ha poi assunto i contorni di un vero e proprio fatto sociale globale. La decisione iniziale di istituire alcune zone rosse, a scopo di contenimento della diffusione del virus, e quella immediatamente successiva di estendere le misure di confinamento a tutto il Paese, per mitigarne la circolazione che minacciava di provocare il collasso del sistema sanitario, hanno prodotto una sorta di esperimento sociale in vivo (Islam et al. 2020), difficilmente concepibile sino a qualche tempo prima, se non negli immaginari coltivati dalla fantascienza[1]. Durante il lockdown, scienza, expertise e senso comune sono stati coinvolti in una negoziazione sul significato dell’esperienza che si stava consumando, che ha visto i media tradizionali dettare l’agenda della comunicazione ufficiale e i social media funzionare da camera di compensazione emozionale rispetto al tono generale della comunicazione, in cui agli esperti di ambito medico-sanitario – virologi, igienisti, epidemiologi, clinici – veniva demandato il compito di mantenere il difficile equilibrio tra preoccupazione/allarme, nella comunicazione del rischio, e rassicurazione, sulla gestione del suo controllo. Nella fase iniziale della pandemia, la scienza ha avuto l’onere di decodificare la situazione nella sua cruda dimensione socio-materiale, sequenziando il DNA dei ceppi del virus isolati in Italia e monitorando l’andamento della sua diffusione. Tale andamento veniva comunicato – con una conferenza stampa diventata un appuntamento fisso – attraverso i bollettini quotidiani della Protezione civile, che scandivano il susseguirsi delle giornate con un bilancio fatto di numeri dei contagiati, dei ricoverati nei reparti di terapia intensiva, dei morti; il senso comune contribuiva alla costruzione collettiva del significato dell’esperienza in corso, attraverso la sua elaborazione simbolica, che si manifestava prevalentemente in nuove pratiche sociali di condivisione e nuovi rituali espressivi, di rassicurazione reciproca. Al centro, a tenere insieme i due assi socio-materiale e simbolico della definizione collettiva della situazione, si è collocato il Presidente del Consiglio con i suoi decreti di emergenza (i DCPM) – che dettavano le azioni individuali e collettive con cui si decideva di rispondere alla situazione – e con le sue conferenze stampa – che promettevano: “ne usciremo migliori”.

Nelle fasi successive, quando la diffusione del virus è parsa rallentare, interpretazioni alternative di quel che stava accadendo e dei modi in cui lo si stava affrontando, hanno cominciato a trovare spazio e a contendere adesione e consenso alla definizione della situazione ufficiale. Queste diverse definizioni della situazione davano forma e concretezza alla consapevolezza crescente della contingenza, per un verso, e della diversità, per un altro, delle condizioni pre-esistenti su cui la pandemia e il lockdown avevano prodotto il loro impatto, così come alla diversità degli universi di senso dentro cui se ne cercava una rielaborazione orientata a nuove progettualità e a futuri alternativi.

Il Focus tematico di questo numero della rivista prende le mosse da una riflessione che la sezione AIS-Vita Quotidiana aveva lanciato, con una serie di seminari tematici sulle trasformazioni del senso comune nella società contemporanea; in particolare, il nucleo centrale del Focus origina dal seminario svoltosi a Pavia nell’ottobre 2019, sui mutamenti in corso nel rapporto tra scienza e senso comune. Riportare al centro dell’attenzione sociologica il concetto di senso comune appare opportuno per molte ragioni. In primo luogo, lo stravolgimento di pre-esistenti equilibri sociali, economici e politici produce l’intersecarsi di vecchie e nuove fratture (diseguaglianze sociali di genere, generazione, diritti, aspettative e opportunità) cui viene attribuito senso attingendo a modelli e stili di pensiero eterogenei che coesistono nello stesso contesto socioculturale. Inoltre, l’emersione e la diffusione sempre più capillare di fonti di informazione alternative, svincolate dalle forme istituzionalizzate di produzione e stabilizzazione della conoscenza e facilmente accessibili dal web, sembra aver sottratto alla scienza ed alla expertise scientifica il monopolio nell’accreditamento delle pretese conoscitive empiricamente controllabili (Nichols 2017; Tipaldo 2019; Corbellini 2019). In questa nuova situazione, ci si potrebbe spingere a ipotizzare, come oggetto di indagine sociologica, la coesistenza di una molteplicità di rappresentazioni sociali (Farr and Moscovici 1984; Farr 1995) e di stili di pensiero (Fleck 1935) che assumano la funzione del senso comune (Schutz 1962/1976; Santambrogio 2006; Jedlowski 2008; Zerubavel 2019) per specifiche comunità di pensiero o di destino.

L’attenzione, nel seminario pavese, si era focalizzata soprattutto sulla contemporanea presenza, nella sfera pubblica, di nuove pratiche di comunicazione della scienza – tese a sostenere un aumento di consapevolezza e di coinvolgimento dei cittadini nei confronti delle attività scientifiche – e di posizioni antiscientiste, fortemente critiche nei confronti dei saperi esperti e della scienza istituzionalizzata. Il mondo dei media digitali rappresenta una fra le arene di elezione di questa tensione fra posizioni dialetticamente opposte. Proprio per la loro natura di piattaforme informative disintermediate – come già ben spiegava Trench (2008) – i media digitali sono diventati uno tra i principali strumenti di diffusione e amplificazione della critica ai saperi scientifici istituzionali (Tipaldo 2019). La scienza, come istituzione, non sempre ha saputo intercettare adeguatamente la richiesta di accountability, per un verso, e di senso, per un altro, proveniente da una molteplicità di contesti tra loro differenti (Felt 2016) e che ha trovato specifici spazi e forme di espressione in queste arene comunicative, alimentando così sentimenti di alterità e diffidenza (Pellizzoni 2012). Originariamente questo focus tematico avrebbe dovuto raccogliere, ampliandole e mettendole a sistema, le riflessioni emerse nel seminario pavese. Poi è arrivato il SARS-CoV-2 a sconvolgere le vite di tutte/i e, insieme, il progetto editoriale su scienza e senso comune, così come era stato concepito.

Oltre che presentarsi come un vero e proprio fatto sociale globale, la pandemia si è subito manifestata come uno tra i fenomeni mediaticamente più pervasivi degli ultimi cinquant’anni. Per descrivere la poderosa tempesta comunicativa scatenatasi nel mondo dei media, tradizionali e digitali, sono stati utilizzati i concetti di “infodemia” o “crisi iperconnessa”. Sui media mainstream, il ruolo pubblico della scienza e dei pareri esperti è balzato prepotentemente al centro della scena; sui social media, hanno trovato spazio tesi che mettevano in dubbio le spiegazioni offerte dal mondo scientifico, sulla base di saperi alternativi (che chiamavano in causa, ad es., il collegamento con il 5G: cfr. Tipaldo et al., in questo volume) e di quelle forme di senso comune emergente di cui si diceva.

Contemporaneamente, i cittadini si sono trovati esposti, in maniera soverchiante ogni altro discorso ed esperienza[2], alla narrazione degli eventi drammatici che hanno duramente colpito, e in alcune regioni stravolto, prima la vita di intere comunità (Migliorati 2020) e poi ogni aspetto della vita economica e sociale del Paese (Di Cesare 2020). Come conseguenza dell’evidente difficoltà dei sistemi sanitari ad affrontare quella emergenza altrimenti e con le loro sole risorse – umane, organizzative, conoscitive e materiali – tutti i presenti sul territorio italiano sono stati vincolati a un lungo periodo di (quasi totale) confinamento nelle loro dimore[3] ed alle severe limitazioni collegate al distanziamento fisico[4]. Queste condizioni inedite di vita hanno indotto una rapida ridefinizione delle relazioni sociali, del lavoro, della produzione e distribuzione di beni e servizi, primi tra tutti quelli educativo-scolastici, della vita familiare, dei consumi, della ricerca e della formazione universitaria, riconfigurando molte delle attività attraverso le connessioni online e la migrazione sulle piattaforme digitali. Durante il lockdown, sono riemerse in tutta la loro drammaticità le diseguaglianze nelle condizioni di vita e nell’accesso alle risorse materiali e immateriali (si pensi solo all’incidenza che ha assunto nella pandemia il digital divide) e si sono ridisegnate gerarchie (esplicite) di vulnerabilità e (implicite) di sacrificabilità di soggetti (Dyer 2020), su base demografico-sociale, culturale ed economica, che hanno messo in luce forme sino a quel momento latenti di stratificazione sociale delle chances e delle condizioni di vita. Tutti questi fattori hanno indotto una profonda trasformazione non solo nelle pratiche sociali, ma anche nella sfera simbolica a queste connessa. Le implicazioni e le conseguenze sulla società del prossimo futuro sono ancora aperte ma chiamano a un’assunzione di responsabilità la disciplina sociologica, che ha risposto con una mobilitazione che ha coinvolto la comunità scientifica dei sociologi sin dalle primissime fasi della pandemia.

La scelta della Rivista è stata allora quella di dare un proprio contributo, ampliando gli obiettivi del Focus tematico già programmato per offrire una riflessione su come saperi scientifici e senso comune abbiano contribuito, in tensione tra loro e con la mediazione di varie forme di expertise o di espressività, a dare significato all’esperienza della pandemia, per interrogarsi sul presente e per proiettarsi in un futuro che facesse i conti con il passato appena lasciato alle spalle.

Tra le possibili chiavi di lettura dei saggi raccolti in questo speciale Focus tematico, ne proponiamo tre che ci paiono contribuire a una interpretazione meditata e orientata al futuro. La prima delle tre si concentra sulle grandi narrazioni che hanno caratterizzato la sfera pubblica e sugli attori che hanno popolato la scena della comunicazione, in una convergenza sinergica tra scienza e senso comune. La seconda guarda alle tensioni che, prima sotto traccia poi sempre più apertamente, hanno attraversato i diversi sistemi di conoscenza e di orientamento di senso, mostrando la dialettica interna sia alla scienza sia al senso comune. La terza chiave di lettura interroga la negoziazione tra diversi sistemi di conoscenza e di costruzione di senso da una prospettiva sociologica più profonda, che vi rintraccia in filigrana i dilemmi della tarda modernità.

Seguendo la proposta di alcuni degli articoli presentati di seguito (Tipaldo et al.; Saracino, Anzivino et al.) possiamo dividere l’arco temporale che va dalla fine del mese di febbraio alla fine del mese di maggio in due periodi differenti fra loro.

Il primo è contrassegnato da due elementi essenziali di una narrazione collettiva che si è sviluppata progressivamente: la presa di coscienza della gravità della situazione e la scelta, conseguente, di costruire un framework comunicativo della rassicurazione. La scena mediatica di questo periodo, che comprende quasi tutta la Fase 1 del lockdown, è stata fortemente influenzata, da un lato, dall’esigenza, avvertita dai diversi pubblici e largamente alimentata dai palinsesti, di reperire quante più informazioni possibili; dall’altro, dal repentino cambiamento della tonalità emotiva dell’intero Paese. Sui media hanno trovato spazio entrambi questi aspetti, in una sorta di divisione del lavoro narrativo fra canali tradizionali e digitali. I media tradizionali sono stati il palcoscenico dell’informazione istituzionale e di una narrazione corale centrata sulla rassicurazione e sull’impegno comune, di cui lo slogan “io resto a casa” è divenuto il mantra condiviso. I media digitali, in particolare i social network, hanno invece ospitato, soprattutto nei primissimi giorni, espressioni variegate e multiformi dello stato emotivo degli italiani – di ansia, innanzi tutto, cui con la rassicurazione si provava a rispondere – e dopo una parziale presa di distanza dalla comunicazione istituzionale, stemperata soprattutto nell’ironia, hanno sostenuto la sua elaborazione attraverso pratiche e forme di socialità altra, rispetto a quella consueta.

Come mostrano i dati presentati da Anzivino et al. e da Saracino, la televisione e la radio hanno confermato il loro ruolo cruciale di vettori di informazione nelle situazioni di crisi generalizzata. Proprio su questi media “tradizionali” si è imposta all’attenzione del pubblico una pressoché continua presenza di esponenti del mondo scientifico e delle sue agenzie istituzionali (Istituto Superiore di Sanità e Organizzazione Mondiale della Sanità, innanzitutto). Potremmo quindi dire che la scienza è stato il primo grande attore collettivo di questa narrazione condivisa e i mezzi di informazione più tradizionali il principale palcoscenico. Alcuni hanno salutato questo fenomeno come una rivincita della scienza e dei saperi esperti sul senso comune. Si è trattato però di una diagnosi quanto meno affrettata. Che gli italiani dichiarino una fiducia piuttosto alta nella scienza non è una novità (si veda la ricostruzione proposta da Saracino, nel suo contributo). È vero che in tutte le rilevazioni condotte da più istituzioni di ricerca nelle prime settimane della crisi questa fiducia sembra toccare i suoi massimi livelli, così come quella nelle altre istituzioni. Anche i dati presentati da Anzivino et al. confermano chiaramente questa tendenza ma, allo stesso tempo, insinuano il dubbio che si tratti di una fiducia parzialmente contingente, legata allo stato emotivo di preoccupazione dei cittadini. A corroborare questa ipotesi concorre anche la constatazione che una quota rilevante di italiani, se da un lato dichiara di avere fiducia nelle informazioni provenienti da istituzioni medico-scientifiche, dall’altro lato afferma di credere a notizie chiaramente rifiutate dalla comunità scientifica, come quelle sulla genesi artificiale del virus.

Data la condizione di paura per il virus e l’angoscia causata dalla mancanza strategie di fronteggiamento diverse dall’auto-confinamento, ad accrescere il livello di fiducia espresso dagli italiani nelle istituzioni scientifiche, in questa condizione di crisi, potrebbe essere stata, la ricerca di messaggi univoci che ha trovato, soprattutto nelle prime fasi della pandemia, risposta in figure istituzionali che hanno esercitato una funzione credibile di rassicurazione. Nello stesso modo può essere letta la repentina crescita della fiducia nei governi nazionali e nelle istituzioni cui essi si appoggiano. Secondo i dati riferiti a questo primo periodo e presentati da Saracino, la Protezione Civile è segnalata come l’istituzione di cui gli italiani si fidano di più per uscire dalla crisi. Allo stesso tempo le opposizioni e i movimenti critici nei confronti delle istituzioni perdono consensi, per tutta questa prima fase, in tutti i sondaggi. Anche i dati presentati da Anzivino et al. vanno in questa direzione. La narrazione condivisa richiama all’unità e assegna quindi alle istituzioni ed ai comitati tecnico-scientifici cui queste sembrano essersi affidate, il ruolo guida. Anche la politica, in maniera piuttosto evidente, cede il passo demandando a quei comitati (e a ciò che rappresentano simbolicamente) parte della responsabilità del governo della crisi.

A questa narrazione condivisa, incentrata sui valori di unità e solidarietà, contribuisce anche la decisa azione, in campo comunicativo, dei grandi brand del mondo della produzione per il consumo. Come mostra chiaramente la riflessione proposta da Giorgino, il mondo della pubblicità, pur con importanti differenze di accenti, assume unitariamente un carattere di sostegno allo sforzo comune degli italiani. Tutti i principali brand si riposizionano nella scena pubblicitaria, investendo in pratiche di brand activism e nella costruzione di narrative sempre più intrinsecamente legate all’evoluzione della situazione ed al richiamo comune alla responsabilità individuale e alla fiducia in una soluzione positiva della situazione. I tempi e le strategie di reazione delle aziende alla situazione contingente sono stati ovviamente molto eterogenei, ma si può comunque cogliere trasversalmente un cambio di passo generalizzato del mondo pubblicitario, nell’assegnare centralità alla dimensione narrativa della comunicazione e nel ripensare il rapporto con la propria community di consumatori, in funzione della drammaticità del momento. In molti degli spot prodotti in questo periodo, la dimensione valoriale dell’appartenenza identitaria, il richiamo al rispetto delle regole, la celebrazione dell’unità nazionale e delle capacità di resistenza degli italiani diventano gli asset comunicativi principali. Se da un lato è innegabile che queste strategie siano funzionali agli obiettivi economici delle aziende – non perdere posizionamento e coltivare il rapporto con un pubblico diventato, nell’emergenza, meno sensibile ai richiami tipici del consumo come attività costitutiva di senso – dall’altro non si può sottovalutare il ruolo pubblico dei brand nell’alimentare un immaginario di positiva risposta collettiva e identitaria all’emergenza, recuperando spazio nella dimensione simbolica.

In questo frangente, il mondo dei social network, terreno di elezione per la partecipazione di individui e gruppi non organizzati alla discussione pubblica, si manifesta come grande osservatorio sull’opinione pubblica disintermediata, che già dalla prima fase consente di rilevare un’evoluzione delle rappresentazioni proposte nei post e nei tweet degli italiani. Nelle prime battute della crisi si è potuta cogliere sui social una forte vena ironica tesa a sdrammatizzare le notizie che si facevano sempre più preoccupanti e le costrizioni connesse al distanziamento fisico. A questa prima reazione comunicativa, si sono poi affiancate le manifestazioni di solidarietà, nei confronti delle zone più colpite del Paese, e di vicinanza a quanti si trovavano in prima linea nel fronteggiare l’epidemia. Sono stati trovati nuovi modi per comunicare, facendo rimbalzare pratiche che reinventavano la socialità (ad esempio, i canti sui balconi) dal mondo materiale a quello immateriale della rete (con i concerti live multi-situati, organizzati in diretta sia da artisti affermati che da persone comuni) per amplificarne la portata e per costruire spazi condivisi di socialità che consentissero di superare il senso di isolamento, scaturito dai limiti imposti dalle misure di distanziamento. In questo primo periodo, i social network sembrano essere stati meno interessati che in precedenza alle teorie cospirative; ma questo non significa che non abbiano trovato voce nella rete anche narrazioni antiscientifiche – che tuttavia, nelle primissime fasi, non sembravano raccogliere un consenso significativo, relegate a una sostanziale subalternità rispetto all’esigenza di costruzione di una forte reazione collettiva.

Mettendo allora a sistema gli elementi proposti nei contributi che seguono, potremmo affermare che tutti i principali attori della scena comunicativa, nella prima fase dell’emergenza, si ritrovano accomunati in una grande narrazione che insiste sulla necessità di una reazione collettiva alla crisi e che ingaggia tutti i cittadini in un grande sforzo di solidarietà condivisa. Dopo qualche settimana, tuttavia, la situazione appare radicalmente mutata e sulla scena pubblica, in particolare nei social network, riprendono vigore le spiegazioni alternative e le interpretazioni pseudoscientifiche della pandemia.

Passato lo shock iniziale, gli italiani colgono con preoccupazione l’eterogeneità delle posizioni che emergono dal mondo scientifico istituzionale e trovano espressione sui media – tradizionali e non – dove va pubblicamente in scena la dialettica interna alla comunità scientifica, in una situazione che è tipicamente quella della scienza “in costruzione” (Latour 1987); l’effetto di disorientamento sul pubblico, di questa situazione, viene ben colto dai dati raccolti nella seconda rilevazione di OBSERVA presentata nell’articolo di Saracino. Anche sui social network si affacciano con sempre maggiore insistenza segnali di diffidenza nei confronti della scienza ufficiale. I dati utilizzati da Tipaldo et al., tratti da conversazioni su Facebook, mostrano molto bene e per via esemplificativa il cambio di contenuti e di tonalità emotiva sui social network: dall’adesione alla grande narrazione collettiva della rassicurazione si passa a una polarizzazione fra sostenitori delle istituzioni, da una parte, e, dall’altra, gruppi sempre più numerosi di cittadini che danno credito alle tante istanze cospirazioniste e/o orientano le loro pratiche personali in direzioni sempre meno congruenti con le indicazioni dei comitato tecnico-scientifici.

Nel frattempo, cambia il framework comunicativo che, dalla narrazione del presente, passa all’anticipazione delle conseguenze per il futuro. Sia sui media tradizionali che sui social media compaiono diversi modelli che consentono di fare proiezioni sulla fine della pandemia e si innescano discussioni che mettono in questione l’efficacia e la ulteriore necessità di proroga delle misure di confinamento domestico e di distanziamento fisico. Potremmo sostenere che questa seconda fase vede la progressiva disgregazione del clima unitario creatosi in precedenza, con l’irruzione, in tutte le sedi, di conflitti comunicativi fra esperti e attori istituzionali. La eterogeneità delle posizioni provenienti dal mondo scientifico e rappresentate nei media potrebbe essere di fatto il meccanismo di innesco di un disorientamento che, alimentato dal disagio accumulato nel periodo del lockdown e dai vissuti di categorie sulle quali questo è pesato in modo diseguale (si vedano i saggi di Satta e Picardi su famiglie e bambini/e), riapre il varco (che temporaneamente si era ristretto) all’attribuzione di credibilità a credenze di senso comune e a teorie pseudo scientifiche.

La seconda chiave di lettura dei contributi raccolti in questo volume consente di cogliere, lungo tutto il percorso di riflessione in cui ci accompagnano, proprio quelle tensioni che comunque, in seguito all’irruzione del nuovo Coronavirus nella vita quotidiana dei singoli e nel tessuto sociale più generale, si erano da subito manifestate nei sistemi di conoscenza e di orientamento di senso (Agamben 2020), nelle pieghe della grande narrazione corale che sin qui abbiamo descritto.

La risposta alla pandemia ha messo letteralmente sottosopra un intero mondo di pratiche e di credenze stabilizzate, stravolgendo le abitudini di ognuno e richiedendo la mobilitazione di nuove risorse cognitive e relazionali. In un breve lasso di tempo, i vari ambiti istituzionali della politica, in particolare di quella sanitaria, della comunicazione e della scienza, per limitarci a quelli principalmente indagati nel nostro Focus, si sono trovati a fronteggiare una situazione del tutto inedita, con la necessità di trasmettere informazioni che fossero ritenute attendibili e di prendere decisioni la cui efficacia dipendeva dal consenso. Passata la prima fase di risposta all’emergenza, quegli stessi ambiti istituzionali hanno sperimentato la fatica di progettare un percorso di ritorno a una normalità tutta da ridefinire, in relazione alla quale cosa sarebbe stato (e avrebbe dovuto/potuto essere) “come prima” diventava oggetto di contesa.

In tale contesto, l’incertezza che scaturiva dall’improvvisa cesura nelle routine della vita quotidiana ha rappresentato il luogo di sperimentazione di nuove risorse di attribuzione di senso all’esperienza che si stava intanto vivendo (Jedlowski 2020) e, quindi, di orientamento nella gestione della situazione. Il SARS-CoV-2 ha costituito un momento di rottura della vita sociale capace di mostrare efficacemente e inaspettatamente le contraddizioni di un passaggio d’epoca; i limiti delle conoscenze su cui si basano i sistemi esperti che pretendono fiducia generalizzata in una realtà che essi stessi contribuiscono a costruire (Giddens 1990); le criticità sistemiche dei diversi sistemi socio-sanitari, dei diversi sistemi economici e di welfare. E si è posto come elemento di disambiguazione di non pochi processi alla cui ambivalenza di senso, per molti versi, ci si era socialmente assuefatti. Tra quelli su cui i contributi si focalizzano, emergono i processi che generano differenziazione nelle scelte di politica sanitaria, ai vari livelli, nei diversi paesi sviluppati (Giarelli e Vicarelli, in questo volume); quelli che producono diseguaglianze di accesso alle cure e alla tutela della salute (Terraneo); i meccanismi di produzione della sfiducia nella scienza e nelle istituzioni (Tipaldo et al.); il ruolo del marketing pubblicitario e dei brand, nella costruzione di frame interpretativi che sostengono una ben definita lettura della realtà sociale (Giorgino); i diversi modi di “fare famiglia” (Satta); il confinamento nella sfera privata delle relazioni di genitorialità e dei processi educativi (Picardi); l’ibridazione di umani e non umani, da un lato, di scienza nel suo farsi e scienza pronta “per l’uso”, dall’altro, che rimette in questione – senza tuttavia rinunciarvi – le distinzioni tra società e natura, tra scienza e politica, tra ontico e deontico, su cui si è fondata la modernità (Viteritti).

Il terzo filo che tiene insieme i diversi contributi può essere ricondotto all’invito a una riflessività più radicale, nella ricerca sociologica, sulla tarda modernità e le sue emergenze. Dall’analisi delle questioni che la crisi scatenata dal nuovo Coronavirus ha reso ancor più ineludibili di quanto già non fossero, emerge una duplice consapevolezza: a) che la possibilità di decifrarle è connessa alla elaborazione di quadri interpretativi che orientino la ridefinizione delle alternative di evoluzione possibili; b) che la riproduzione delle condizioni strutturali, che coinvolgono la dimensione simbolica dell’ordine sociale e le pratiche socio-materiali implicate, ostacola la ricomposizione di fratture e diseguaglianze nella direzione che consenta il pieno dispiegarsi di energie innovative ed il superamento dello stallo generato da conflitti che chiudono, anziché aprire, nuovi orizzonti di possibilità.

Nell’emergenza, la fragilità delle condizioni dei soggetti che la pandemia ha rivelato più deboli, i loro mondi vitali, le loro vulnerabilità esistenziali, sono apparse squarciando il velo (intessuto di indicatori, parametri, soglie, apparentemente neutri) che i diversi sistemi di governance sanitaria hanno steso sulla fragilità e la vulnerabilità sistemica e infrastrutturale dei diversi regimi sanitari, in termini di distribuzione territoriale dei presìdi e dei dispositivi, di accesso alle cure, di sorveglianza epidemiologica. Contestualmente, la pandemia ha messo in rilievo quanto le scelte socio-sanitarie, compiute nei vari paesi, secondo i diversi contesti valoriali, regimi di welfare e reti locali di relazione, producano conseguenze nei meccanismi del contagio e nei processi di cura che vanno ben al di là dei confini nazionali e rivelano il costo, non solo sociale ed economico ma anche bio-politico, della mancata convergenza verso una strategia internazionale comune.

Alle risposte alla crisi, secondo modalità di adattamento e innovazione, che si sono manifestate integrando, ad esempio, le nuove tecnologie entro pratiche pre-esistenti o inventando nuovi fini per pratiche stabilizzate, hanno fatto da contrappeso inadeguatezze sistemiche e di contesto che hanno inciso sulle capacità di resilienza e sulla effettività delle condizioni per cui le azioni messe in campo, nei diversi ambiti, generassero cambiamenti capaci di proiettare nel futuro una risposta sistemica alla possibilità – oggettiva – di una nuova crisi.

In relazione a tali fattori, la crisi pandemica si è rivelata un’occasione per ricontestualizzare, in riferimento a questo momento storico, la riflessione delle scienze sociali su agire sociale, pratiche, mutamento, struttura sociale (Sewell 1992); sui processi di strutturazione e de-strutturazione dell’agire sociale; su istituzionalizzazione e de-istituzionalizzazione; su concezioni del futuro (Heilbroner 1995; Jedlowski 2017) che si spingono oltre la mera previsionalità; sull’intreccio tra dimensione socio-materiale e dimensione simbolica e su quella metamorfosi del mondo, non ancora pienamente teorizzata, che accompagna la globalizzazione (Beck 2016).

Di questa attenzione alla dinamica sociale tra potenzialità di mutamento connesse all’agire sociale e inerzia delle pratiche stabilizzate, che è al contempo una dinamica tra disarticolazione e ri-consolidamento del senso comune, c’è traccia in tutti i saggi. Guardando alle diverse arene dell’azione pubblica e dei discorsi istituzionali, scientifici, politici e simbolici, gli articoli che seguono concorrono, nel loro insieme, a dare un contributo specificamente sociologico alla riflessione su quanto l’irruzione di un evento inedito rivela di questionabile del già noto che ad esso pre-esiste.

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Zerubaviel, E. (2019), Dato per scontato. La costruzione sociale dell’ovvietà, Roma, Meltemi.


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Il film di fantascienza Contagion di Steven Soderbergh del 2011, sceneggiato con la consulenza degli studiosi dell’American Center for Disease Control, che racconta di una pandemia molto somigliante a quella da SARS-CoV-2, trasmesso in prima serata da Mediaset ai primi di maggio, è diventato peraltro un cult, catalizzando eventi e fruizioni collettive live sui social media (una diretta Fb di visione collettiva del film è stata organizzata dal collega sociologo Davide Bennato).

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Viene in mente la disfunzione narcotizzante di cui parlavano Lazarsfeld e Merton (1948) alle origini degli studi sui mass media.

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Nelle case, per la maggior parte, oppure nei luoghi di permanenza loro destinati (carceri, Residenze Sanitarie Assistite, ecc.); per i senza dimora si sono trovate volta per volta soluzioni diversificate, da comune a comune, con enormi difficoltà per i welfare locali e per le organizzazioni di terzo settore.

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In realtà, la locuzione usata è stata quella di distanziamento sociale, anche se si trattava di distanziamento fisico. Il perché lo spiega bene Davide Bennato sul suo blog, Tecnoetica. L’epidemiologia è una disciplina del XIX secolo e mantiene una locuzione che risale a quell’epoca. «Nel XIX secolo la vicinanza sociale presupponeva la vicinanza fisica […]. Il XX secolo prima – lettere, telefono – e il XXI secolo poi – internet, social media – ci hanno abituato alla possibilità di interagire con le persone anche in mancanza della loro presenza fisica. In pratica il XXI secolo ha disaccoppiato il rapporto fra spazio fisico e interazione sociale, vero dogma delle scienze sociali del XIX secolo (a cui l’epidemiologia deve una parte del suo vocabolario tecnico). Nel XXI secolo la distanza sociale non esiste se non come esplicita scelta delle persone, mentre la distanza fisica è una possibilità piuttosto concreta (come stiamo amaramente imparando). Quindi quando sentiamo dire in TV ‘distanza sociale’ […] stiamo ascoltando un linguaggio da XIX secolo, in un medium del XX secolo, in una situazione sociale da XXI secolo» (tecnoetica.it/2020/04/04/nel-xxi-secolo-la-distanza-sociale-non-esiste).

  • Articolo
  • pp:57-68
  • DOI: DOI: 10.1485/2281-2652-202016-4
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