Premessa
Il problema dei rapporti fra scienza e sistemi sociali si pone fin dagli albori della società moderna, da quando cioè ci si interroga sul controllo e sulla presa di distanza dalla natura e dalla credenza religiosa sull’origine del mondo. Questa storia ha dunque alle spalle una lunga tradizione di studi e di riflessioni. Di nuovo, c’è forse il fatto che il dibattito – almeno fino alla comparsa del Sars-CoV-2 – sembra aver perso di interesse tra gli studiosi o magari di essersi troppo ripiegato su di uno specialismo tra eruditi di sociologia della scienza. Ora, per quanto non manchino certo questioni su cui dibattere, ciò che faremo col nostro contributo, di carattere volutamente non specialistico, è fornire alcune essenziali suggestioni sull’argomento, che rimane comunque complesso per quanto attualissimo, allo scopo di ridestare su di esso un minimo di interesse pubblico. Suggestioni legate però da un convincimento: che la scienza, più che pretendere autorità, dovrebbe mostrarsi autorevole e adoperarsi per fornire all’uomo un sostegno di senso, lasciandosi con ciò ispirare dai principi dell’umanesimo. Tale convinzione si palesa da subito, già nella prima parte del contributo, quando, facendo leva sulla nota lezione weberiana sulla professione di scienziato e su quella durkheimiana di sociologia come “scienza della libertà”, viene auspicato per la scienza lo specifico ruolo di servizio, inteso come chiarificazione del senso in vista delle scelte da compiere e nell’insegnamento alla tolleranza e al rispetto dell’uomo per l’uomo. Segue una lunga parte sul legame tra scienza e democrazia, declinato in tre diversi modi. Nel primo, dove l’esito auspicato, popperianamente, è una democrazia che assuma a modello il metodo della scienza stessa, così da doversi preoccupare meno della ricerca di “verità” e più – mediante discussione pubblica – di comporre il consenso intorno alla falsificazione delle proposte politiche. Nel secondo, dove piuttosto che far leva sulla similitudine si evidenzia il rapporto conflittuale tra scienza e democrazia. Si tratta di una suggestione che, con Beck, dà evidenza del potenziale di “contropotere” goduto dalla scienza nei confronti del potere politico. Un contropotere di tipo discorsivo, utilmente sfruttabile – se si vuole – per smentire “verità” che la politica tenta di trattare come evidenti. Nell’ultima declinazione il focus è lo specifico rapporto tra scienza e democrazia nella società digitale. Qui il punto di domanda, con l’aiuto di Stefano Rodotà, volge verso la relazione tra democratizzazione della conoscenza e pratiche di partecipazione e di decisione, potenzialmente favorita dalla connessione globale e dalla grande quantità di dati e informazioni disponibili sul web. L’articolo si chiude infine su considerazioni legate al tempo di pandemia che stiamo vivendo, e si domanda se, in un’epoca di diffuso scetticismo se non di affidamento fideistico a idola vari, la scienza tutta, non solo quella medica, non stia godendo di una rinnovata fiducia pubblica, non solo nel suo essere dispensatrice di soluzioni, ma anche per la motivazione che ha fornito al costituirsi di comunità virtuali intorno ai temi della Covid-19. Si tratta di avvenimenti che dimostrano forse la resilienza della scienza, probabilmente del tipo più forte tra i sistemi culturali creati dalla modernità, e che, se corretto quanto sostenuto nel contributo, mostra anche con chiarezza il compito sociale che principalmente ci si aspetta da essa, e da noi condiviso: preoccuparsi della buona esistenza dell’uomo in società.
Quale compito della scienza nella società?
Qual è dunque il compito della scienza nella società? La risposta, come detto, si compone di suggestioni, che ricaviamo salendo sulle spalle di “giganti”, elaborate a mo’ di mappa concettuale e sviluppate per punti. Il primo di questi si riferisce al ruolo dello scienziato in società. Senza coinvolgere la lunga tradizione di studi di sociologia della scienza (Bloor 1976, trad. it 1998; Bucchi 2002; Guizzardi 2002), e volendosi appunto soffermare sole su suggestioni, è facile qui individuare le spalle su cui salire. Sono quelle di Max Weber e della sua nota lezione sulla professione dello scienziato (Weber 1919, trad. it. 19662). È passato giusto un anno, era il 2019, dal centenario della famosa Conferenza, successiva di poco di quella sulla politica, con la quale Weber si rivolgeva agli studenti più come un maestro di vita che come studioso. Si tratta di una Conferenza esemplare, unanimemente considerata pietra miliare della storia del pensiero sociologico. Il suo focus è la ricerca del senso di “fare scienza”. Weber pensa che la scienza, e lo scienziato con essa, sia molto importante per la società perché ha dei compiti basilari da svolgere. Attrezzarsi, innanzitutto, per potenziare il benessere – anche materiale – degli uomini e dunque non asservirsi alla autorità di chi sostiene che la tecnologia sia un fine e non un mezzo. Ma soprattutto, deve provare a dare “senso” alla vita. In che modo? Si tratta, come è evidente, della stessa domanda che egli si è posta per tutto il corso della vita, convinto com’è che si viva in un’epoca di disincantamento del mondo e di politeismo di valori e che, con riguardo al tema della Conferenza, ha perciò senso domandarsi cosa significhi “fare scienza”. La risposta è nota: compito della scienza non è indicarci come vivere, perché non può (e non deve) suggerire i “fini giusti o esatti” da perseguire, scopo invece della religione; piuttosto, essa deve orientare la scelta fornendo i “mezzi” più idonei a comprendere quale direzione convenga prendere. In altre parole, la scienza, se non può fornire soluzioni di vita, visto che nessuno può farlo a meno che non sia dettata da fede o da ideologia, può almeno contribuire a produrre conoscenze che aiutino a scegliere nel migliore dei modi, in consapevolezza e con la chiarezza delle conseguenze e dei significati che ogni decisione porta inevitabilmente con sé. Questo è il compito e la vocazione dello scienziato, il suo Beruf, che, con il suo lavoro, illumina di senso le decisioni possibili in un contesto di politeismo dei valori. Vale la pena riportare il passo in cui ciò viene asserito:
Che la scienza sia oggi una ‘professione’ specializzata, posta al servizio della coscienza di sé e della conoscenza di situazioni di fatto, e non una grazia di visionari e profeti, dispensatrice di mezzi di salvazione e di rivelazioni, o un elemento della meditazione di saggi e filosofi sul significato del mondo, è certamente un dato di fatto inseparabile dalla nostra situazione storica, al quale, se vogliamo restar fedeli a noi stessi, non possiamo sfuggire (ivi, 38).
Qual è l’insegnamento che traiamo da questo grande pezzo di storia concettuale? Da esso ricaviamo senza dubbio indicazioni sul compito da attribuire alla scienza (sociale), che è quello di rischiarare le menti degli uomini, di offrire loro spiragli di luce nel caotico mondo del politeismo dei valori e di fine certezza. All’interno del mercato delle idee, la scienza può cioè aiutare a riflettere ma non a fornire verità assolute. Rischiarare, però, è solo un primo passaggio. Nel momento in cui fornisce le coordinate per comprendere e orientare nel mondo, la scienza rende anche responsabili. Fa questo perché circoscrive un’idea, un’opinione, una prospettiva che facciamo nostra. La rende parziale e allo stesso tempo ci informa sulla limitatezza e sulla non assolutezza della verità, aumentando così anche la nostra capacità di tollerare e di riconoscere il valore e la legittimità delle altre prospettive. Che è poi un suo secondo compito. Oltre che rischiarare, a rendere responsabili, la scienza infatti insegna e promuove tolleranza. Ed è interessante notare come ciò sia anche l’opinione di Émile Durkheim, un altro gigante del pensiero sociologico, a cui peraltro Weber è sempre stato contrapposto. Anche per questo studioso (Durkheim 1950, trad. it. 2016), la scienza ha un compito etico, che nello specifico si traduce nella liberazione dell’uomo. La scienza (sociologica), per il sociologo francese, è infatti soprattutto «scienza della libertà», per usare un’espressione di Bauman (2014, trad. it. 2014), con il compito di spiegare e diffondere l’idea di una libertà conseguenza della valutazione della giustezza dell’obbligatorietà sociale, dunque determinata dalla costruzione di una società politica giusta. Ciò significa intendere la libertà come un fatto collettivo e non individuale, possibile solo nel rispetto di regole socialmente costituite e in linea con quelle istanze della società che valorizzano l’essere morale degli individui. Come per Weber, dunque, anche Durkheim immagina per la scienza un compito di servizio, in questo caso di liberazione dell’uomo dal giogo dell’oppressione ideologica e dei falsi miti. Il suo fine è mostrare cioè che la libertà non è mai un agire per mere ragioni strumentali e in vista di uno scopo individuale, almeno non solo, ma sempre in rispetto di un sentimento che è “di simpatia dell’uomo per l’uomo”. Un agire tollerante, in rispetto della propria e dell’altrui dignità. Si tratta, come è evidente, di una diversa modalità di obbligazione dei moderni, anzi di un’obbligazione che smentisce il postulato del primato dell’azione economica per la sola massimizzazione dell’interesse e che enfatizza, piuttosto, un’azione finalizzata alla giustizia sociale e alla solidarietà. Se poi ciò che vale per lo scienziato fosse fatto proprio anche dall’uomo della strada, se cioè anche questi potesse scegliere con più riflessività, con più consapevole coscienza della parzialità delle sue opinioni, non avremmo forse come risultato di cedere meno fideisticamente a credenze inopportune? Se, con Weber (Weber 1919, trad. it. 19662, 40), l’uomo qualunque si adoperasse per evitare il «sacrificio del [suo] intelletto», soppesando con più giudizio e con più giusto piglio critico le proprie valutazioni, adottando un atteggiamento maggiormente responsabile, tollerante e con una più convinta fermezza sulla relatività di ogni verità, è certo che si potrebbe anche meglio realizzare quella «solidarietà tra estranei» teorizzata da Habermas (1997) e che stenta tuttavia a manifestarsi proprio in ragione di ciò. In altre parole, l’insegnamento che ricaviamo dalle riflessioni di questi maestri della sociologia classica è che il senso critico e il dubbio metodico, propri della scienza, dovrebbero essere da guida anche per l’uomo della strada. Perché se è vero che senza di essi lo scienziato corre il rischio di trasformarsi in profeta o in un demagogo, è pur vero che il rischio che corre l’uomo generico è piuttosto quello di divenire terra di conquista per leader carismatici e populisti senza scrupoli che se ne servono per i loro scopi. Da qui un primo evidente compito sociale per la scienza: rischiarare, rendere responsabili, liberare, insegnare la tolleranza agli uomini, ma soprattutto promuovere il rispetto per la dignità umana ed impedire che si cada in fondamentalismi forieri di sofferenza. Tratti che non facciamo fatica a rintracciare negli insegnamenti dell’umanesimo classico e che da Erasmo da Rotterdam in poi hanno guidato molti degli intellettuali progressisti europei, e noi con loro.
La seconda suggestione che vogliamo proporre è declinata sul rapporto tra scienza e democrazia, un rapporto ambivalente per molti versi. In questo caso, le spalle su cui saliamo sono quelle di Karl Popper (1957, trad. it. 1973; 1974), che tra i due termini ha avvertito più di una stretta analogia. Questa risiede nel fatto che per scienza e democrazia, ecco come lui la pensa, il progresso dipenda dal bisogno di una libera discussione critica. Un’idea che Popper sviluppa sia in ambito epistemologico che in ambito sociale. Ora, per quanto crediamo non sia necessario essere d’accordo con tutta la proposta della “società aperta”, siamo però dell’avviso che su questo punto Popper abbia ragione e che in materia di “democrazia” la metafora con la scienza funzioni ed abbia un senso. Il punto è questo: se la scienza è discussione, se è soprattutto ricerca non della “verità”, ma, come egli crede, della “falsificabilità”, allora obiettivo dello scienziato – afferma il filosofo viennese – non è tanto inseguire quel “mito” quanto piuttosto falsificare tutto ciò che si vuole far passare come “vero”. Stiamo parlando della nota metodologia del “falsificazionismo”, che in Popper è la versione epistemologica del razionalismo critico: gli scienziati propongono delle teorie per la risoluzione di problemi empirici e teorici e successivamente controllano le teorie con esperimenti ed osservazioni al fine di eliminare quelle false. L’attività scientifica procede cioè tramite coraggiose congetture e severi tentativi di confutazione. Proprio come la democrazia, in cui – per similitudine con la scienza, afferma Popper – ci si concentra più sull’eliminazione delle sofferenze, o in generale sull’“infelicità” degli uomini, che non sulla ricerca di consenso sulla parola e dove compito dei cittadini è controllare se gli obiettivi che i governi presentano nei programmi sono stati raggiunti in modo soddisfacente o meno ed eventualmente premiarli o punirli nelle successive elezioni democratiche. In altre parole, ciò che scienza e democrazia hanno in comune per Popper è il processo di apprendimento dall’esperienza, uno particolare però, di tipo eliminativo. Se poi, come nel punto precedente, anche nella vita quotidiana si potesse mettere a frutto il principio della “falsificabilità”, non solo quindi per quella dello scienziato o del politico, ciò non potrebbe che favorire la definitiva messa in mora della credibilità di ogni verità assoluta e di ogni nefandezza che ne potrebbe conseguire. Anche perché, quando pretesa, la verità, afferma Popper, esige un soggetto che la promuova e la governi. Che può essere, di volta in volta, la filosofia (come nella società di Platone), ma anche la razza, la civiltà, la classe, la nazione, l’umanità, il popolo, e così via, infiniti soggetti ognuno con un corpo collettivo che chiede di essere guidato e con un sacerdote da venerare. L’altro ieri erano le élite militari, appena ieri quelle economiche e finanziarie, oggi sono i tecnocrati, titolari di una pretesa verità inscritta nella tecnologia. Nuovi sacerdoti della società oltre-moderna, quelli da combattere oggi, con in testa la società ordinata da tecnostrutture, un demone che neanche più la scienza della società (la sociologia) vuole più contrastare; assoggettata com’è (non tutta, per fortuna) a quel positivismo empirico che le fa credere fideisticamente che il “dato” non elaborato sia immediatamente un “fatto” capace oggettivamente di descrivere gli eventi osservati.
E siamo ora alla terza suggestione. Questa origina dall’ambivalenza del nesso scienza-democrazia, un rapporto che non è sempre di mutuo supporto, come ci spiega bene Ulrich Beck (2002, trad. it. 2010), per il quale la scienza è piuttosto un contropotere della politica. Questo è possibile, spiega il sociologo della società del rischio, perché la politica non è più circoscrivibile al solo ambito politico, così come gli attori politici non sono più gli unici a detenere l’esclusiva legittimità di azione in esso. Ci sono infatti ambiti, oltre quello della politica, che Beck chiama sub-politici, che possono operare come dei contropoteri delegittimanti gli attori e le assunzioni prese nel campo politico. Nel caso della scienza, ciò accade quando questa fornisce delle contro-narrazioni rispetto a quella della politica e quando contende alla politica il consenso dell’opinione pubblica. Un esempio di come ciò funzioni lo ricaviamo dalla crisi ecologica. Mentre da una parte ci sono governi nel mondo che si attivano per smentire la teoria secondo cui la terra starebbe entrando in una fase autodistruttiva di non ritorno, dall’altra c’è la scienza, o parte di essa, che, dati alla mano, cerca invece di delegittimare tutto ciò e di dimostrare che la crisi ecologica non solo ha già avuto inizio ma che è anche preoccupante. In questo caso, la scienza agisce da contropotere nei confronti di chi difende, e ha tutto l’interesse a farlo, inquinamento e devastazione ambientale. Altri ambiti della sub-politica sono la medicina, la religione, la tecnologia e il sistema produttivo, luoghi un tempo non-politici dove oggi si attiva un’azione che è però politica perché legata al rischio globale; così come contro-politici sono anche i movimenti di protesta – civili, ecologisti, pacifisti, di genere, religiosi, ecc… – che si oppongono al potere costituito.
Nel complesso, la sub-politica rappresenta la fine del sistema politico quale centro esclusivo d’azione della politica. Effetto collaterale della società del rischio, essa si manifesta per Beck sotto forma di due processi emergenti: i) l’apertura verso ambiti che, un tempo non-politici, diventano oggi politici; ii) l’imposizione, sotto la spinta e l’esercizio dei diritti civili, di una nuova cultura politica con la quale processi dal basso erodono l’autorità ufficiale del sistema politico-amministrativo e combattono gli esiti collaterali di decisioni prese in ambiente tecnico-economico. Ecco perché sub-politica è anche la sfera privata, i gruppi di iniziativa civica e i nuovi movimenti che si ribellano e criticano le conseguenze sociali e rischiose di decisioni potenzialmente dannose, sottratte in misura sempre maggiore alle istituzioni di controllo e di protezione della società industriale. Azioni prese in ambiti non politici che fronteggiano decisioni prese in ambiti politici ma che hanno già prodotto in certi casi conseguenze nocive, come nei disastri ambientali. Si tratta di una debolezza delle autorità tradizionali resa ancora più evidente se si considera che spesso queste non possono neanche intervenire successivamente alle decisioni prese, nemmeno dopo che il contro-potere della scienza ha messo a nudo gli errori o le connivenze con i poteri economici, per non ledere gli investimenti fatti nella prospettiva del profitto e per non rischiare la conseguente perdita dei posti di lavoro che ne potrebbe derivare. Si tratta di paradosso evidente: “normale” per la politica non è più il contrasto o la decisione, ma l’azione preventiva o successiva di legittimazione dell’operato del sistema tecnico-scientifico ed economico in funzione del progresso, a cui si affianca spesso la non-responsabilità della scienza (che decide senza assumersene l’onere) e la responsabilità dell’economia, vero motore del cambiamento senza essere tuttavia nominata. E quando la scienza non opera responsabilmente perde il suo potenziale di critica diventando essa stessa un potere, connivente con quello politico. In altre parole, perde il suo ruolo di contropotere.
Finora abbiamo parlato del ruolo dello scienziato e del nesso tra scienza e democrazia, entrambe declinazioni del particolare rapporto che il sistema scientifico intrattiene con quello sociale. Qual è, ci chiediamo a questo punto, il rapporto della scienza con quella particolare forma della società attuale che definiamo per comodità “digitale”? È, ad esempio, la distribuzione della conoscenza aumentata o meno? Quanto è democratica la società digitale per la conoscenza e quanto migliora, se la migliora, la democrazia stessa? Tradotto, si tratta di capire se Internet abbia o meno allargato al grande pubblico la conoscenza e se abbia o no democratizzato le fonti della conoscenza, con ricadute sulla stessa democrazia. La domanda giusta da porsi – con Stefano Rodotà (2013) – è dunque la seguente: è la connessione ad Internet un privilegio o un diritto? Perché se è un privilegio, è indubbio che ciò può creare nuove situazioni di disparità tra chi ha la possibilità di pagare un abbonamento per connettersi alla rete, a quella veloce in particolare, di collegarsi da qualsiasi luogo e in ogni istante, di sfruttare le competenze e le conoscenze per gestire le piattaforme della comunicazione e acquisite in ambienti favorevoli, e chi invece tutte queste cose non le possiede perché non se le può permettere o perché non sa come darsi una formazione. Insomma, un divide competitivo dovuto ai diversi tipi di capitale posseduto – economico, culturale, sociale –, tra chi ne fruisce e chi invece ne patisce l’assenza ed è sospinto ancor più indietro nel cerchio della marginalità. Se è il mercato a determinare i privilegi, allora la rete virtuale diventa l’ennesima fonte di differenze; se invece è un diritto, e secondo noi dovrebbe esserlo, allora dovremmo considerare la stessa conoscenza come un diritto e quindi anche ogni sua modalità di acquisizione. Facciamo degli esempi. Passando dall’analogico al digitale abbiamo creato nuove differenze, perché con l’analogico il materiale cartaceo era comunque fruibile nelle biblioteche ad accesso libero; ma se noi digitalizziamo tutto, anche il libro, e se questo viene fatto pagare, non c’è più libertà d’accesso. Il paradosso è che più accediamo alla rete e più le cose che valgono vengono fatte pagare. Tutto ciò che un tempo era fornito gratuitamente adesso non lo è più. Perché l’accesso continuo alle fonti di informazioni ha prodotto un valore e il valore produce mercato. Ciò dimostra che la rete può essere una grande opportunità ma anche un’ulteriore fonte di segmentazione della società, tra dannati e salvati. Ancora un altro esempio, questa volta in ambito universitario. Gli accademici fanno uso di articoli in rivista, ma le riviste sono sempre più pubblicate online e meno in formato cartaceo. Ma chi può accedere a questa fonte se non quelle biblioteche che hanno risorse economiche per pagare gli abbonamenti sempre più costosi perché monopolizzati? Se queste non ci fossero, gli accademici non potrebbero accedere alle banche dati online, con grande detrimento per la ricerca. Potrebbero allora esserci ricercatori di serie A e ricercatori di serie B? Su questo bisogna vigilare e certo il ricorso all’accesso libero potrebbe essere una soluzione. È anche vero che il lettore di oggi è diverso da quello di un tempo: il primo era passivo, aveva il libro; il secondo si costruisce invece delle opportunità e reagisce a tutto questo creando anche sacche di resistenza. Queste sacche, queste azioni nei confronti della recinzione della conoscenza, non dovrebbero però essere intese come atti eversivi. Molto spesso vengono intesi come tali, perché considerati anarchici, dei contropoteri antagonistici. Ma non lo sono. Agiscono dentro un filone che ha una grande storia, una grande duttilità del nostro pensiero che è quello socialdemocratico o liberale, secondo il quale, è scritto nella Costituzione, c’è un diritto alla opportunità e all’eliminazione degli ostacoli. Basterebbe quindi rifarsi a questa onorata tradizione di pensiero, per nulla eversiva, per niente anarchica, per delegittimare le azioni che vanno nella direzione di restringere la diffusione della conoscenza e anzi di estendere la conoscenza in modo che nessuna parte della popolazione ne sia preclusa.
Muovendoci ancora nel contesto della società digitale e nell’ambito della democratizzazione, questa volta non della conoscenza ma delle pratiche, ci possiamo ad esempio anche interrogare sull’impatto che le tecnologie e le reti virtuali possono avere ai fini delle nuove forme dell’agire organizzato dei cittadini e del lavoro di gruppo di discussione e di decisione. Qui il punto è se e come consentire un lavoro comune a soggetti distanti nello spazio e nel tempo mettendoli in condizione di giungere ad elaborazioni collettive che siano anche durevoli nel tempo. Come, ad esempio, quella di avanzare proposte di delibera di iniziative popolari al proprio comune o in altra sede. Oggi, grazie ai dispositivi e ad una rete praticamente diffusa, coloro che lanciano una idea del genere possono, semplicemente tramite un personal computer in rete, diffonderla ad altri associati (per esempio utilizzando una posta elettronica a gruppo chiuso), chiedendo a tutti di pronunciarsi con commenti, integrazioni, osservazioni. L’Europa, giusto per fare un altro esempio, usa gli stessi strumenti e la stessa modalità per l’Iniziativa dei cittadini europei (ICE), un importante strumento di democrazia partecipativa all’interno dell’Ue, grazie alla quale un milione di cittadini residenti in un quarto degli Stati membri può invitare la Commissione a presentare una proposta di atto giuridico ai fini dell’attuazione dei trattati Ue. Si tratta di strumenti potenti oltre che per la comunicazione anche per la democratizzazione delle pratiche in uso ai cittadini, grazie ai quali, così la pensa Rodotà, possiamo intravedere la rinascita di un embrione del sovrano e auspicare non una loro demonizzazione ma un rafforzamento.
Chiudiamo questo contributo con un accenno al Sars-CoV-2. Proviamo a chiederci come si è comportata la scienza medica in risposta all’emergenza e alla sofferenza umana causata dal virus. È indubbio che l’opinione pubblica, non solo quella italiana ne siamo convinti, ha dimostrato gratitudine e apprezzamento per il lavoro fatto da medici, infermieri, virologi, figure impegnate nella prevenzione e nella diagnostica e la scienza medica tutta (un po’ meno per gli esiti generati dalle politiche sanitarie degli ultimi anni). Ogni ambito di ricerca – il farmacologico, l’infettivologico, il virologico, l’epidemiologico, ecc… – ha infatti contribuito nel cercare soluzioni concrete ai problemi emersi, forse anche disavvenendo alla normale prassi comunicativa propria delle comunità scientifiche. Molte riviste mediche, ad esempio, sono state aperte e hanno lasciato che i loro articoli dedicati al Sars-CoV-2 fossero letti liberamente, ma anche tanti altri studiosi di discipline non mediche – sociologi compresi – hanno lavorato alacremente per raccogliere dati sui cambiamenti del momento e disegnando persino possibili futuri. Un termine, “distanziamento sociale”, è divenuto un lessico familiare, quando si tratta di un evidente tecnicismo sociologico. Insomma, mai come oggi il senso di comunità scientifica è stato così vicino al suo significato idealtipico originale. La ricerca, quella accademica soprattutto, ha dato cioè grande prova di sé, collaborando attivamente alla individuazione di risposte all’emergenza, ma anche mettendo in pratica l’importante ruolo democratico di informazione e di produzione culturale. Ciò deriva, è evidente, almeno nei paesi democratici, dalla diffusa domanda di conoscenza che giunge dalla popolazione, la quale vuole sapere, essere informata, non solo sugli sviluppi della pandemia ma anche sui comportamenti giusti da seguire e sullo stato di avanzamento della produzione dei vaccini. Ma anche su colpe e responsabilità. Insomma, abbiamo cittadini che interrogano la scienza e ai quali la scienza risponde, con canali non sempre ufficiali. In altre parole, ciò a cui si è assistito è una produzione sociale di conoscenza, diffusa nel tempo e nello spazio, che ha coinvolto tutti col fine non esplicito di costruire un confronto, scevro di gerarchie e pregiudizi, per comporre un quadro complessivo di risposte a bisogni complessi della società. La comunità scientifica ha fatto il proprio e anche un diverso lavoro: ha comunicato al grande pubblico, che ha apprezzato e ricambiato con fiducia. Forse mai come in questo periodo la scienza si è riappropriata di quella centralità tra i sistemi creati dall’uomo, occupata da secoli e dalla quale ha scalzato la religione. Si è mostrata, cioè, come il sistema culturale più resiliente tra quelli sociali, ancor più rilevante nell’esito se pensiamo a quanto discredito siano oggi soggette le istituzioni politiche ed economiche. Durerà tutto questo? Non lo sappiamo. I sociologi sanno che il conflitto offre grandi opportunità se sapute cogliere, perché contribuisce a generare sentimenti di unione e di coesione sociale (Simmel 1908, trad. it 19982). Sanno anche però, malgrado sembri il contrario, che le situazioni di emergenza non sono le normali. Non sarà facile dimenticare la sofferenza patita, anche se ci si proverà in tutti i modi, ma questo non significa che quanto sta accadendo non possa un giorno essere riportato alla memoria e ricordato come un caso esemplare di uso sociale della scienza, umanisticamente orientato.
Conclusioni
La modernità ha significato per molti e per molto tempo differenziazione tra sistemi sociali. Tradotto in parole semplici, questo vuol dire che ogni ambito di produzione culturale dell’uomo si è separato da quello iniziale per costituirsi come un campo autonomo di produzione, con un proprio linguaggio e propri meccanismi di legittimazione. Così è stato per tanti sistemi sociali e lo stesso vale per la scienza, separatasi progressivamente dal campo religioso e orientata a costruirsi un proprio ambito sistemico con propri referenti (gli scienziati), propri obiettivi legittimi (la conoscenza) e con pratiche di azione altrettanto legittimate da accordi di comunità (il metodo). La fase nuova che ci apprestiamo a vivere – variamente definita post-, tardo- o oltre-moderna – ci sta mostrando forse il processo inverso, di de-differenziazione sistemica. Che non vuol dire ritorno al passato, ma solo che i sistemi tendono ad essere più integrati tra loro e che l’intreccio è più forte. L’emergenza Covid-19 ci mostra la formazione di una grande comunità di discussione con al centro la scienza medica, ma con l’apporto di altre discipline. Il pubblico è il referente di questa comunità, che reagisce e influenza a sua volta la ricerca. Parte di esso può agire come contropotere nei confronti di quei settori della scienza assoggettata all’economia o al potere per cercare di riportarla là dove ci si aspetta di trovarla, ovvero al servizio del benessere delle persone. Di conseguenza, se il nostro argomento, un po’ suggestivo su alcuni aspetti del rapporto tra scienza e società, ha senso, la conclusione che ne traiamo è che la scienza deve essere responsabile, aperta alle discussioni, non manipolatrice né manipolata e disponibile a tutti. Al contrario, rischiamo di avere una società senza principi morali, chiusa, autocratica e manipolata. Insomma, una pessima società.
Riferimenti bibliografici
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