Introduzione
All’inizio era una pratica isolata, frutto più che altro del comportamento di qualche manager interessato a cambiare la comunicazione pubblicitaria del proprio brand, avendo compreso che tutto stava mutando intorno a sé. Con il passare dei mesi la scelta di uno è diventata la scelta di tanti, trasformandosi in un orientamento diffuso e generalizzato. È così che si è determinato, con progressione e regolarità, un fenomeno interessante da studiare non solo dal punto di vista del marketing, ma anche da quello sociologico e semiotico.
Per le marche, al tempo del Coronavirus, è diventato ancora più importante porsi la questione di come essere e di come restare credibili in uno scenario in totale e continua trasformazione; di come non danneggiare (o addirittura migliorare) la propria reputazione che, come è noto, costituisce l’esito dell’adozione di strategie di auto-rappresentazione e rappresentazione altrui[1]. Accade, pertanto, che la pubblicità si faccia riflessiva, chiedendosi quale sia la propria funzione sociale al di là di quella strettamente commerciale; quale capacità essa abbia di proiettarsi in un futuro che appare incerto ai più; in che modo le aziende possano essere utili a una popolazione che continua ad essere preoccupata, confusa, disorientata. Inevitabile è quindi che chi lavora alla costruzione di messaggi pubblicitari debba decidere se farsi guidare nelle proprie opzioni creative dalla pressione psico-sociologica a restare vincolato alla realtà, anche se trattasi di realtà negativa e fonte di dolore, o se scappare da essa, facendo dell’immaginario un rifugio evocato per sfuggire alle “intemperie” quotidiane. Tutto ciò, provando a misurare, a breve e medio termine, quantitativamente e qualitativamente, il feedback restituito da consumatori sempre più prosumer, poiché sempre più in grado di essere contemporaneamente ricettori e produttori di senso.
In questo paper si prende in considerazione il modo in cui è cambiata la comunicazione pubblicitaria nella Fase 1 dell’emergenza pandemica. Un periodo nel quale l’imperativo categorico di istituzioni, imprese e media è stato quello di contenere la diffusione del contagio per evitare di dover scegliere tra chi curare e chi no, chi far accedere in terapia intensiva e chi no, di rallentare la crescita dei decessi dovuti, direttamente o indirettamente, al SARS-CoV-2[2].
L’analisi avrà due intenti: i) quello di rintracciare il fil rouge esistente tra le diverse trame narrative, tra i diversi piani di advertising offline ed online messi in campo dalle imprese, provando così ad individuare anche un possibile nuovo impianto teorico di riferimento; ii) quello di incoraggiare una riflessione sul ruolo della pubblicità in un contesto di comunicazione di crisi[3] e all’interno dello spazio assai ampio e complesso del nuovo ecosistema digitale. Un’operazione transdisciplinare – in prospettiva sociologica – che da un lato proverà a recuperare il valore delle trasformazioni in corso all’interno del marketing, dall’altro non ignorerà le linee tracciate sul tema dalla semiotica. A tal proposito, quasi come premessa del ragionamento che verrà svolto nelle pagine successive, è utile segnalare le prime e più significative tendenze evidenziate sul Coronavirus dalla scienza che studia i segni (Boero 2020). Sono quattro e si presentano come complementari l’una rispetto all’altra: i) la rappresentazione di scene di vita quotidiana; ii) la descrizione di quanto avviene al di fuori dello spazio domestico; iii) il richiamo al senso di appartenenza nazionale; iv) l’inscrizione di molte condotte individuali e collettive nei testi della pratica di “distanziamento fisico”[4]. Si tratta di trend spendibili anche ai fini di un’analisi sociologica che sappia essere in linea con gli elementi ontologici della pubblicità, qui da considerare non solo come pratica esperienziale e tecnica ma anche come area disciplinare del marketing (Hopkins 1984) in dialogo perenne con l’economia, la psicologia, l’antropologia, la retorica, la politica (Giorgino 2020) e ovviamente con le sociologie, a cominciare da quella dei consumi e dei processi economici (Abruzzese e Colombo 1994).
Dal II secolo a.C, quando a Tebe comparve un papiro egizio che parlava dell’attività svolta dal tessitore Hapù (Vecchia 2003), all’advertising online così come modellatosi nell’era del Web 2.0, ci sono alcune costanti che vanno fissate nella nostra riflessione perché risultano più rilevanti di altre: i) la persuasività[5] del messaggio trasmesso; ii) l’utilizzo a pagamento di canali media per la diffusione del messaggio medesimo; iii) la presenza di un gruppo di soggetti con caratteristiche ed aspettative simili a quelle alle quali il contenuto della comunicazione pubblicitaria è destinato (Bovée and Arens 1992). Si tratta di costanti rintracciabili con chiarezza nel quadro delle differenti tipologie funzionali di advertising (Mazzarella 2019) ruotanti intorno alla promozione del marchio (brand), alla promozione e commercializzazione del prodotto o servizio, alla promozione istituzionale o corporate. I casi che verranno affrontati nelle pagine seguenti rientrano in tutte queste tipologie, spesso non facilmente distinguibili le une dalle altre, proprio per le peculiarità dell’attuale situazione.
Il paradigma del societing
La pubblicità al tempo del Coronavirus, dunque. Si tratta di uno scenario che, anche nella variegata sfera dei consumi, mostra (e dimostra) la vulnerabilità degli esseri umani e la loro voglia di trascenderle.
Del resto, prendere atto del potere oscuro dell’incertezza, specie dopo aver coltivato il mito del suo contrario così come alimentato dai molti contesti immaginali degli ultimi decenni, è di per sé un fatto traumatico. È di per sé elemento di discontinuità netta e radicale rispetto al recente passato, nel mentre si svela un’istanza di cambiamento assai utile da indagare.
Non sappiamo cosa accadrà all’homo oeconomicus[6] dopo la fine di questo «fatto sociale totale» (Mauss 1925), come la sociologia tende giustamente a definire il contagio planetario da Coronavirus. Sappiamo, tuttavia, che, specie da quando ha provato a coltivare i vantaggi del suo graduale scivolamento in direzione del societing (Fabris 2009) al fine di enfatizzarne la prospettiva di “consumo di senso” tanto caro a de Certau, il marketing ha cominciato a cambiare orientamento e direzione. Anche il consumo, infatti, è sempre più comunicazione e immagine e, di conseguenza, sempre meno funzione e materia (Codeluppi 2012). Il valore dei prodotti e dei servizi è oggetto di ricollocazione nell’uso simbolico ed effettivo che di essi viene fatto giornalmente, giungendo persino a forme di rivendicazione identitaria che generano, unitamente a significati considerabili in chiave denotativa e connotativa, veri e propri legami sociali. È questo quadro di riferimento, rimarcato già dall’idea di segno di valore e di «valore segno» (Baudrillard 2012), a modellare, dirigere, sviluppare l’interazione tra i brand e i consumatori in uno stato emergenziale che rileva dal punto di vista sanitario, politico, economico, culturale e sociale. L’interazione diventa conversazione stabile intorno ad un processo di reciproco e contestuale riconoscimento delle nuove priorità sociali così come determinate dal precario vissuto soggettivo. L’intento, cioè, è quello di costruire un modello di «socialità altra»[7]: un modello, cioè, che sia in grado di ridefinire perimetri e parametri del capitale relazionale e di quello simbolico, in un orizzonte di senso che oscilla e sceglie tra la paura, la fiducia e la speranza.
La marca, diventata costrutto socio-culturale a maggior ragione in tempi di Coronavirus, fa brand stretching (Fabris 2009). Esce fuori dal contesto naturale in cui vive e prolifera per allungare al di fuori di esso la propria funzionalità sociale, per ridefinire la propria spendibilità verso percorsi di senso inediti anche se molto radicati nel contesto delle emozioni pandemiche. Ciò che avviene per il tramite della pubblicità è la costruzione non del migliore dei mondi, ma certamente di un mondo possibile, specie nell’era che registra il primato dell’immateriale sul materiale (Semprini 2006). Sia ben chiaro: si tratta di un mondo diverso da quello che abbiamo vissuto prima di entrare in guerra (metafora assai discutibile) con il nemico invisibile o prima di provare a curarci dal virus (espressione molto più sostenibile, sebbene effetto ancor più evidente del ricorso alla medicalizzazione semantica). Non sfuggirà che stiamo assistendo ad una stimolante esondazione dei brand in direzione della quotidianità emergenziale, secondo una traiettoria che si sviluppa in linea con programmi di responsabilità sociale d’impresa e di sostenibilità ambientale ed in piena continuità con le logiche della costruzione e della stabilizzazione della reputazione del brand, costruite sui presupposti della identità e della immagine. Si badi bene che tutto ciò è ancor più vero se si considera che la dinamica evolutiva si colloca all’interno degli spazi ampi e poliformi del marketing 4.0 (Kotler 2018) in base ad uno schema che sfrutta, e al tempo stesso valorizza, il potenziale delle relazioni connesse tipico della platform society (van Dijck, Poel and De Waal 2019). Una conferma in tal senso arriva dalla ricerca effettuata dal DataLab di Eni sulla conversazione degli utenti di Twitter intorno ai principali topics e alle principali emozioni della Fase 1. In particolare, viene confermata la propensione delle imprese a prender parte al discorso pubblico, producendo dati, segnalando trend, assolvendo a funzioni sociali che vanno al di là del solo business.
Una delle cose più interessanti da studiare è, infatti, il touch point venutosi a creare tra la tendenza delle aziende a muoversi nel mercato come se fossero istituzioni sociali e quella delle istituzioni politiche, dei partiti e dei singoli leader ad agire come se fossero brand (Giorgino 2020). Tra i risultati che colpiscono di più, della ricerca effettuata dal DataLab di Eni, vi è l’ampia diffusione di contenuti relativi alla cultura, nell’accezione più ampia possibile del termine, ovvero come universo di conoscenze conoscibili. Insieme all’assai noto #andràtuttobene, utilizzato dalla comunicazione di massa e da quella interpersonale nelle molte manifestazioni spontanee organizzate sui balconi in quanto spazi concepibili come nuova sfera pubblica mediata, si registra la presenza di altri hashtag interessanti come #laculturanonsiferma, #ioleggoacasa, #food, #cucinaitaliana. Si tratta di un acquario semantico molto vasto nel quale navigano non pochi significanti che la pubblicità ha recuperato, ricorrendo a soluzioni in linea con il sentimento generalizzato della popolazione.
Figura 1 Variazione grafica del marchio in epoca di distanziazione
Figura 2 Immagine relativa alle sfide delle marche nel periodo pandemico
Real time marketing e newsjacking
Con l’imporsi dell’imperativo del distanziamento fisico (ma non sociale) il marketing si va facendo sempre più real time marketing. Recepisce, elabora, produce strategie e soluzioni che sappiano rispondere con tempestività ed adeguatezza agli umori, agli stati d’animo, alle preoccupazioni, alle passioni, alle sfide, agli stimoli (talvolta disordinati) che arrivano dall’esterno. Reattività e contestualità sono due punti di forza di questa tipologia di marketing. I contenuti sono immersi nell’attualità, si nutrono di quei vettori del senso maturati nella dimensione reale, vivono dell’ambito spazio-temporale in cui i brand operano. È quello che è stato definito dalla letteratura scientifica (Scott 2011) con l’etichetta di newsjacking. I brand “agganciano” la notizia non solo per aumentare la consapevolezza dei consumatori e l’atteggiamento nei propri confronti e condizionare così le intenzioni di acquisto (purchase intention), ma anche per stazionare dentro il flusso, avendo qualcosa da dire e da raccontare; per contribuire alla gestione del presente e alla costruzione del futuro; per generare engagement nel pubblico e rafforzare il senso d’appartenenza alla propria community di riferimento. Il digital touch diventa strumento per alimentare il bisogno di physical touch.
È quello che emerge chiaramente analizzando gli spot pubblicitari fruiti dagli utenti della televisione e del web nelle giornate di lockdown, totale o parziale. È una narrazione che ricorre a figure retoriche di sicuro impatto emotivo perché, indipendentemente dalle industrie di riferimento, capaci di attivare l’intera dinamica del riconoscimento e dell’identificazione: il singolo individuo che, isolato, si “materializza” nel gruppo; il gruppo che fa sentire la sua presenza negli anfratti del dialogo tra l’io locutore e l’io ascoltatore secondo le leggi della comunicazione intra-personale (Benveniste 1985). È una pratica di storytelling[8] collettivo che sfrutta il contesto e che sottolinea il dovere della distanza fisica, per disegnare una traiettoria di senso in grado di presidiare l’“hic et nunc” e guardare nel contempo al “post quam”. Si tratta di uno storytelling che prova a trasformare in frame[9] la difficoltà ed il desiderio di ripristino di una normalità, senza però domandarsi se davvero è il caso che essa venga recuperata e se è ciò che effettivamente vogliamo di più. Si prova a tematizzare il dolore e la voglia di riscatto, creando un ponte semantico tra le aspettative individuali e collettive e la value proposition delle diverse aziende, queste ultime sempre più in grado (ormai) di utilizzare con disinvoltura media proprietari e non, per le proprie strategie di comunicazione aziendale. Le parole chiave intorno alle quali si costruiscono le soluzioni di rappresentazione del valore del brand – di brandtelling (Giorgino e Mazzù 2018) – perché ne consegua una giusta percezione da parte del mercato, sono quelle che usiamo ogni giorno. Sono quelle che vorremmo che tutti usassero, sulla spinta di un bisogno di relazionalità sviluppatosi soprattutto come antidoto alla paura e all’isolamento forzato.
Nella comunicazione pubblicitaria sono stati rimodulati e rinegoziati concetti di base come la compresenza fisica (nel linguaggio delle Scienze della comunicazione si tratta di uno dei temi affrontati dall’aptica e dalla prossemica), la condivisione, la programmazione. Avviene per alcune pratiche quotidiane come il mangiare al ristorante, il viaggiare, il partecipare agli eventi, il fare la spesa, il passeggiare per strada, il fare attività motoria, ma anche per progetti più ambiziosi. Sospesi come siamo tra il mondo reale (quello nella crisi pandemica Covid-19) ed il mondo desiderato (quello di una ritrovata normalità o di una “normalità altra”), che per le imprese significa anzitutto superamento dello shock da domanda ed offerta, i brand hanno scelto una via di mezzo. Hanno parlato alle famiglie, alla politica e all’economia in quanto modelli organizzativi. Hanno conversato con la società in quanto sistema complesso. Hanno fatto leva sui codici della coesione sociale nella consapevolezza di essere (o almeno di apparire) armi letali contro l’individualismo libertario (Beck 2000). Essi si sono appoggiati sulle categorie della resilienza e della resistenza, sul valore del lavoro svolto in condizioni di pericolo, sul rapporto di collaborazione tra dipendenti e management aziendale, sulla centralità della famiglia in quanto terreno solido da contrapporre a quello (giocoforza) più fragile della società pandemica. Hanno fotografato l’esistente, ma senza rinunciare a dispensare consigli a tutti e a ciascuno su come comportarsi nel concreto (Eni). Hanno sottolineato il valore della tecnologia e della connessione come strumento indispensabile per perseguire l’obiettivo della comunicazione, cioè della vera condivisione di senso e non soltanto del semplice trasferimento di risorse cognitive ed emozionali (Tim e Vodafone). Hanno sollecitato gesti di generosità e creato attenzione verso importanti campagne sociali già in atto (Foxy). Si sono appellati al valore dell’identità nazionale (Ferrarelle) e trasformato la nostalgia in energia per intrattenerci, farci riflettere, indurci a comportamenti responsabili ed etici. Sono diventati artefici, talvolta anche inconsapevoli, della costruzione dei palinsesti mediali, visto che i loro racconti sul valore dell’impresa si sono intrecciati con i contenuti delle lunghe dirette on air e online e visto che gli stessi si sono mescolati con le parole pronunciate a tutte le ore del giorno e della notte da virologi, medici, infermieri, politici e politologi, economisti, opinionisti, tuttologi – un po’ meno (e non per colpa loro, in verità) dai sociologi. Vediamo, allora, come questo nuovo (e al tempo stesso vecchio) orizzonte di senso abbia fatto ingresso in contesti già molto provati da una comunicazione di crisi che ha ottenuto sì alcuni risultati in termini conativi, ma che ha anche dimostrato di essere a sua volta in crisi poiché autoreferenziale e troppo appiattita su quella che la linguistica chiamerebbe «funzione espressiva» (Jakobson 2002).
Figura 3 Immagine dello spot Vodafone: gli user generated contents
Figura 4 Immagine dello spot di la Molisana
Nella pubblicità tramessa nella Fase 1 si è assistito alla messa in scena della quotidianità maturata nelle mura domestiche. Mura proposte dalle imprese non come un limite, ma come un’opportunità per attivare una sorta di rinegoziazione dei significati pandemici nel perimetro delle dinamiche oppositive di interno/esterno, basso/alto, stretto/largo, corto/lungo, negativo/positivo (Febal, Monini). Del resto, l’importante era insinuarsi dentro la costruzione di una nuova routine, anche se non si sapeva ancora quanto sarebbe durata e come si sarebbe evoluta. È stato come se quell’effetto “wow” del marketing e dell’advertising online ed offline fosse stato “frizzato” in attesa del secondo tempo di una partita di calcio da giocare, però, con schemi tattici completamenti diversi. Il tono non è cambiato molto, anche se è cambiato il ricorso a set, keywords, protagonisti, influencer.
Negli spot, che più avanti prenderemo in considerazione in modo più dettagliato, sono stati coinvolti dipendenti e collaboratori delle aziende sulle cui spalle è ricaduto il peso della rappresentanza e della rappresentazione in salsa epica di questa “guerra” al virus, di cui si parlava prima. Sono stati coinvolti gli italiani affacciati da finestre e balconi proposti dai brand come “porta bandiera” della rivoluzione del buon senso e della cultura della responsabilità (Barilla, Esselunga, MD, Carrefour), quelli che lavorano nell’ombra e nel silenzio assecondando le trame imposte dallo “spirito tenace” di questo tempo (La Molisana), quelli che hanno trasformato la cucina di casa nel principale hub esperienziale (Star). Sono stati coinvolti gli utenti delle piattaforme digitali raffigurati dentro i quadratini minuscoli e colorati di videoconferenze cresciute di numero in modo coerente alle logiche della “prosumerizzazione” (Vodafone e Mulino Bianco) ed i testimonial simbolo della resilienza sportiva, ovvero di quelle sfide oltre i limiti che consentono di raggiungere risultati straordinari con la sola forza della volontà (Bmw). Sono stati coinvolti i componenti di gruppi distanziati fisicamente nella realtà (scenica e non), ma uniti dalla consapevolezza della forza del ciclo della vita che sa distribuire la propria presenza in ogni dove, in ogni età, in ogni gender (Axa). Nel contempo si è cercato di comprendere la condizione reale di quarantena, provando a valorizzare i risvolti più positivi come la capacità di reinventarsi, il sapersi riprendere tempo e spazio, l’essere orgogliosi, il soffermarsi sull’essenziale più che sul superfluo (Ikea). In alcuni casi si è fatto ricorso all’effetto heritage come struttura evocativa su cui edificare futuro e speranza (Lavazza), partendo da una cultura collocata in un “altrove diacronico”, cultura sintetizzabile con il lemma “buongiorno”, che precede l’espressione assai impegnativa di “umanità ritrovata”: entrambi grimaldelli funzionali all’esternazione dell’aspirazione a realizzare progetti di rivitalizzazione antropologica necessari di fronte alle cicliche ferite della storia[10].
In definitiva, si è trattato e si tratta di un’attività di riempimento di vuoti, di una proposta di soluzioni rispetto ai problemi di tutti i giorni. Attività che sono state svolte dentro e fuori i recinti della pubblicità, come avvenuto per esempio con quelle aziende (Lardini) che, da subito, hanno finalizzato la propria produzione tessile alla realizzazione di migliaia di mascherine al giorno, da donare gratuitamente alla popolazione. Iniziative sviluppatesi per la generosità di imprenditori e manager e poi trasformate da creativi ed agenzie di comunicazione in branded contents, ovvero in prodotti di content marketing. Più in generale, si può anticipare[11] che tra i brand che hanno raccolto il maggiore favore da parte degli utenti vi sono quelli che hanno saputo riconvertire parte del loro business nella produzione di dispositivi d’emergenza o in valvole per respiratori polmonari e raccordi per maschere di protezione (Ferrari). Quest’ultimo elemento, unitamente agli altri, descrive uno scenario nel quale l’attenzione di aziende e consumatori non si limita ad intercettare la labile e delicata gestione dei processi di comunicazione di marca, ma anche di quelli più inerenti, appunto, i fattori produttivi così come sollecitati dalle più evidenti esigenze trasformative.
Figura 5 Immagine dello spot di Axa
La “postura” dei brand nella comunicazione pubblicitaria
Volendo rendere ancor più intellegibile il quadro di riferimento che qui si sta tracciando, possiamo differenziare la “postura” dei brand rispetto al mercato rielaborando, sia pur parzialmente, le categorie presenti nella ricerca di Omnicom MediaGroup[12]: i) aziende intente ad inviare al mercato messaggi positivi ed incoraggianti; ii) aziende intente alla creazione di servizi ad hoc per le zone rosse o artefici di donazioni diventate centrali nelle campagne di comunicazione; iii) aziende intente ad offrire gratuitamente forme di entertainment iv) aziende intente a creare prodotti e servizi in grado di “capitalizzare” l’isolamento domiciliare tipico della lockdown society; v) aziende che ricorrono a strategie di adaptive advertising; vi) aziende intente a produrre e diffondere campagne di sensibilizzazione per indurre le persone a rimanere a casa.
Possiamo far rientrare nella prima categoria Repower Italia, azienda autrice del seguente post: «Per fortuna anche l’energia positiva è contagiosa. #fatevicontagiare». Della seconda categoria, invece, fanno parte aziende come Unicredit, Mediolanum, Esselunga, Armani, Barilla. Evidenze empiriche emergono da una valutazione dei post o dei titoli dei comunicati stampa elaborati da queste imprese e riportati testualmente di seguito: «#Unicredit supporta in ogni momento le economie locali e interviene a sostegno delle aree colpite dal #COVID19, #Unicredit4people»; «Insieme contro la paura, Mediolanum sostiene l’ospedale Sacco di Milano contro il Covid-19 e chiede alla popolazione di partecipare facendo donazioni»; «Esselunga dona 2.5 milioni di euro agli ospedali, in prima linea contro il Coronavirus»; «Barilla dona oltre 2 milioni di euro all’ospedale di Parma»; «Da Armani 1 milione e 250 mila euro agli ospedali». Nella seconda categoria rientrano, tra gli altri, i tre principali fornitori di servizi di telecomunicazione (Vodafone, Wind 3, Tim), che hanno offerto giga illimitati per tutto il periodo di quarantena ai clienti residenti nelle regioni più colpite, permettendo loro di rimanere in contatto con i propri cari e di lavorare in smart working. Della terza categoria fanno parte marche che sono riuscite ad offrire servizi gratuiti di supporto tecnico alle zone rosse, ma anche le aziende che hanno offerto abbonamenti a giornali e riviste, servizi in streaming, ecc. Tra queste Prime Video, Cisco, Fastweb, Gruppo Mondadori. La Sony ha anticipato l’immissione nel mercato dei propri videogiochi, mentre Barilla ha invitato gli utenti Instagram a cucinare tutti insieme, proponendo ricette facili da eseguire grazie a dirette live realizzate da rinomati chef. Rientra in questa categoria anche Swiffer, artefice di suggerimenti di esercizi fisici da fare in casa, ovviamente grazie all’uso del proprio prodotto[13]. La quarta categoria comprende, invece, quelle aziende che nella Fase 1 hanno invogliato i cittadini a restare a casa. Tra queste Coop ed Esselunga, che hanno offerto gratuitamente il servizio di consegna dei prodotti a domicilio nella città di Milano e in altre zone rosse a beneficio di persone di età superiore ai 65 anni. McDonald’s ha esteso questo servizio a tutto il territorio nazionale. Fa parte di questa tipologia anche Kia, che ha dato la possibilità ai propri clienti di prenotare l’acquisto di una nuova auto direttamente da casa. Tra i brand che rientrano nella quinta categoria, ovvero quella relativa ad aziende che hanno fatto uso di strategie di adaptive advertising, c’è WeRoad, tour operator che organizza viaggi all’estero per una clientela fatta prevalentemente da giovani, ma che nella Fase 2 ha promosso iniziative finalizzate alla scoperta delle bellezze italiane. Tra i brand appartenenti alla sesta categoria, infine, si può citare il caso Gillette che, insieme a Bobo Vieri, ha fatto partire la call to action «#restoacasalikeabomber».
Va segnalato anche che alcuni brand hanno dovuto superare alcune difficoltà legate al proprio nome. Si pensi alla birra Corona vittima del bias semantico creatosi tra la marca e la tipologia di virus. Secondo la società di analisi SEMrush a fine febbraio 2020 era aumentato in modo significativo il numero di ricerche online di espressioni come “corona beer virus” o come “beer coronavirus”. L’istituto YouGov ha dimostrato che il buzz score per questo marchio era sceso dal punteggio di 75 di fine gennaio a quello di 51 di fine febbraio 2020. Del caso si è occupato anche The Economist che ha ricordato come le difficoltà principali siano cominciate sui social network quando sono partite le prime misure di lockdown. Come ricordato da Il Post, Corona ha dovuto persino sospendere la pubblicazione di contenuti di advertising o di content marketing a partire dal 13 marzo 2020. Molti i problemi creatisi nel gestire il lancio pubblicitario negli Stati Uniti di una nuova bevanda, un seltzer in quattro diversi gusti. La pubblicità, infatti, mostrava quattro lattine in spiaggia e lanciava il messaggio “presto in spiaggia”, che molti americani hanno considerato de-correlato e decontestualizzato, costringendo il brand a ritirare la propria campagna. Si è trattato di un evidente problema di comunicazione che ha costretto l’azienda a sospendere nel mese di aprile la produzione della birra sudamericana e a far fronte al crollo del titolo in Borsa. La sola parola “Corona”, insomma, ha scatenato negli utenti, specie in quelli dei social, reazioni irrazionali e incontrollate.
Figura 6 Immagine dello spot di Esselunga: il “grazie” ai propri dipendenti
Figura 7 Immagine relativa all’uso del codice dell’ironia nell’advertising: bias semantico birra Corona
Figura 8 I giochi di parole tra i nomi dei brand e l’hashtag #iorestoacasa
Anche altri marchi sono stati spiazzati dalla distorsione creatasi sovrapponendo il proprio nome o il proprio claim alle misure di distanziamento fisico inter-personale. Il marchio Crodino, per esempio, si è trovato a gestire uno spot ruotante intorno al seguente slogan: «Restiamo umani, diamoci un abbraccio grande come il mondo. Crodino, l’analcolico biondo che fa abbracciare il mondo»; non esattamente quello che le autorità politiche e sanitarie di tutto il mondo stavano chiedendo di fare in quei mesi. Non sono mancati nemmeno esercizi di ironia, come quelli di chi ha fatto indossare alle birre di Heineken la mascherina in funzione di competition con i concorrenti, né i giochi linguistici ideati da creativi e web designer, come per esempio quelli fatti da Luca De Matteis per presidiare i territori della comunicazione pubblicitaria in tempo di Coronavirus. Di seguito si riportano i casi più significativi: «Credimi, io me ne NINTENDO, resta a casa»; «STAR a casa è la cosa giusta da fare»; «FONZIES – Gli originali. Ci abbiamo ripensato, per il momento non leccatevi le dita»; «Quanto vi COSTA stare a casa?»; «Restare a casa è davvero una grande IKEA»; «E se per CASIO vi ammalate?»; «Forza teniamo DUREX»; «Non si VANS in giro»; «Ma li MOTTAcci vostra. State a case»; «Se non rimani a casa è la volta buona che ti LEGO»; «È L’OREAL di restare a casa»; «ESTATHÉne a casa!»; «DOVE cavolo vai? Resta a casa che è meglio»; «Andrà tutto BENNET»; «Se esci di casa, vuol dire che non capisci una SEGA»; «Non è TEMPO di uscire. Rimani a casa»; «Se uscite è PEUGEOT per tutti». La combinazione di brand e parole ha consentito di rafforzare il messaggio principale della Fase 1, ovvero quello di evitare spostamenti dentro e tra città, limitando allo stretto necessario le uscite dalle proprie abitazioni.
In conclusione di questo paragrafo, vale la pena di mettere in evidenza che, pur nella individuazione di una condotta unitaria, ogni brand ha dato una propria risposta alla situazione emergenziale venutasi a creare in seguito alla pandemia da Covid-19. C’è chi ha deciso di sospendere del tutto le comunicazioni di tipo pubblicitario, chi ha provveduto a modificarle, chi invece ha mantenuto la linea precedente (Meriano 2020). Non esistono regole per agganciare il sentiment dei diversi pubblici: a contare è la capacità di restare coerenti al proprio tone of voice e al proprio target di riferimento.
Analisi del contenuto degli spot pandemici
Al di là della classificazione proposta dalla ricerca sopra citata di Omnicom MediaGroup e delle considerazioni svolte fino ad ora, può essere utile entrare nel dettaglio dei messaggi elaborati dalle aziende nella Fase 1. Come si potrà notare grazie al ricorso ad un’analisi del contenuto dei diversi spot, sono molti gli elementi in comune nella scelta dell’intonazione, nell’uso delle keyword con le quali attivare il processo di significazione che ha caratterizzato le strategie di real time marketing e newsjacking, nella gestione da parte dei brand dell’interlocuzione con la sfera emozionale dei consumatori. Di seguito si riportano i casi relativi a quindici aziende, alcune delle quali già citate in precedenza. La logica argomentativa adottata (Cardano 2020) è finalizzata alla categorizzazione dell’uso condiviso di significanti.
Vodafone è stato uno dei primissimi brand a realizzare uno spot sulla pandemia da Covid-19. Claim: «Anche quando non possiamo star vicini, possiamo stare insieme». Spot intitolato “Insieme” ed incentrato sulla possibilità di comunicare, lavorare e condividere esperienze e stati d’animo a distanza. Sono stati coinvolti, in qualità di protagonisti e testimonial, i clienti della compagnia telefonica. Ad ognuno di loro è stato chiesto di riprendere brevi momenti della propria vita quotidiana in casa, secondo la stessa logica che sovrintende alla valorizzazione degli user generated contents. Le note scelte per accompagnare il montaggio, sono state quelle della canzone Come together dei Beatles.
Barilla ha adottato una strategia comunicativa multi-canale e multi-target. Il 2 aprile 2020 ha pubblicato sul Corriere della Sera un messaggio di ringraziamento ai dipendenti con un lungo elenco di nomi e con una frase semplice, ma molto emblematica: “siamo fieri di voi”. Durante la pandemia è stato mandato on air e online lo spot “All’Italia” con la voce narrante di Sofia Loren. Uno spot in cui il brand ha raccontato l’#Italiacheresiste, mostrando strade vuote, gente al lavoro con indosso la mascherina (medici, farmacisti, panettieri, magazzinieri, cassiere di supermercati, infermieri, ecc.), gente intenta a cantare sui balconi. In chiusura di spot, l’uso della bandiera italiana e la segnalazione della parola “grazie” a supporto della esternazione di uno stato d’animo comune. A seguire la valorizzazione di uno dei claim più noti: “Dove c’è Barilla, c’è casa”. Pubblicati anche tre post su Facebook. Si tratta di due post di ringraziamento a medici e infermieri con mani che si incontrano, ma che non si toccano e di un altro ritraente lo stabilimento illuminato con il tricolore: un modo per fare agli auguri il 19 Marzo a tutti i papà d’Italia. Su Twitter ed Instagram il brand ha lanciato iniziative analoghe con l’hashtag #ACasaconBarilla o con altri hashtag legati per lo più ad eventi specifici, come per esempio il #CarbonaraDay o la #FestadellaMamma.
Axa assicurazioni ha scelto l’hashtag #InsiemePerProteggerci. Lo sguardo di un bambino che si allunga dalla finestra alla ricerca dei segni di un mondo per lui nuovo e sorprendente. Un mondo a cui non era abituato, ma dove persino gesti semplici e normali si caricano di una valenza simbolica in grado di restituire desiderio e voglia di futuro. È stata scelta la voce narrante del bambino proprio per sottolineare quanto fosse «strano questo mondo» in cui «all’improvviso tutti ci somigliamo», in cui «tutti abbiamo lo stesso curioso modo di fare le cose e lo stesso modo di non farle», in cui «tutti abbiamo imparato a stare più vicini, a fare il tifo per la stessa squadra e a proteggerci per guardare insieme al futuro».
Eni ha deciso di puntare sull’identità nazionale: «Con l’Italia nella lotta al Coronavirus». La narrazione scelta è stata quella di chi sa di avere l’autorevolezza giusta per interloquire con i cittadini invocando il buon senso, ma senza rinunciare a dare qualche indicazione utile. Ecco il testo: «In questi giorni in cui passiamo tanto tempo a casa, in molti vivono difficoltà, fragilità e insicurezze. E a chi di tempo ne ha già vissuto tanto, dedicandosi per lo più agli altri, vogliamo dare qualche piccolo consiglio». L’azienda ha realizzato una serie di contenuti video con i quali si suggeriscono agli utenti alcune attività da fare in casa: #RiscopriamoSorrisi con persone giovani e anziane che riassaporano il piacere della lettura; #AscoltareMusica con gente anziana che indossa le cuffie o seleziona dischi in vinile; #Prevenzione con gente che segue i tg o che scrolla dall’alto verso il basso lo schermo di un ipad per controllare il flusso delle notizie.
Anche Ferrarelle ha puntato sull’identità nazionale con il claim «Grazie Italia. Lisci, gassati o italiani». La narrazione è stata immaginata secondo la logica della antropomorfizzazione del brand. La voce narrante ha puntato ad un coinvolgimento diretto del pubblico, raccontando i momenti in cui quest’acqua ha accompagnato la vita e la storia degli italiani. Una dietro l’altra sono scorse le immagini di vecchi spot, ma anche quelle di un’infermiera al lavoro tra mille difficoltà, di strade e stradine della capitale deserta, di una bimba concentrata a disegnare un arcobaleno e di altro ancora.
Foxy ha puntato sull’impegno condiviso con il claim «Tutti noi possiamo fare qualcosa». Protagonista dello spot la volpe, storica mascotte del brand. Il simpatico e tenero quadrupede vede cadere una mascherina da un furgoncino, la recupera da terra con i denti e la porta davanti all’ospedale al quale sta per essere consegnato il materiale Unicef. A chiudere lo spot, l’invito a dare il proprio contributo per fronteggiare al meglio l’emergenza, facendo una donazione a Unicef. Foxy sui social si è fatto, altresì, promotore di altri due contenuti pubblicati sull’account Facebook e sul blog aziendale con il titolo «Un mondo più morbido». Si tratta di una campagna in cui è stata data visibilità ai propri dipendenti e ai loro figli.
Uno degli spot più discussi è stato quello di Lavazza. Come già messo in evidenza in precedenza, il claim era «Good morning humanity. Il buongiorno di una umanità ritrovata. Viviamolo insieme». Lo spot ha ripreso il discorso all’umanità tratto dal film Il grande Dittatore del 1940 in cui Charlie Chaplin dice di non voler fare l’imperatore, affermando che tutti gli esseri umani dovrebbero aiutarsi sempre e comunque, non odiarsi e disprezzarsi. Altri passaggi significativi di questo discorso: nel mondo c’è posto per tutti, la natura è ricca e ci sprona a combattere per una vita migliore senza confini e barriere, serve una vita libera da avidità ed intolleranza. Si tratta di un mondo in cui scienza e progresso sono capaci di dare a tutti un’occupazione, in cui si riconosca sicurezza agli anziani e si progetti il futuro per i giovani. La voce di Chaplin si accompagna ad alcuni sottotitoli mentre scorrono immagini di ballerine che danzano, di bambini che sorridono, di campi di papaveri, di facce di persone diverse tra loro non solo per età ma anche per ceto e status sociale, di una coppia che guarda il mare al tramonto, di una serranda che si alza, di un palazzo illuminato dal sole, di un pompiere in attività, di una donna che galleggia libera sull’acqua, di due anziani che si tengono la mano. È quella che è stata chiamata #TheNewHumanity. Dopo la trasmissione di questo spot l’hashtag #Lavazza è balzato in cima ai trend topic di Twitter. Tanti gli apprezzamenti per questa scelta oggettivamente coraggiosa. Altrettante le critiche, alcune delle quali hanno riguardato l’eccesso di retorica, la mancanza di proporzionalità tra la portata di quel discorso storico e la gestione degli effetti della pandemia da parte dei governi nazionali attuali, la scelta di un testimonial accusato in passato di pedofilia e soprattutto l’accostamento di un messaggio così impegnativo al marchio di un caffè. C’è chi ha messo in evidenza (Russo 2020) quanto sia stato brusco il passaggio dalle clip comiche nazional-popolari su San Pietro che si beve il caffe in Paradiso, a cui ci aveva abituato Lavazza, ad uno speech sul progresso dell’umanità; quanto non sia stato originale puntare su messaggi incentrati su big values, più che sulla pubblicità del prodotto. Se è condivisibile la ragione che sta alla base della prima obiezione, lo stesso non può dirsi per la seconda. Da anni le aziende, come abbiamo visto nella prima parte di questo contributo, si muovono in conformità a un disegno che tende a far coincidere marketing e societing attraverso la valorizzazione di contenuti che raccontino temi di interesse per utenti e stakeholder, più che questioni d’impronta più squisitamente commerciale. Approccio politically correct? Possibile, ma anche strategia di posizionamento del brand “al di sopra di questioni divisive” e scelta non banale dal punto di vista comunicativo (Bertoletti 2020), anche se, come sempre, a rischio di polisemicità.
Bmw ha scelto l’hashtag #insiemeperripartire” ed il claim «È un nuovo viaggio, possiamo affrontarlo». Alex Zanardi, attraverso immagini suggestive relative alle proprie imprese sportive da campione paralimpico, è stato proposto anche in questa circostanza come esempio a cui ispirarsi per non arrendersi di fronte alle difficoltà della vita. Difficoltà da affrontare e persino da trasformore in un nuovo inizio. La voce narrante ha giocato sulle parole raccontando il miglior “modello” a cui ispirarsi ed aprendo l’immaginario collettivo al bisogno generalizzato di intraprendere un viaggio diverso. Ma questa volta su strada. Un’idea che prende forma dal punto di vista commerciale con la Bmw Concept i4 che rappresenta il prototipo elettrico di ultima generazione. Bmw sta investendo molto in responsabilità sociale d’impresa e in sostenibilità ambientale.
La Molisana si è poggiata sul claim #Spiritotenace-Italia tenace. Si tratta di uno spot fatto di immagini che rappresentano il tessuto produttivo del nostro Paese attraverso una progressione narrativa costituita da elementi semiotici di grande semplicità: lavoratori, famiglia, pasta, camion, strada. Il messaggio ruota intorno ai valori della resilienza, del coraggio di chi non molla mai, della dignità, della coscienza e del senso di comunità – l’Italia tenace, appunto.
Pupa, azienda di cosmetici, ha provato a rassicurare con l’hashtag #torneràilsorriso. Tutte le immagini dello spot hanno riguardato momenti piacevoli vissuti prima che scoppiasse l’emergenza Coronavirus: il visitare una città, il viaggiare in auto col proprio animale domestico, il rimboccare le coperte ai propri figli. Il sorriso è stato proposto come una straordinaria metafora evocativa di significati animati nel montaggio dello spot in conformità con il sentimento diffuso degli italiani. Una metafora che ha avviato il suo percorso di attualizzazione narrativa partendo da quell’oggetto, la mascherina, che nella comunicazione interpersonale ci ha impedito e ci impedisce di notare le diverse espressioni del viso visto che lo copre per i due terzi, ma che tutti consideriamo un “oggetto di valore” poiché sa proteggerci, consentendoci di tornare a sorridere. È il sorriso disegnato col rossetto sul vetro di una finestra il contenuto dell’ultimo frame dello spot, prima dell’arrivo del messaggio finale con il quale si comunica il sostegno di Pupa ad Emergency. La colonna sonora è tratta dal brano Ritornerai di Bruno Lauzi.
Anche Head & Shoulder si è detta convinta che “Ne usciremo insieme e #ATestaAlta”. Uno spot semplice ed essenziale che ha messo insieme da un lato l’ammirazione verso Federica Pellegrini ed il sentimento di gratitudine verso quegli “eroi che sostengono la nostra nazione”, dall’altro la sequenza di immagini rappresentative della gestione ospedaliera (e non) della pandemia: un infermiere al lavoro con la mascherina, un operatore sanitario che misura la temperatura ad un anziano; un arcobaleno disegnato dai bimbi, un nonno che bacia la propria nipotina attraverso lo schermo del pc; una bandiera dell’Italia.
Occupiamoci ora di alcuni spot della Fase 2, ovvero del periodo della convivenza con il virus e dell’avvio al graduale ritorno alla normalità. Mulino Bianco ha puntato sul seguente claim: “Mai come oggi abbiamo scoperto che la felicità è fatta di piccole cose. Portiamole con noi anche domani”. Piccoli momenti di felicità, dunque, da traslare nel presente e nel futuro prossimo. Lo spot raccontava alcune delle azioni quotidiane più significative degli italiani nel periodo del lockdown: videochiamare, cucinare piatti particolari, impastare, suonare uno strumento, etc. Ad accompagnare il montaggio non una voce narrante, ma un brano musicale: nella fattispecie si è trattato di un rifacimento della colonna sonora del musical Tutti insieme appassionatamente, My favourite Things. Sul finale dello spot, compare il video virale della violinista Lena Yokoyama intenta a suonare sul tetto dell’ospedale di Cremona.
Carrefour (anche in questo caso siamo nella Fase 2) ha pensato bene che l’espressione chiave fosse la seguente: “Tutti meritiamo il meglio”. La campagna pubblicitaria è stata focalizzata sull’amore per il cibo, elevato a valore condiviso, a maggior ragione durante l’emergenza Coronavirus. Un motivo in più per affermare nella parte scritta dello spot che “oggi più che mai, una spesa non è solo una lista” perché “sono gli ingredienti che rendono migliore ogni giornata”. Immagini di persone, famiglie, coppie intente a mangiare e cucinare; immagini a cui associare nomi di piatti tipici italiani indicati come sottotitoli su colonna sonora di True colors, cover di Cyndi Lauper interpretata per l’occasione da Ane Brun, a richiamare l’identità nazionale così come ricostruibile attraverso le specialità gastronomiche territoriali. In chiusura di spot l’immagine di un uomo con la mascherina che dopo aver pagato alla cassa, esce soddisfatto dal supermercato: proietta nel testo il simulacro dell’enunciatario oltre che dell’enunciatore, ma esprime anche vicinanza agli italiani verso i quali il brand si propone come un punto di riferimento.
Poltrone Sofà aveva deciso di non ricorrere ad una comunicazione pubblicitaria ad hoc preferendo rimanere in silenzio durante la fase dell’emergenza sanitaria. Ad Aprile, invece, il management aziendale ha cambiato strategia ed ha elaborato un nuovo spot per far sapere ai propri clienti che nei giorni del lockdown il brand non è stato con le mani in mano; che, anzi, ha continuato a progettare, a creare e a disegnare (Meriano 2020). Il significato più nascosto di questa scelta di storytelling risiede nella volontà di testimoniare la costruzione del futuro senza necessariamente ricorrere a gesti eclatanti e senza dover presidiare quotidianamente i territori della comunicazione, come invece è stato fatto da altri. La dimensione oppositiva più evidente è quella fatti-parole, azioni-enunciazioni.
Un caso a parte è quello di Febal Casa. Il brand dell’arredamento casa nel settore total look ha mandato on air il nuovo spot a gennaio 2020. Un testo semiotico che può essere sintetizzato con l’espressione “vietato fare selfie”. La storia è stata sceneggiata in uno store di Febal Casa, in cui i protagonisti, quasi furtivamente, si ritrovano a vivere gli ambienti e gli arredi a proprio gusto e piacimento: chi in camera da letto indossando il proprio abito da sera e accappatoio; chi in cucina insieme alla nonna dedita alla preparazione dei tortellini; chi nella zona living in compagnia del proprio cucciolo; chi rilassato sul divano a mangiare la pizza. Il tutto è stato concepito con l’intento di poter sorridere di momenti trascorsi insieme ai propri cari ed amici; momenti di socialità domestica da immortalare con un selfie, nonostante un cartello esibito dall’addetto alla sicurezza dello store ricordasse che non sarebbe stato possibile fare autoscatti. Come colonna sonora è stato scelto un riadattamento del brano di Fred De Palma Una volta ancora. Lo spot è stato girato e trasmesso prima dell’inizio del contagio da Coronavirus e, quindi, prima del varo delle misure di quarantena obbligatoria. Nonostante ciò, è utile annotare la sua spendibilità anche nella Fase 1, atteso che la finalità di questa forma di comunicazione pubblicitaria è incentrata prevalentemente sulla ridefinizione del modo di concepire e vivere l’ambiente domestico (Cagnazzi 2020), il cui valore nei giorni del lockdown è apparso di straordinaria importanza.
Figura 9 Immagine dello spot di Barilla
Figura 10 Immagine dello spot di Ferrarelle
Figura 11 Immagine dello spot di Lavazza
Figura 12 Immagine dello spot di Bmw con il suo Brand Ambassador
Figura 13 Immagine dello spot di Carrefour (Fase 2)
Figura 14 Immagine dello spot di Febal Casa (trasmesso prima del Covid-19)
Figura 15 Immagine dello spot di Foxy
Primi feedback dai consumatori
Quelle sintetizzate fin qui rappresentano prove evidenti del bisogno di operare radicandosi nella realtà, anche se per distanziarsene prima possibile, almeno al livello motivazionale. E non importa se si rischia, come è effettivamente accaduto, il trionfo della retorica o l’omologazione di forme espressive e messaggi. Non è un caso, del resto, che in una ricerca realizzata recentemente da Lorenzo Marini Group e dall’Osservatorio Emotional Marketing Consumer dal titolo «Italians Emotional Flash», d’impostazione psicolinguistica, sia emerso che solo il 30% di italiani accetta incondizionatamente la logica dell’ordine e della razionalità narrativa, quella logica cioè che promana dalle evidenze empiriche così come emergono dal solo ambiente reale piuttosto che dal combinato disposto ambiente reale/ambiente simbolico. Il 67%, invece, cerca la rimozione della realtà[14]. Un po’ come dire: non mi interessa tanto vedere ciò che è o ciò che vedo con i miei occhi, quanto vedere ciò che vorrei che fosse e ciò che ancora non riesco a vedere. Attenzione, però. Quella che qui si sta mettendo in evidenza è solo apparentemente una contraddizione. La pubblicità ha sempre svolto una funzione di stabilizzazione psicologica. Ciò che non funzionerebbe mai nella situazione ordinaria, performa bene nella straordinarietà e nell’eccezionalità, soprattutto perché agevola l’evasione da una fattualità di segno negativo, pur originando da essa. Detto in altri termini: la pubblicità può anche partire dalla fotografia dello status quo, ma deve sempre fare in modo che il piano della narrazione diventi la pista in cui far decollare bisogni e desideri dei consumatori e nel contempo quella in cui far atterrare le proiezioni strategiche e prospettiche dell’impresa.
Tutto sommato, si tratta di una forma catartica rispetto alla quale la documentazione della realtà non può non essere affiancata dal potere immaginifico, così come liberato dall’inventiva dei creativi. Erich Fromm lo aveva capito già molti anni fa quando sostenne che la maggior parte della pubblicità non si appella tanto alla ragione, quanto all’emozione e alle emozioni. E sappiamo quante sono state quelle in circolo in questo anomalo primo semestre del 2020. È anche per questo motivo che il newsjacking finora ha funzionato. In fondo, il real time marketing altro non è che una miscela di pragmatismo ed astrazione: si parte dalla prima per arrivare alla seconda. È una miscela che, tuttavia, ha bisogno di percorrere sentieri inesplorati se si vuole che la pubblicità continui ad essere, come diceva McLuhan, una delle più grandi forme d’arte del nostro tempo – forma d’arte, ovviamente, congeniale soprattutto alla società dei consumi.
Finora è stata messa in evidenza la tendenza generalizzata dei brand a costruire narrazioni vincolate alla realtà. È interessante chiedersi anche come di fronte a questa tendenza abbiano reagito i consumatori. Dalla ricerca di The Fool & Gwi[15] emerge che l’80% di essi ha apprezzato i brand che hanno attivato campagne dedicate alla Covid-19 specie se volte a supportare il pubblico, coinvolgendolo in misura maggiore di quanto avvenga normalmente. L’apprezzamento maggiore (circa il 90% degli intervistati) è andata a quei brand che sono stati in grado di fornire informazioni pratiche, aiutando le persone a superare situazioni specifiche, e a quelli che si sono impegnati nel processo di conversione industriale (85%). La percentuale di approvazione diminuisce (il 60%) per i brand che, invece, hanno deciso di continuare a vendere online prodotti non essenziali. Dati che denotano la rilevanza di un agire (anche comunicativo) incentrato sui valori del pragmatismo e della concretezza. Dai monitoraggi effettuati da Gfk, Growth from knowledge, emerge che gli italiani si aspettano che aziende e brand comunichino in modo diverso rispetto al passato.
Figura 16 Immagine relativa alla spesa fatta online
Altra domanda utile da porsi è in quale contesto macro economico questa strategia di real time marketing e di newsjacking è andata a collocarsi e quali siano stati gli effetti più significativi del lockdown dal punto di vista dei consumi. L’agenzia Agi ha stimato nel ?39% la perdita di pubblicità televisiva durante la Fase 1. Le previsioni per l’intero 2020 sono prossime al ?20%. Tutto ciò, nonostante in questo periodo sia aumentata in misura significativa la quantità di telespettatori. Un quadro quello sulla pubblicità televisiva che si muove in continuità con le previsioni macro economiche per l’anno in corso, attestantesi all’interno di una quota che oscilla tra il ?8% e il ?12% di Pil. Secondo Mediobanca, gli unici settori che nel mese di Marzo 2020 hanno registrato un segno “+” sono stati il food (10%), le Telco (8%) ed il farmaceutico (4%). L’automotive ha registrato, invece, un ?85%, mentre il settore dell’abbigliamento e delle calzature e quello dell’arredamento casa hanno raggiunto un calo rispettivamente del 67% e del 66%. Quanto alle app più scaricate in Europa, la maggior parte ha riguardato sistemi di video chat, health care, media e social media, entertainment, dispositivi per lo shopping online. In forte diminuzione, invece, le app relative al settore viaggi ed ospitalità, alla mobilità, al real estate e al food delivery[16]. È utile annotare, altresì, che la pandemia ha fatto segnare un incremento di acquisti online anzitutto nel settore alimentare ed in quello relativo ai prodotti essenziali per la casa. In crescita anche l’acquisto di articoli di intrattenimento come libri e film (11%). Nelle spese fatte da uomini si è assistito ad un aumento di ordini riguardanti l’abbigliamento (anche in questo caso l’11%), mentre tra quelle fatte da donne sono aumentati gli acquisti di prodotti per la cura della persona (10%)[17]. Se nella fase pre-Covid-19, come sostiene la ricerca di GFK a prevalere sono stati prodotti estetici, esperienziali e narcisistici e se nella fase della malattia Covid-19 a prevalere sono stati, invece, prodotti basici e anti pandemici, in quella post-Covid-19 si prevede un interesse più marcato nei confronti di prodotti di risocializzazione e gratificazione del sé, incluso il settore dell’entertainment outdoor.
Secondo le rilevazioni del Consumer Panel GFK nelle prime settimane di lockdown è cresciuta (+19,8%) la spesa di beni di largo consumo ed è cambiato il channel mix con la crescita dei canali di prossimità, inclusi i negozi tradizionali, e di quelli online. A marzo l’11,5% delle famiglie italiane ha fatto la spesa online. Il 37% non lo aveva mai fatto prima dell’inizio della Fase 1. Il 19% ha provato a usare questo canale per i propri acquisti, ma senza successo. Le riapertura legate alla Fase 2 hanno favorito il settore hi tech. Le rilevazioni Gfk su retail panel weekly per questo settore hanno registrato anche una crescita del 19% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Nel complesso si tratta di indicatori abbastanza chiari, anche se certo non esaustivi, di alcuni degli effetti più significativi prodotti dalla diffusione del virus nella Fase 1 e in parte della Fase 2. Dati che dimostrano come la pubblicità, almeno questa volta, non sempre sia riuscita a fare la pubblicità. Non è detto, però, che questa sorta di sospensione (temporanea?) della sua funzione tradizionale non faccia bene al mondo dell’advertising. L’evoluzione, del resto, è prospettiva ubiquitaria e assai traversale. Specie in una società pandemica.
Conclusioni
Sia nella dimensione classica di persuasione dei consumatori e rafforzamento delle ideologie dominanti (Corradi 2017), sia in quella più innovativa di documentazione della realtà, i modelli di pubblicità risentono della presenza degli elementi più connotativi dei singoli brand. Ai fini di questa valutazione, oltre alle industry di riferimento, pesano il carattere della marca, il suo posizionamento nel mercato, il suo stile comunicativo, la sua parte materiale, ma anche quella immateriale. Parte quest’ultima che si sedimenta nell’immaginario collettivo indipendentemente dalla fisicità dei prodotti venduti e dei servizi erogati, a maggior ragione in presenza di “forme brevi” di narrazione come quelle dell’audiovisivo che non per questo sono meno articolate, anche perché movimentate da quello straordinario motore semiotico che è il sincretismo (Peverini 2009). Come abbiamo potuto vedere con l’analisi relativa agli spot pubblicitari trasmessi durante la Fase 1, sono sostanzialmente tre le funzioni del brand: i) valorizzazione dell’immagine per consentire rappresentazione e realizzazione di sé, ma anche identificazione; ii) riduzione della percezione del rischio di scelte d’acquisto sbagliate da parte dei consumatori, visto che si offrono sicurezza, continuità, affidabilità; iii) elaborazione delle informazioni relative a provenienza, orientamento, interpretazione, riconoscimento (Perrey e Mazzù 2011). Non vi è dubbio che, almeno durante la Fase 1, la pubblicità abbia annullato, o quanto meno ridotto, le distanze esistenti tra le marche. Non vi è dubbio che essa abbia parlato lo stesso linguaggio e che abbia dato per scontato che vi fosse un unico terreno di contatto tra marche da un lato e stakeholders e consumers dall’altro. Un terreno in cui fare esperienza di sintonia con il quotidiano, di immedesimazione collettiva davanti ad una situazione emergenziale, di reiterazione del messaggio, di frequenza della comunicazione, di capacità di generare nelle audiencies ricordo e memoria, di produzione di format riconoscibili e di intonazioni identitarie, di valorizzazione di vettori del senso che, alla prova dei fatti, sono risultati molto simili, in assenza di progetti di “guerriglia semiotica”, e come conseguenza della distanza dalla “forma merce”. Alto è stato il controllo della coerenza comunicativa non solo con i valori della marca, ma anche con il contesto di riferimento. In linea generale si può sostenere che discorso pubblico e discorso pubblicitario, almeno dal punto di vista socio-semiotico, coincidano spesso e, sovente, concorrano alla creazione di una vera e propria retorica della pubblicità (Traini 2008). Questo perché si produce un macro discorso che include ed assorbe micro discorsi, sul presupposto che i brand sono attori sociali (Marrone, 2007) e volendo far prevalere la logica della contaminazione e del bricolage (Floch 2013) dei significati. La socio-semiotica si è sempre confrontata con il flusso, con il processo, con la reticolarità (Pezzini 2005). La novità sta nel fatto che nel periodo della Covid-19 la tendenza a ricercare una sovra-testualità ha ambito a diventare paradigma. Il mondo dell’advertising ha vissuto, infatti, almeno nei mesi di marzo, aprile e maggio, una situazione anomala, aggrappandosi alla convenzionalità.
Negli spot sono state molteplici le proiezioni degli enunciatori alla ricerca di un unico «lettore modello» (Eco 1979): la popolazione impaurita e preoccupata, ma nel contempo desiderosa di narrazioni pubbliche rassicuranti. Le diverse comunicazioni pubblicitarie hanno fatto leva su pochi “oggetti di valore”: l’accettazione con rassegnazione delle restrizioni delle libertà personali; la condivisione delle responsabilità nell’evitare la diffusione del contagio, la visione prospettica in un orizzonte diacronico che, tuttavia, si fa fatica ad individuare; il senso di solidarietà. Umberto Eco ha sempre sostenuto che un testo è un prodotto mediale la cui sorte interpretativa fa parte del suo stesso meccanismo generativo. Questo principio generale vale a maggior ragione per l’advertising. Creare un testo pubblicitario significa attuare una strategia della quale fanno parte anche le anticipazioni di quelle che potrebbero essere le mosse più significative del mercato. La comunicazione avviene attraverso un «testo complesso» (Volli 2003). È in questo alveo della significazione che devono essere collocate sia le immagini degli emittenti (i brand), sia quelle dei riceventi (i consumatori). I primi creano i contenuti e fanno previsioni su convinzioni, atteggiamenti, aspettative dei destinatari del messaggio. I secondi proiettano all’interno dello spot i simulacri di sé stessi e nel contempo quelli di chi gli sta parlando. Il meccanismo del “testo enunciato” ruota intorno, dunque, alla produzione di immagini che, nella pubblicità al tempo del Coronavirus, hanno poggiato su valori cognitivi (i contenuti specifici) e su valori pragmatici (l’atteggiamento comunicativo). Da un lato c’è stato un “dire per essere creduti” (Magli e Pozzato 1984), dall’altro un “riconoscersi per crederci”: riconoscersi, cioè, in quell’uniforme rappresentazione pandemica per credere al ripristino della normalità della vita quotidiana, prima e meglio possibile. Anche da questo punto di vista gli spot sono stati, sempre per motivazioni socio-semiotiche, un po’ meno testi aperti e po’ più testi chiusi. Hanno spezzato la catena della semiosi illimitata di Peirce. Si è trattato, infatti, di una cooperazione interpretativa che ha ridotto al minimo le possibilità di decodifiche aberranti e che, perseguendo l’obiettivo della rappresentazione situazionale, si è sviluppata, come sempre accade nelle pubblicità, sul presupposto di una mancanza (Propp 1966). In questo caso, la mancanza della libertà di continuare a fare ciò che siamo abituati a compiere quotidianamente ha favorito una strategia impostata su una grande complicità dei due poli della comunicazione (Grandi 1999), che ha elevato l’enunciatario a rango di co-enunciatore accomunati entrambi dall’esperienza di trovarsi, senza preavviso, davanti ad un virus in grado di seminare morte e devastazione, recessione e disuguaglianze.
Figura 17 Immagine dello spot di Pupa
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