Introduzione
Che fine hanno fatto i bambini? Il 27 aprile, dopo più di un mese dal decreto del 9 marzo che ha sancito il distanziamento fisico come misura per contenere il contagio da Covid-19, un manifesto affisso in una piazza deserta pone il quesito a una collettività appartata. Accanto, sagome di cartone riproducono i corpi dei bambini e degli adolescenti scomparsi nell’emergenza sanitaria non solo dallo spazio pubblico, ma da tutte le regolamentazioni per la sua fruizione.
Quando il 4 marzo il Decreto del presidente del Consiglio dei Ministri ha sospeso i servizi educativi per l’infanzia e le attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado come uno dei primi interventi per contenere e gestire l’emergenza da Coronavirus Disease 2019 (nota come Covid-19), le conoscenze sulle modalità di diffusione della malattia erano ancora molto limitate. A distanza di qualche mese, al momento della chiusura di questo articolo, le conoscenze scientifiche, sebbene non del tutto stabilizzate, si sono ampliate; manca ancora, tuttavia, sulla questione bambini e crisi sanitaria, l’attenzione e la chiarezza di prospettive che il tema meriterebbe.
Ripercorrendo e analizzando le azioni di genitori ed educatori che, dai primi giorni di marzo, si sono mobilitati – inizialmente nello spazio immateriale della rete, successivamente anche in una graduale e limitata riappropriazione dello spazio materiale – propone un’analisi e alcuni elementi di riflessione sulle condizioni dei bambini e degli adolescenti nella pandemia e nel post-pandemia[1].
La prospettiva teorica nella quale si inscrive l’indagine, che si basa su osservazioni etnografiche nello spazio online e offline (Hine 2015; Markham 2017), è fornita dai lavori recenti sull’ecologia politica sviluppati negli Science and Technology Studies (Haraway 2016; Latour 2015; 2017; Stengers 2005a; 2005b; 2009) nel loro incrocio con la sociologia del corpo (Borgna 2005) e con gli studi femministi sulla corporeità (Butler 2013; 2015). Lo studio intercetta l’affermarsi di nuove pratiche genitoriali e del fare famiglia (Satta 2012) che infrangono la distinzione tra spazio privato (istituzionalizzato nella modernità come spazio d’elezione della famiglia) e spazio pubblico, portati a convergere in nuovi emergenti spazi di ecologia sociale.
I corpi nella pandemia, tra epidemiologia in costruzione ed ecologia socio-naturale
In reazione allo spillover zoonotico (Quammen 2012) che ha determinato il diffondersi di un nuovo patogeno e di una (nuova) malattia che colpisce la specie umana, nelle università e negli enti di ricerca nazionali e internazionali sono state avviate tempestivamente attività di ricerca per contrastare il contagio e, al contempo, fornire le informazioni necessarie ai processi decisionali e politici di gestione dell’emergenza. Data la fenomenologia sociale e globale della pandemia e l’esposizione mediatica che l’ha accompagnata, l’attività scientifica di questi mesi ha mostrato – per la prima volta in modalità così rilevanti – il volto meno esposto della ricerca, quello della scienza in costruzione, fatta di ipotesi, dati incerti, dispute, controversie – scienza in fieri che, nella metafora latouriana del Giano bifronte, si contrappone alla scienza stabilizzata e pronta per l’uso (Latour 1987).
Ed è nel frame incerto di una conoscenza che gradualmente si accresce (seppure in un processo tutt’altro che cumulativo e lineare) che, per essere decifrato, va inserito il tema bambini e Covid-19. Le controversie principali sulla questione hanno riguardato (e in parte riguardano ancora) tre differenti aspetti: 1) la possibilità per i bambini di contrarre la malattia, 2) la sintomatologia nei bambini, 3) i bambini come possibili agenti di trasmissione.
Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, la sospensione della frequenza scolastica è parsa una misura necessaria per ridurre la mobilità e coerente con le informazioni relative ad altre influenze, come la H5N1, per la quale i bambini sono risultati essere diffusori dell’infezione in oltre il 50% dei casi. Già nei primi giorni dell’emergenza si è diffusa l’idea che il virus SARS-CoV-2 comportasse rischi differenti per le diverse generazioni. Studi condotti su pazienti pediatrici in Cina avevano mostrato i bambini come meno esposti al virus e soggetti alla possibilità di contrarre la malattia in forma asintomatica. Da qui la diffusione di una delle visioni che ha attribuito un forte imprinting alla gestione della crisi pandemica: quella dei corpi dei bambini come portatori sani della malattia e potenziali “serbatoi di contagio”, in altre parole untori.
La questione relativa ai bambini nella pandemia Covid-19 è affrontata in questo lavoro declinando il tema della salute non solo nelle sue dimensioni sociali (Blaxter 1990; Della Bella 2013; Tognetti Bordogna 2017), ma soprattutto in una dimensione ecologica o, più propriamente, di ecologia politica, nel framework definito nell’ambito degli studi sociali sulla scienza e tecnologia (Stengers 2005a; 2005b; 2009; Latour 2015; 2017; Haraway 2016). L’ecologia politica è qui intesa come la politicizzazione di pratiche di conoscenza e pratiche materiali che hanno a che fare con i processi dell’abitare il mondo. In accordo con Latour, le questioni politiche, si manifestano come «problemi terreni di vita insieme o contro altri terrestri che hanno le stesse poste in gioco» (Latour 2017, trad. it., 2018, 70), in altri termini, «no issue, no politics» (Marres 2012). In tale prospettiva l’ecologia perde l’accezione disciplinante di aderenza a princìpi di rispetto dell’ambiente, per tornare a una visione più profonda, legata alla stessa etimologia del termine, che la riconduce all’analisi delle interazioni tra organismi e ambienti di vita. Tale approccio non solo segna la demolizione della mistificante dualità Natura/Società, ma sancisce «la fine della “Natura” come concetto in grado di riassumere i nostri rapporti con il mondo e di pacificarli» (Latour 2017, trad. it. 2018, 50-51), chiamando in causa un ripensamento delle pratiche scientifiche nella costruzione del mondo.
In questa prospettiva l’agency del virus è naturale e sociale al tempo stesso. Essa non è circoscritta al/nel corpo umano ma, attraverso una fitta rete di relazioni umane e non umane, si inscrive nelle trasformazioni dello/nello spazio e delle/nelle stesse reti di relazione che regolamentano lo spazio. Anche nella pandemia, l’agency è distribuita nei complessi sistemi di interdipendenza in cui sono inseriti i corpi, coinvolti nelle pratiche sociali, e di cui dispositivi sanitari e tecnologici implicati in queste pratiche sono parte costitutiva. Le distinzioni analitiche che tendiamo a operare tra macchina, umano e animale poggiano tutte su una fitta trama di relazioni di dipendenza e «tutte le dimensioni non umane della vita corporea si rivelano essere dimensioni costitutive della sopravvivenza umana» (Butler 2015, trad. it., 2017, 207).
Nelle ecologie socio-naturali di Donna Haraway, essere una creatura terreste significa andare oltre l’eccezionalismo umano, per costruire pratiche (necessarie e situate) di «solidarietà multispecie» (Haraway 2016), alleanze tra umani e non-umani. In questa prospettiva pensare seriamente al virus richiede un esercizio di riflessività sulle pratiche che causano le pandemie e su tutte le condizioni che favoriscono le zoonosi: l’uso del suolo, l’urbanizzazione, la deforestazione, l’espansione dell’agricoltura intensiva, il commercio, legale e non, di fauna selvatica a scopo alimentare e/o farmaceutico. Ma, nello stato di emergenza di ecologie distrutte messo a nudo dal virus, pensare seriamente al virus, significa anche ripensare alla vulnerabilità di altri individui, di coloro che vivono il lockdown senza casa, reddito o senza un’adeguata assistenza sanitaria, come una questione (ecologica) di cui farsi carico e prendersi cura. La cura di questa vulnerabilità richiede nuove pratiche di relazione, di affinità, di parentela, nuove kinship, come sostiene Donna Haraway (Haraway 2016). In questa prospettiva i paragrafi che seguono analizzano le nuove pratiche ecologico-politiche messe in atto da genitori e insegnanti nella crisi pandemica, come pratiche generative di parentele e non (solo) di bambini (Clarke and Haraway 2018).
Il lockdown come campo di ricerca etnografica
A partire dal mese di marzo, sulle piattaforme in rete si sono costituiti gruppi di genitori, educatori e docenti per discutere e confrontarsi sulle condizioni dei più piccoli nella crisi pandemica. L’analisi proposta in questo articolo è stata costruita a partire dall’esplorazione, nei mesi di marzo, aprile, maggio e per parte del mese di giugno, degli spazi attivati da questi gruppi, tra loro eterogenei e distribuiti su tutto il territorio nazionale. L’osservazione ha coinvolto una pluralità di spazi di interazione online affiancati, quando l’allentamento delle restrizioni alla mobilità l’ha permesso, da spazi offline.
Nei mesi dell’emergenza sanitaria la ricerca etnografica, avendo come oggetto di osservazione esclusivamente i contenuti generati in rete da interazioni online, è stata forzata a definire il lockdown come proprio fieldwork (Hine 2020), divenendo essa stessa “nativa digitale” (Lupton 2020). D’altro canto, il restringimento del campo etnografico alla realtà virtuale ha consentito alla ricerca di addentrarsi maggiormente in luoghi sociali che hanno assunto rilevanza cruciale nella crisi pandemica. La disponibilità di piattaforme e dispositivi tecnologici nell’esperienza di distanziamento fisico vissuta in questi mesi ha trasformato le forme della socialità online e instauratone di nuove, manifestatesi nelle diverse performance musicali reinventate sul web, negli aperitivi online, nelle diverse forme assunte dal lavoro in remoto, dalla didattica a distanza, nella partecipazione a webinar, nella creazione di hub di comunità locali. Queste attività hanno aperto molteplici “finestre digitali” di osservazione per la ricerca sociale che al contempo ha dovuto reinventare l’utilizzo delle tecniche digitali già utilizzate[2], e, soprattutto, analizzare i nuovi significati assunti, da un lato, dall’agire sociale online e, dall’altro, dalla ricerca sociale stessa (Hine 2020).
I campi costruiti nelle ricerche web-etnografiche richiedono letture e interpretazioni attente delle cornici entro le quali gli individui costruiscono il loro repertori di pratiche comunicative e delle condizioni che consentono e/o condizionano l’espletazione di queste pratiche. Nell’osservazione degli spazi online e nell’analisi dei significati diversi che questi assumono per i partecipanti rileviamo la difficoltà di individuare ciò che non appare o che appare distorto nei processi di rappresentazione nella platform society (Van Dijck, Poell and De Waal 2018). Le interazioni digitali derivano dall’esistenza incarnata e sono incorporate nelle vite quotidiane, ma non tutto quello che gli individui fanno lascia traccia nella rete; la mediazione dello schermo limita la comprensione delle interpretazioni e delle emozioni degli utenti, e le differenti risorse socio-economiche, le reti personali, i fattori generazionali che differenziano l’agire (o il non agire) nella rete rischiano di fornire una rappresentazione falsata dell’agency sociale (Hine 2015).
Ed è infatti proprio l’opposizione assenza/presenza dei corpi (e della loro rappresentazione) nella rete e nello spazio pubblico uno dei principali fuochi d’attenzione di questa indagine. Gli spazi di discussione digitali tra genitori, educatori e docenti hanno consentito di “osservare” alcune dimensioni del vissuto dei bambini nel lockdown rimosse dalla narrazione della pandemia costruita dalle istituzioni governative e dai media mainstream e che l’attività di questi gruppi ha contribuito a rendere visibili prima nella rete stessa, poi in luoghi più ampi dello spazio pubblico.
La ricerca ha avuto inizio con la raccolta e l’analisi di alcuni documenti redatti nei primi giorni dopo il lockdown per chiedere alle istituzioni governative dei chiarimenti su come le restrizioni di mobilità fossero declinate nel caso specifico dei bambini. L’indagine si è poi avvalsa dell’esplorazione dei gruppi su Facebook che hanno posto i bambini nell’emergenza come tema elettivo di discussione[3]. Il campo etnografico è stato progressivamente assemblato e ampliato, mediante un’osservazione multisituata (Marcus 1995) e connettiva (Hine 2000; 2004), ripercorrendo il filo delle interazioni e dei link riportati in ciascuno spazio, in un processo ricorsivo che ha attraversato piattaforme social (Facebook, Zoom, Youtube, WhatsApp, Change), blog, giornali web, etc. L’etnografia virtuale (Hine 2015; Markham 2017) è stata affiancata, successivamente, da osservazioni di campi tradizionali offline, con la partecipazione a eventi organizzati localmente.
I corpora testuali e iconografici raccolti sono dunque costituiti da post, commenti, documenti circolati sui gruppi Facebook, testi di video-interviste, lettere aperte inviate alle istituzioni, schizzi e materiali circolati tramite WhatsApp, note etnografiche raccolte negli eventi online e offline locali cui è stato possibile partecipare nei giorni immediatamente successivi alla fine del lockdown. Il flusso continuo di informazioni raccolto nei tre mesi di osservazione è stato archiviato, codificato e analizzato mediante il supporto del software Nvivo. Le operazioni di segmentazione e qualificazione della documentazione empirica sono state svolte in modalità simultanea durante la ricerca (Cardano 2011; Glaser and Strauss 1967). Nei paragrafi che seguono sono riportati sinteticamente alcuni stralci del materiale testuale e iconografico raccolto, selezionati per argomentare l’analisi riportata.
Il focus dell’esplorazione è stato l’analisi della agency sui/dei corpi nello spazio pubblico durante la pandemia, così come si manifestava nelle pratiche discorsive e mediali messe in atto intorno alla questione bambini e lockdown. Il corpo (non solo quello dei bambini) è dunque stato individuato come categoria analitica, che si definisce in relazione ai concetti sensibilizzanti (Blumer 1969) di salute e di libertà che, nei mesi della crisi pandemica, sono stati negoziati in un rapporto che ha vacillato tra interazione sinergica e contrapposizione.
Nei paragrafi che seguono, sono analizzate alcune delle agency che, a partire dalla complessa rete di relazioni virus-corpo emerse nella ricerca empirica, hanno determinano le profonde trasformazioni sociali verificatesi nei mesi della crisi sanitaria. Nell’esperienza pandemica il corpo è, al tempo stesso, ospite, vettore e vittima del virus. In mancanza di un vaccino, nei primi mesi dell’emergenza il distanziamento fisico è risultato come l’unica, urgente, misura da intraprendere per arginare la diffusione del virus. Tale disposizione, che ha significato la sottrazione dei corpi dallo spazio pubblico e la loro segregazione negli spazi privati, ha comportato forti limitazioni alle libertà individuali per chiunque. Ma in questo processo di svuotamento dello spazio pubblico dai corpi, il caso dei bambini assume un carattere peculiare. Mentre la presenza dei corpi degli adulti viene regolamentata in tutti i suoi particolari nelle ordinanze governative, i corpi dei bambini scompaiono anche dai disciplinamenti sulla materia e dalla retorica che ha accompagnato i decreti.
La dematerializazzione dei corpi dei bambini nello spazio pubblico
La scomparsa dei bambini dallo spazio pubblico, ma anche dal disciplinamento dello spazio, è il primo elemento ad essere rilevato e sottolineato da alcuni genitori che il 20 marzo, dieci giorni dopo l’inizio del lockdown, indirizzano al Presidente del Consiglio dei Ministri una lettera aperta chiedendo una più chiara regolamentazione circa le possibilità di svolgimento dell’attività motoria, che appaiono previste per gli adulti ma non per i bambini. La missiva rileva come nella ordinanza del 20 marzo del Ministro Speranza, nel punto B dell’articolo “Ulteriori misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale” sia previsto che gli adulti possano svolgere attività motorie ma solo individualmente, introducendo di conseguenza una norma discriminante nei confronti dei minori, che non possono uscire non accompagnati.
In riferimento a questo comma chiediamo come si debbano comportare i genitori di figli minori, che siano impossibilitati a uscire individualmente. Siamo molto stupiti che sin dall’inizio delle restrizioni non siano state date indicazioni chiare su come comportarsi con le bambine e i bambini, generando confusione e ansia all’interno di molte famiglie [.…]. È infatti sull’enorme assenza dei bambini dalla considerazione politica che ci interroghiamo: come dobbiamo comportarci noi, genitori di minori impossibilitati a uscire individualmente?[4]
Successivamente da diverse città d’Italia lettere e petizioni chiedono una riflessione approfondita degli esperti e delle istituzioni per approntare misure volte a consentire ai bambini di uscire di casa, «non per tornare a giocare nei parchi», ma per «sgranchirsi le gambe»:
Siamo disorientati dall’attuale comunicazione istituzionale che sul punto è generica. […]. La nostra intenzione non è certo quella di minimizzare, né quella di abbassare la soglia di attenzione. Proprio per questo chiediamo una risposta delle istituzioni capace di distinguere tra effettive situazioni di pericolo e situazioni di nessun pericolo che devono essere espressamente regolamentate[5].
Gli appelli, facendo riferimento ai documenti dell’Oms che raccomanda brevi passeggiate nel rispetto delle distanze di sicurezza, chiedono l’adozione di un protocollo specifico che consenta alle famiglie di assicurare quotidianamente un tempo minimo all’aria aperta per i bambini. Nei giorni in cui le libertà di ognuno sono fortemente limitate a tutela della salute pubblica, genitori ed educatori rilevano il paradosso della rimozione dei temi della salute dei bambini. Nelle lettere inviate alle istituzioni sottolineano la dimensione psico-fisica della salute, trascurata in questa fase, ma rilevante (ancor più) per i bambini, corpi in crescita che necessitano di movimento e relazioni e che, costretti nelle mura delle case, vivono stati di disagio e angoscia. A questi stati emotivi i genitori devono far fronte in solitudine, non tutti con risorse adeguate.
Mentre in molte case e in numerosi gruppi WhatsApp di genitori, per rispondere al disagio dei bambini, si cercano soluzioni private volte a rassicurare i propri figli – attività “casalinghe” più o meno creative da realizzare con i figli, percorsi motori all’interno delle case, videochiamate tra amici – in questi documenti il tema della salute dei bambini è posto in una prospettiva pubblica, sociale e collettiva, facendosi carico anche dei bambini e dei ragazzi che vivono situazioni domestiche differenti dalle proprie e di categorie di individui più fragili, per i quali che andrà tutto bene non è affatto scontato.
La nostra impressione è che tali provvedimenti, presi sotto la pressione dell’emergenza, non abbiano tenuto conto dell’esistenza di fasce di cittadine e cittadini differenti dall’adulto autonomo, sano e benestante (persone con disabilità, senza-tetto e per l’appunto bambine e bambini), fino ad arrivare al paradosso che […] sportivi adulti e […] animali da compagnia ricevono maggior attenzione rispetto a categorie assai più fragili[6].
In assenza di un pronunciamento da parte delle istituzioni, genitori e docenti si costituiscono in gruppi di discussione in rete per confrontarsi e discutere di ulteriori iniziative da intraprendere. Si tratta soprattutto di gruppi Facebook che hanno progressivamente raccolto l’adesione di migliaia di utenti (Priorità alla scuola ad esempio nel mese di giugno conta circa 10.000 followers), nati inizialmente come hub di gruppi locali diffusi su tutto il territorio nazionale e che, man mano si connettono nel web con spazi collettivi pre-esistenti nella rete e/o danno vita a nuovi spazi, al fine di rispondere alla necessità emergente di condividere e coordinare contenuti e azioni.
L’esibizione delle sagome dei corpi dematerializzatisi, nello spazio pubblico trasformato dalla pandemia, diviene una pratica comunicativa che si contrappone alla scomparsa dei corpi nelle pratiche discorsive delle istituzioni e della comunicazione mainstream. Corpi di cartone disegnati e colorati dai bambini e dalle bambine e affissi dai genitori nelle strade-fantasma di fine aprile rivendicano la necessità di far irrompere, con una presenza alternativa, i corpi scomparsi in quello spazio che è stato svuotato della loro materialità (figura 1).
Figura 1 Immagini dell’iniziativa Che fine hanno fatto i bambini?:
a) schema organizzativo dell’evento; b) sagome dei corpi dei bambini nel lockdown.
(Fonte: Scuola e bambini nell’emergenza Covid-19; illustrazioni di Ananda Ferrentino)
L’utilizzo di questi corpi cartonati evidenzia il processo di rimozione dei corpi dei bambini dallo spazio pubblico affermatosi progressivamente negli ultimi decenni (Valentine 2004) e che con il lockdown ha raggiunto l’apice. La separazione tra spazio pubblico e privato, che ha caratterizzato l’età moderna, ha fatto della sfera pubblica l’ambito in cui si esercitano i diritti e si esprime l’individualità e, di quella privata, il luogo governato dai bisogni e dagli affetti (Brown 2006; 2015). Le democrazie liberali si sono costituite e strutturate attorno a questa dicotomia, sorretta dal presupposto che gli uomini si muovono nello spazio pubblico e le donne nello spazio domestico dove, un po’ alla volta, sono stati spinti anche i bambini, preservati così dai rischi possibili del pubblico, al quale possono accedere esclusivamente con la protezione o il controllo degli adulti (Harden 2000). La concezione di uno spazio pubblico, per un verso, come luogo pericoloso e insicuro per i bambini (Boyd 2014), dall’altro come luogo da proteggere da bambini (molesti) che possono recare disturbo alla quiete (Holloway and Valentine 2000), ha fatto sì che tale spazio negli ultimi decenni si sia “normalizzato” e “naturalizzato” (Valentine 2004, 80) su esigenze e prospettive degli adulti. Questa tendenza ha comportato una graduale contrazione delle pratiche di gioco all’aperto, negli spazi pubblici, da parte dei bambini, determinando un processo di privatizzazione del tempo libero dei bambini, limitato ai pochi spazi ritenuti protetti, quale l’ambito domestico e istituzionale, e luoghi ad accesso ristretto e a pagamento, accompagnato da una crescente privatizzazione del lavoro di cura e di sorveglianza nei loro confronti (Hochschild 2003; Cook 2004). Nel lockdown, il sistema istituzionale (pubblico e/o privato) di cura dei bambini è venuto a mancare, mandando in tilt milioni di famiglie, costrette in alcuni casi alla convivenza forzata, in differenti condizioni socio-economiche e sanitarie.
Dopo circa due mesi dall’inizio della crisi sanitaria, tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, arrivano alcuni segnali di attenzione dalla scienza. Un articolo pubblicato su Nature (Mallapaty 2020) riporta studi dai risultati contrapposti: secondo alcune ricerche, i bambini di età inferiore ai dieci anni avrebbero le stesse probabilità degli adulti di contrarre la malattia (sebbene con sintomi meno gravi), mentre altre rilevano tassi di infezione più bassi tra i bambini, risultato confermato da uno studio riportato su Science (Zhang et al. 2020), secondo il quale i ragazzi di età compresa tra 0 e 14 anni sarebbero meno suscettibili alla malattia rispetto a coloro che ricadono in altre classi di età.
Le ricerche sono concordi invece nell’affermare che i bambini si ammalano meno gravemente. Secondo quanto riportato dai pediatri italiani «le eccezioni sono poche, per lo più limitate a manifestazioni infiammatorie scatenate dal virus»[7]. Circa l’ultimo punto controverso – i bambini come potenziali trasmettitori del virus – secondo alcuni epidemiologi i bambini possono ospitare il virus, e verosimilmente trasmetterlo, ma la possibilità di contagiare risulterebbe estremamente bassa, essendo minore la carica virale che possono diffondere[8]: oltre ad ammalarsi di meno, i bambini sarebbero dunque anche meno contagiosi.
Con il persistere del silenzio della politica, nell’arena pubblica si fanno avanti pediatri e operatori della salute dei bambini per affermare, a fronte dell’incertezza sulle possibilità di trasmissione della Covid-19 da parte dei bambini, le evidenze sui danni collaterali che il prolungato stato di isolamento sociale e di chiusura dei servizi educativi arreca alla loro salute[9]:
Occorre trovare un punto di equilibrio diverso tra il rischio di aumentare il numero di casi Covid-19 e la limitazione dei diritti dei bambini. L’assenza di un piano globale che consideri e monitori le diverse conseguenze avverse per i bambini suggerisce che tali danni sono sottovalutati e che forse, più in generale, i diritti dei bambini non sono oggetto di adeguata attenzione. È responsabilità della politica sviluppare linee di indirizzo che si basino su prove scientifiche e raccomandazioni internazionali e che attribuiscano il giusto valore ai bambini, agli educatori e insegnanti e alle famiglie[10].
Per tutti i bambini, eccetto per quei pochi che possono vantare una buona dotazione tecnologica in casa e genitori in grado di accompagnarli nelle lezioni e nei compiti, si sta accumulando un ritardo educativo, che per la maggioranza è molto rilevante […], si moltiplicano le segnalazioni da parte di genitori e insegnanti sul fatto che, anche in quella minoranza di bimbi che ha avuto accesso alle tecnologie e al supporto domestico, si rendono sempre più evidenti cali di attenzione e indisponibilità alle attività finalizzate all’apprendimento. Al danno educativo si associano manifestazioni di disagio psicologico, aumentato rischio di violenza subita o assistita, riduzione di qualità degli apporti alimentari, riduzione dei supporti abilitativi e a volte strettamente medici per bambini affetti da disabilità o patologie croniche, naturalmente in stretta relazione con la qualità e offerta preesistente dei servizi, già carenti in molte parti d’Italia[11].
Secondo i pediatri, sarebbero necessarie scelte equilibrate, che minimizzino, da una parte, il rischio infettivo e, dall’altra, riducano e prevengano i rilevanti danni derivanti dalla prolungata mancanza di apporti educativi e di tempi adeguati di socializzazione. Scelte, che, nel mese di giugno, nel momento di revisione di questo lavoro, la politica non ha ancora palesato[12].
Intersezioni e ambivalenze della vulnerabilità
Nel tempo (apparentemente) sospeso del lockdown, con l’avvicinarsi della Fase 2, il presente è colto nel suo sconfinare gradualmente nel futuro, dove l’eccezionalità di una condizione straordinaria e necessaria si proietta nei giorni che verranno senza una sufficientemente chiara tematizzazione e condivisione di quali siano le condizioni volte ad assicurare il benessere psico-fisico dei bambini, quali le possibilità di una ripresa, anche per loro, delle relazioni affettive e sociali, e del ritorno (se pur lento e graduale) nei loro spazi di azione e apprendimento.
Ad un certo momento, si è cominciato a ipotizzare di non restituire rapidamente ai bambini la possibilità di tornare a scuola o all’asilo, di rincontrare gli amici e i coetanei […]. Ho realizzato che non in una fase momentanea di sospensione ci troviamo, bensì in un momento in cui c’è da pensare seriamente a quel che facciamo, a quel che stiamo per fare e ai suoi effetti […]. È davvero questo il modello di vita che proponiamo a noi stessi come buono? Un modello che dimostra così tanta disattenzione e incuria verso i bambini?[13]
La riconquista dello spazio e del tempo assumono dunque un significato emancipatorio. In occasione della ripresa della circolazione resa possibile alle auto, ma non ancora ai bambini, le loro sagome tornano nelle strade per fare spazio, darsi tempo (figura 2).
La città ha respirato aria pulita durante il lockdown, vogliamo che i bambini possano fare altrettanto. Ai bambini […]spetta un risarcimento, necessitano di SPAZIO, per poter vivere la socialità nello spazio urbano, imparare a convivere con le regole di distanziamento fisico, riprendere contatto con i coetanei in assenza di scuola, farlo all’aria aperta perché più sicuro […]. Gli/ci SERVE TEMPO per superare il trauma dello stravolgimento delle loro vite e per superare la paura[14].
Nonostante l’urgenza sottolineata dalle molteplici richieste dei genitori, nei decreti che hanno regolato socialità e salute nel lockdown, non un riferimento è dedicato ai bambini, né alla intensificazione del lavoro di cura ricaduta improvvisamente sui genitori, che aggrava le condizioni lavorative di circa venti milioni di italiani, principalmente donne.
Figura 2 Materiale informativo e immagini dell’evento del 8 maggio
Facciamo spazio, diamoci tempo
(Fonte: Scuola e bambini nell’emergenza Covid-19; illustrazioni di Ananda Ferrentino)
Le scuole sono state le prime a essere chiuse e sembra che saranno le ultime a riaprire, con conseguenze dirette sulla vita di molte donne […]. Questa cosa dovrebbe essere messa a tema, invece è qualcosa che rimane tra le pieghe, rimane addosso ai singoli individui, come se fosse loro responsabilità […]. Lo schiacciamento verso una sola malattia, a causa della alta contagiosità, comprensibilmente, ma troppo a lungo, ci ha portato a ignorare tutte le altre malattie, ci ha anche fatto ridurre a questa dimensione le nostre corporeità […]. Questo periodo così difficile ha fatto emergere una vulnerabilità diffusa […]. Abbiamo avuto paura di ammalarci, che si ammalassero le persone cui vogliamo bene. Poi però le vulnerabilità hanno assunto diverse gradazioni […]. Queste vulnerabilità erano state dimenticate e sono emerse durante il lockdown. Casi emblematici sono quelli dei migranti, dei bambini, delle persone anziane… e il rischio è che nella Fase 2 si vada verso un peggioramento di questa situazione[15].
A proposito della vulnerabilità, Judith Butler avverte: «occorre prestare particolare attenzione a ciò che comporta mobilitare la categoria di vulnerabilità e, più precisamente, mobilitarla in modo concertato» (2015, trad. it., 2017, 220). La nozione di vulnerabilità opera in due direzioni: «per individuare una popolazione come bersaglio o per proteggerla» (ivi, 226). Queste due modalità apparentemente antitetiche, prendere di mira e proteggere, sono pratiche che, secondo Butler, appartengono alla stessa logica di potere.
La natura ambigua della vulnerabilità è implicita nelle stesse dinamiche del contagio. «Il contagio sottolinea il carattere poroso e interdipendente delle nostre vite fisiche e sociali, comunque corporee […]. Le modalità reciproche e materiali di condivisione descrivono una dimensione cruciale della nostra vulnerabilità, intrecci e interdipendenza della nostra vita sociale incarnata» (Butler 2020). La vulnerabilità umana nella pandemia è connessa all’appartenenza a reti di corpi materiali e incarnati, di umani e non umani; corpi che si recludono nelle case ma che al tempo stesso chiedono cura per sé stessi e per i corpi degli altri. Tale ambivalenza prende forma esplicita nell’uso dell’hashtag #iorestoacasa, che diviene il nome il decreto che applica le misure restrittive delle libertà personali da adottare per ridurre il diffondersi della pandemia e pratica di (auto)regolazione della quotidianità per conformarsi a tali limitazioni. Dall’analisi delle note etnografiche raccolte dall’osservazione dei social nei giorni del lockdown, emerge tuttavia anche il lato oscuro di questa pratica. Esso si manifesta, da un lato, nella colpevolizzazione – ai limite della stigmatizzazione – di coloro che non si conformano, o adottano comportamenti borderline – come ad esempio i joggers o i bambini che cercano spazi di movimento nei cortili deserti; dall’altro, nella sottovalutazione delle difficoltà di coloro che non hanno una casa, o per i(le) quali la casa non è un posto sicuro, o di chi non ha potuto restare a casa per consentire la continuità di servizi e processi produttivi essenziali.
Nel momento in cui il virus ha messo a nudo la vulnerabilità umana, nella sua dimensione globale, di tale vulnerabilità è emerso anche il carattere differenziale. Di queste “diverse gradazioni” della vulnerabilità umana si fanno carico i gruppi mobilitati sui temi della salute dei bambini durante il lockdown.
La riflessione sui bambini si interseca con i temi delle disuguaglianze sociali, del lavoro, dell’utilizzo sociale dello spazio pubblico (apertura dei parchi, messa a disposizione di spazi pubblici per la scuola), dell’ambiente. Con la ripresa delle attività produttive, l’inquinamento atmosferico, delle acque, del suolo, delle città, temporaneamente sospeso nei mesi del lockdown, diviene un argomento frequentemente ripreso nei discorsi di questi gruppi che propongono un “lockdown agli inquinatori”. Una fitta rete di alleanze sui temi educativi, sociali, ambientali e della salute confluisce in azioni e mobilitazioni che portano allo scoperto, nello spazio pubblico, le discussioni sulle condizioni abitative nelle città; dei lavoratori della cultura e dello spettacolo, anch’essi dimenticati nell’emergenza; il lavoro sommerso dell’associazionismo e delle reti di mutualismo e di solidarietà che nei mesi del lockdown si sono attivate, spesso in modalità esclusivamente volontaristica e supportata da attività di crowdfunding, per fornire la spesa a chi era in difficoltà economica o per prestare supporto alle donne vittime di violenza.
Queste forme di responsabilità sociale si contrappongono alla individualizzazione di ogni responsabilità; alla norma dell’“auto-sufficienza” (Butler 2015, trad. it., 2017, 27), per la quale, nei sistemi neoliberali, la «responsabilità è innanzitutto responsabilità per la propria auto-sufficienza economica» (ibidem) e secondo cui coloro che non sono capaci di conformarsi a tale norma diventano potenzialmente dispensabili. «Le creature dispensabili sono prodotte da un’etica pubblica che impone forme di responsabilità individuale o che operano nel modello di privatizzazione della “cura”» (ibidem). Alla “dispensabilità” degli alunni che rischiano di essere esclusi dalla didattica a distanza, replicano genitori e docenti che redigono una Carta della didattica dell’emergenza (come viene definita la didattica a distanza) per elaborare una riflessione su diritto allo studio, disuguaglianze, contenuti e metodologie, reti sociali e affettive, lavoro di cura, rapporto con l’ambiente urbano e naturale:
Se uno schermo non sarà mai una scuola, spazio pubblico e luogo fisico di scambio, di incontro in cui bambini e ragazzi vivono esperienze e relazioni autonome e lontane dal contesto familiare, nell’immediato condividiamo l’approccio di quelle scuole e di quei docenti che stanno usando la DaD per mantenere aperto un canale di comunicazione, seppur limitato e parziale, tra i soggetti che compongono la comunità scolastica durante l’emergenza sanitaria[16].
Alla società sicura proposta della biopolitica è contrapposta una società (che) si-cura. Se la didattica a distanza crea bambini dispensabili diviene necessaria la pratica politica di uscire dagli sche®mi, per restituire ai bambini la loro corporeità e il carattere indispensabile di tutte le loro vite (figura 3).
Figura 3 Schema organizzativo e foto dell’evento Usciamo dagli sche®mi
(Fonte: Scuola e bambini nell’emergenza Covid-19; illustrazioni di Ananda Ferrentino)
Dal corpo a corpo alla response-ability dell’ecologia dei corpi in rete
Il lavoro ha analizzato, a partire dalla riflessione sulla salute e sulle limitazioni alla mobilità dei bambini nel lockdown, la centralità del corpo nell’epidemia, manifestatasi nell’emergenza con il drastico svuotamento dai corpi dello spazio pubblico; re-interpretata nella cornice teorica della ecologia politica, essa si rivela risorsa per contro-narrazioni sorrette da pratiche corporee di solidarietà e responsabilità condivisa, rivelatrici di associazioni e nuove ecologie socio-materiali. Nella pluralità dei gruppi costituitisi in rete durante il lockdown intorno al tema bambini – ciascuno caratterizzato da diverse alleanze sociali, politiche, territoriali – emergono modalità performative e plurali accomunate dalla pretesa all’esercizio di un diritto di ricomparsa del corpo nello spazio pubblico e nel campo politico. Mettendo in scena la funzione di espressività e di significazione del corpo, si dà visibilità alle istanze che provengono da corpi che reclamano condizioni economiche, sociali e politiche più vivibili, che li sottraggano a vecchie e nuove forme indotte di fragilità.
L’attivismo dei genitori, degli educatori e dei docenti ha contribuito a far emergere nella sua dimensione sociale ed ecologica la condizione dei bambini nella crisi pandemica. Emersa inizialmente entro classificazione di corpi, in termini di maggiore o minore esposizione al rischio su base epidemiologica e clinica – quelli dei bambini, ritenuti poco a rischio, ma potenzialmente contagiosi; quelli degli anziani, particolarmente vulnerabili (e, secondo certi protocolli, non elegibili per le terapie intensive), la condizione dei bambini è poi stata ridefinita dentro un frame polemologico: quella della guerra contro il virus, che contrapponeva i corpi da tenere nelle retrovie, lontano dal campo di battaglia, e quelli in prima linea, quelli dei medici e degli infermieri innanzitutto, da incitare e incoraggiare, uniti dall’hashtag #andràtuttobene. Alla prospettiva del corpo a corpo (Borgna 2005), le pratiche ecologiche socio-naturali contrappongono l’alleanza dei corpi (Butler 2015, trad. it. 2017) in un ecosistema che pone la cura delle vulnerabilità differenziali come fulcro su cui strutturare le proprie pratiche di conoscenza e di presenza nel e col mondo. Queste alleanze disegnano un’architettura sociale che ricerca punti d’incontro tra prospettive diverse, cimentandosi in esperienze collettive che partecipano alla “metamorfosi” del mondo con obiettivi emancipativi (Beck 2016, trad. it., 2016, 121 e segg.)
Se l’emergenza Covid-19 è il sintomo di una malattia più ampia, quella degli ecosistemi terrestri naturali e sociali sfruttati, inquinati, impoveriti, la cura come pratica condivisa e non delegata a questione privata è una risposta: l’obiettivo è, come indicato da Haraway, generare parentele, fare kin (Haraway 2016). Haraway modella i concetti di kin e kinship dall’antropologia, dove il kin indica convenzionalmente la parentela biologica e familiare, un’appartenenza che può risalire genealogicamente fino ai progenitori comuni più lontani. Trasmettere i propri geni, partorire dei bambini, erano pratiche un tempo considerate alla base dei rapporti tra individui dello stesso kin. Con kinship l’antropologa Marilyn Strathern, cui Haraway fa riferimento nei suoi lavori, intende «non solo i modi in cui i consanguinei interagiscono fra di loro, ma il modo in cui queste relazioni vengono poste in essere […]. Queste idee sulla kinship offrivano una teoria della relazione della società umana con il mondo naturale. Incorporavano idee sul trascorrere del tempo, sui rapporti tra le generazioni e soprattutto, sul futuro» (Strathern 1992).
«In tempi così critici molti di noi hanno la tentazione di credere che il problema coincida con la costruzione di un avvenire sicuro, con l’idea di evitare qualche evento che incomba minacciosamente sul domani» (Haraway 2016, trad. it. 2019, 13). Per restare a contatto con il problema non è necessario avere rapporti di questo tipo con quel tempo che di solito chiamiamo “futuro”. «A dire il vero, restare a contatto con il problema richiede la capacità di essere veramente sul presente, ma non come un evanescente anello di congiunzione tra passati terribili o idilliaci da un lato e futuri salvifici o apocalittici dall’altro: bisogna essere presenti nel mondo in quanto creature mortali interconnesse in una miriade di configurazioni aperte fatte di luoghi, epoche, questioni e significati» (ibidem).
La prospettiva ecologica che emerge nelle pratiche genitoriali, sociali, ambientali ed educative sviluppatesi nei dibattiti sul tema bambini e pandemia, intreccia generazioni, spazi, tempi, ambienti sociali e naturali, kin, nell’ottica della «solidarietà multispecie e intra-specie» invocata da Haraway (Haraway 2016, trad. it., 2019, 197).
Come afferma Latour, in un sistema generativo «sono tutti gli esseri animati a porsi il problema di avere dei discendenti e di riconoscersi come discendenti, in breve di riconoscere e di inserirsi in discendenze che riusciranno a durare» (Latour 2017; trad. it., 2018, 112-113).
Nelle alleanze che si stipulano per tutelare la discendenza (in tutte le forme che questa assume nella prospettiva dell’ecologia politica) possiamo scorgere nuove famiglie, nel loro farsi, nella loro dimensione fluida implicata in una pluralità di sfere sociali (Morgan 1996; 2011). Famiglie, o meglio, kin che si costruiscono nelle reti, nel mutuo supporto, contrapponendosi ai modelli familiari che, da una parte, circoscrivono all’interno della relazione di genitorialità la responsabilità della socializzazione dei figli (Vincent, 2017, p. 543); dall’altra, vincolano la genitorialità alle capacità di consumo e alle risorse spendibili sui mercati costruiti nei processi di privatizzazione del tempo libero e della cura dei bambini (Hochschild 2003; Cook, 2004). Si producono così, in contrapposizione al modello prevalente, relazioni affettive e sociali ispirate alla concezione della response-ability, intesa da Haraway (2016) come capacità di generare risposte dinanzi alle urgenze del presente. Se la società del rischio (Beck 1987) lascia a ciascuno l’incombenza di far fronte a un rischio che diviene profilabile in relazione ai singoli individui, la risposta emancipativa intra-specie e multispecie si afferma come possibile pratica ecologica che tematizza la dimensione collettiva, sociale e politica di questo rischio in termini di giustizia intergenerazionale e di prospettiva futura genealogicamente solidale.
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