Premessa
Noi a Bergamo, nella produttiva e ricca Lombardia, cuore economico dell’Italia, siamo stati tra i primi nella nazione a risentire della straordinarietà di ciò che stavamo vivendo, che si è subito palesato in tutta la sua unicità per modalità (l’isolamento sociale) e durata (tuttora indefinita). La quotidiana frenesia di una delle province italiane più dinamiche e cosmopolite si è bruscamente arrestata nel mese di febbraio. Nel giro di una settimana le attività produttive e commerciali non essenziali sono state chiuse. Chiese, scuole, università, uffici pubblici, molti uffici postali, tutto chiuso, ben prima che il lockdown diventasse nazionale. Lo stesso vale per centri commerciali, bar, cinema e la maggior parte dei negozi. Orio Center, uno tra i più grandi centri commerciali d’Italia, che contava flussi di 150.000 persone nel fine settimana, con una media giornaliera di 27.000 accessi, rapidamente si svuota, fino alla chiusura. L’aeroporto internazionale Caravaggio di Orio al Serio (BG), tra i più importanti d’Europa, che nel 2019 ha fatto viaggiare oltre 13 milioni di persone, subisce riduzioni giornaliere dal 30% al 60% del traffico a causa delle cancellazioni dei voli fino alla chiusura totale del traffico passeggeri. Anche gli autoveicoli privati circolanti sono decimati, i trasporti pubblici con orari e funzionalità ridotti per limitare i contatti tra le persone e le possibilità di contagio. La libertà personale di movimento è stata drasticamente limitata fin da subito: gli spostamenti possibili solo all’interno del comune di residenza, per gravi e giustificati motivi, con controlli delle forze dell’ordine frequenti e rigorosi. Uomini e donne abituati a sopportare lo stress della velocità, della mobilità e dell’efficienza sono confinati nelle loro abitazioni, sia per rispetto delle norme di contenimento del contagio sia per la paura che si diffonde nel territorio man mano che il suono delle ambulanze diventa più frequente e assillante di giorno in giorno. Per le strade della città non si incontra nessuno, solo qualche passeggiatore solitario con il proprio cane o qualcuno diretto in farmacia o al supermercato. Le sole attività outdoor concesse e le sole per cui si supera la soglia protettiva della propria abitazione. Nei supermercati, come ci si poteva aspettare, inizia una corsa all’accaparramento di quelli che vengono ritenuti beni di prima necessità: pasta, farina, acqua, prodotti in scatola, carta igienica, fino a lasciare le corsie deserte e ben presto compaiono cartelli all’ingresso dei punti vendita con scritto “Gel disinfettante per le mani: esaurito” oppure “Mascherine: esaurite”. Il centro storico della città (Città Alta), solitamente affollato di turisti stranieri e meta prediletta dei bergamaschi in cerca di svago, diventa uno scenario surreale, desolante e vuoto.
La vita famigliare di un territorio in cui le relazioni intergenerazionali costituiscono il fondamento del tessuto sociale è stata stravolta nel giro di pochi giorni: nonni, genitori, figli, parenti e amici hanno dovuto sperimentare la lontananza fisica, l’isolamento e il dolore della scomparsa, un’improvvisa rottura delle consuetudini relazionali e dei progetti di vita per ritrovarsi frastornati e incapaci di immaginare il futuro. Le persone passano così ore al telefono con famigliari e amici che vivono a pochi passi da casa ma che non possono incontrare per paura del contagio. Le tecnologie digitali (in particolare WhatsApp, Zoom e Instagram) fanno quello che possono per ripristinare l’interazione sociale e adattare le abitudini di vita alla nuova condizione di isolamento. Smart working e telelavoro, di cui si è discusso tanto negli ultimi decenni senza che vi fosse un effettivo impatto nell’economia reale, sono diventati di colpo l’unica forma organizzativa per moltissime aziende e istituzioni, scuole e università in primis.
Le notti in città sono diventate silenziose, verrebbe quasi da dire pacifiche, senza l’abituale sottofondo sonoro del traffico urbano. Gli unici rumori che ne tagliavano il silenzio erano le sirene delle ambulanze dirette verso il principale ospedale cittadino, il Papa Giovanni XXIII, intitolato a Papa Roncalli, nativo della provincia di Bergamo, a cui i bergamaschi sono molto fedeli ed affezionati. Gli sforzi che le istituzioni e il personale sanitario hanno fatto durante la fase acuta sono straordinari: 300 posti letti su 900 sono occupati da pazienti Covid-19, come il 70% dei letti di terapia intensiva dell’ospedale; personale che salta riposi su riposi per garantire la continuità della cura; arruolamento o supporto volontario di medici e infermieri da tutte le altre regioni d’Italia e da altre nazioni (Cina, Russia, Cuba e Albania tra le più attive); trasferimento via elicottero dei casi più gravi in altri ospedali nazionali ed europei (numerose persone di Bergamo si sono risvegliate negli ospedali dei Länder tedeschi). Verrà il momento delle valutazioni sistemiche sull’organizzazione della sanità lombarda ma è indubbio l’eccezionale sforzo sostenuto dalle istituzioni sanitarie cittadine nel fronteggiare la fase più acuta del contagio, che nella provincia bergamasca è stata davvero aggressiva. Bergamo è infatti la provincia con il maggior numero di decessi in Lombardia e in tutta Italia: dal 20 febbraio al 31 marzo vi sono decedute 6.238 persone, con un drammatico incremento del 568% rispetto alla media per lo stesso periodo nel quinquennio 2015-2019 (Istituto Nazionale di Statistica 2020). È ormai chiaro che i morti effettivi per problematiche connesse al virus sono di gran lunga superiori rispetto ai dati ufficiali forniti dalle strutture ospedaliere, considerando le numerose persone decedute al domicilio o nelle strutture residenziali per anziani (che non venivano sottoposte al tampone di routine). Un’ulteriore evidenza empirica dell’estensione dell’epidemia che ha colpito praticamente ogni famiglia bergamasca è fornita da L’Eco di Bergamo, il quotidiano locale, che abitualmente pubblicava due pagine di necrologi mentre in questo periodo arriva a contenerne dieci (Migliorati 2020).
Con la preoccupazione che cresceva di giorno in giorno, punto di riferimento per tutta la popolazione è diventato il bollettino serale della Protezione Civile nazionale. Gli indicatori dell’andamento giornaliero dell’epidemia sostituiscono, almeno temporaneamente, gli indici di Borsa Italiana, i trend di mercato e le fluttuazioni dello spread. Si seguono con crescente apprensione le notizie sul numero dei contagi e sulle morti, nell’attesa che finalmente le misure di contenimento sociale, gli sforzi giornalieri richiesti ad ognuno, facciano effetto.
Una foto in particolare è riuscita a cogliere l’entità del dramma bergamasco: una lunga colonna di camion dell’Esercito Italiano per le vie della città nella notte del 18 marzo (Figura 1). Quando Emanuele, il giovane assistente di volo di Ryanair, da pochi mesi residente a Bergamo, dal balcone di casa sua vede e fotografa l’inusuale corteo di automezzi, il suo primo pensiero è che siano per l’allestimento dell’ospedale da campo nei padiglioni fieristici della città. Un pensiero di speranza.
Figura 1 I camion che trasportano le salme, 18 marzo 2020
Fonte: Eco di Bergamo
Purtroppo poi scopre, insieme a tutti noi, che i mezzi dell’Esercito sono stati necessari per trasportare in altre città numerosi feretri di vittime del virus che non potevano più essere accolti dalle strutture cimiteriali di Bergamo, ormai sature a causa dell’elevata mortalità nella popolazione locale. L’impatto della foto è stato molto forte anche a livello nazionale e internazionale sia per il soggetto immortalato, sia per quello che evoca, ovvero l’immaginario più tragico della guerra, quello della resa, della sconfitta e della morte.
Questo scritto nasce dall’urgenza di riflettere sulla situazione attuale a partire dalle drammatiche conseguenze di una crisi che si prospetta come epocale e che come sociologi ci interroga in prima persona, sia per comprendere i processi socioculturali, economici e tecnologici che l’hanno innescata sia per tentare di immaginare scenari futuribili.
L’avarìa nel motore della modernità
All’alba del terzo millennio sembra che l’autotreno della modernità (Giddens 1990), con il suo sogno di progresso illimitato e il suo carico di fiducia incondizionata nella razionalità strumentale, abbia rallentato bruscamente la sua corsa. La diffusione della pandemia influenzale prodotta dal virus SARS-CoV-2 ha repentinamente e profondamente colpito l’infrastruttura socioeconomica e tecnologica della società contemporanea e sta modificando in modo radicale le consuetudini di vita di milioni di persone in tutto il globo, a partire dalle nazioni più avanzate. Segnali di malfunzionamento del vettore del progresso si erano già manifestati nei primi anni 2000 (la crisi finanziaria del 2008, le drammatiche ondate migratorie dal continente africano a quello europeo, l’aggravarsi del surriscaldamento globale, la pandemia causata dal virus A/H1N1 – la cosiddetta “influenza suina” che causò migliaia di vittime a livello globale – per menzionare i principali) ma dopo circoscritti e, generalmente, superficiali interventi di manutenzione straordinaria, l’autotreno ha potuto riprendere indisturbato la sua corsa, traendo ulteriore energia propulsiva dalle attese riposte nell’apparato economico e tecnologico della quarta rivoluzione industriale in fase di implementazione o già operativa in numerose realtà produttive (Schwab 2017). Sono soprattutto innovazioni come la robotica avanzata, la virtualizzazione dei supporti informatici (cloud) e sistemi previsionali e operazionali (algoritmi) più potenti e complessi basati sui big data, ad alimentare le promesse di questo modello industriale smart, basato sulle medesime premesse che hanno sospinto lo sviluppo moderno fino ad oggi: la crescita del potenziale della razionalità rivolta allo scopo, che secondo Beck (1986) già conteneva molti dei rischi con cui ci stiamo confrontando oggi; la fiducia pressoché illimitata nei saperi esperti[1] e nella capacità trasformativa attribuita al progresso tecnoscientifico (Giddens 1990); infine, la volontà di pianificazione strategica e controllo dei fenomeni naturali e dei processi sociali che doveva garantire la tenuta del sistema (Taleb 2007). Queste tre forze propulsive, la cui azione combinata alimenta il motore della modernità, hanno origine nei secoli XVIII e XIX ma è solo dalla seconda metà del XX che raggiungono la piena accelerazione.
La razionalità strumentale ha consentito, prima all’Occidente e poi ad ampie parti del globo, di emanciparsi dalla schiavitù della sopravvivenza materiale e di accrescere e redistribuire (sebbene non secondo principi di equità sociale e uguaglianza) la ricchezza complessiva delle società. Questo sguardo “disincantato” nei confronti della natura ne trasfigura le componenti in materie prime e risorse disponibili che possono essere utilizzare per sostenere il benessere umano e accrescere l’arricchimento della società capitalistica. Secondo Weber, il processo di razionalizzazione (o di intellettualizzazione) del pensiero occidentale, presuppone la convinzione
che non sono in gioco, in linea di principio, delle forze misteriose e imprevedibili, ma che si può invece – in linea di principio – dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale (2004, trad. it., 43).
La razionalità strumentale dispiega il mondo di fronte all’essere umano, il progresso scientifico e l’innovazione tecnologica gli forniscono gli strumenti per appropriarsene mediante l’apparato industriale. L’interdipendenza tra conoscenza scientifica, applicazione tecnologica e produzione industriale si è andata consolidando nel tempo e le parti si sono alimentate reciprocamente: le nuove scoperte scientifiche hanno portato allo sviluppo e alla diffusione su vasta scala di tecnologie che hanno permesso di investigare spazi del sapere prima inaccessibili. Un esempio su tutti è rappresentato dalla rivoluzione digitale degli anni 80 che ha portato i personal computer e le reti informatiche in qualsiasi ambito produttivo e praticamente in ogni casa privata, trasformando processi lavorativi e abitudini di vita (Ceruzzi 2005). Senza le scoperte scientifiche nei settori dell’ingegneria dei materiali, della fisica applicata, della teoria dei sistemi e della cibernetica (solo per citarne alcuni), il mondo oggi sarebbe ben diverso da come lo conosciamo perché, molto probabilmente, anche le sofisticate strumentazioni che popolano ogni laboratorio scientifico e che stanno permettendo di investigare il comportamento del virus e di sperimentare nuovi vaccini o farmaci, non esisterebbero. Allo stesso modo, la fiducia nei sistemi esperti rafforzata man mano che conoscenza scientifica e innovazione tecnologica offrivano nuovi e poderosi strumenti tecnici di manipolazione della natura, al punto che, come afferma Giddens, l’autotreno è diventato
un mostro di enorme potenza che collettivamente, come esseri umani, riusciamo in qualche modo a governare ma che minaccia di sfuggire al nostro controllo e andarsi a schiantare (1990, trad. it. 1994, 117).
Beck e Giddens affermano chiaramente come il pensiero tardo-moderno, sospinto dagli straordinari progressi economici e sociali compiuti soprattutto dal Secondo Dopoguerra in avanti, abbia di fatto trascurato gli effetti latenti collaterali o le conseguenze non volute dell’industrializzazione e dell’infrastruttura scientifica, tecnologica e socioeconomica che la sostiene. Questo non è accaduto per incoscienza o disinteresse. Al contrario, la modernità avanzata rappresenta uno sforzo collettivo di pianificazione economica e sociale senza precedenti. Di fronte ad una realtà in rapido cambiamento a causa del progresso tecnoscientifico, gli investimenti per orientarne la direzione, controllarne gli sviluppi e, possibilmente trarne profitto, diventano una delle priorità di comunità scientifiche, apparati industriali e istituzioni politico-economiche. Big data, modelli previsionali e algoritmi costituiscono i ritrovati più recenti in un settore che ha fatto del futuro (o meglio, di una determinata idea di esso, come diremo in seguito) il proprio campo di lavoro (Taleb 2007). L’abilità nel registrare progressioni storiche e trend di andamento da cui trarre induttivamente proiezioni e inferenze sul futuro ha inibito la capacità di concepire ciò che è inatteso e ciò che non rientra nelle scale di misurazione degli strumenti più accreditati. Quello che Taleb chiama cigno nero, ovvero eventi di eccezionale rarità ma dalle conseguenze devastanti, tanto imprevisti quanto sorprendenti in una ben più numerosa, rassicurante e prevedibile popolazione standard di cigni bianchi.
Il combinato disposto di queste tre forze ha, di fatto, migliorato la vita di miliardi di persone e permesso alla nostra specie di compiere un salto evolutivo senza precedenti, proiettando l’intero pianeta nell’era dell’Antropocene, in meno di un secolo (Harari 2015). Ha altresì alimentato il sogno moderno (o incubo, per alcuni) di trasformazione e pianificazione del mondo che trova nel determinismo scientifico un’epistemologia di riferimento e nel demone di Laplace una efficace raffigurazione metaforica che aiuta a comprendere perché l’inatteso è fuoriuscito dall’orizzonte di pensiero della modernità avanzata.
La macchina perfetta
Nel XIX secolo, il marchese Pierre-Simon Laplace, matematico, fisico e astronomo sosteneva che sarebbe stato possibile prevedere il futuro. Laplace accennò a questa possibilità servendosi di un esperimento mentale: presupponeva che un’intelligenza, sufficientemente vasta e capace, avrebbe potuto riassumere in un’unica formula le leggi dell’universo e quelle del microcosmo atomico. Questa intelligenza avrebbe accesso alla conoscenza di tutte le forze che in un dato istante animano la natura, la velocità e la posizione degli enti che la compongono, e potrebbe così elaborare i dati che ne conseguono. Il futuro non sarebbe più incerto e, così come il passato e il presente, seguirebbe un unico flusso prevedibile e narrabile (Prigogine et Stengers 1979).
Questo esperimento mentale è passato alla storia come il demone di Laplace e rappresenta una dichiarazione di principio su cui si fonda l’idea del determinismo scientifico: qualunque cosa avvenga nell’universo ha una causa che genera degli effetti futuri e più ampliamo la base conoscitiva più precise diventeranno le nostre previsioni (Nekrašas 2016). Sebbene numerose scoperte e teorie scientifiche (dalla relatività einsteiniana alla complessità del vivente) abbiano messo in discussione, con tempi e modi diversi, il determinismo insito in questo principio ordinatore (Morin 1973; Bocchi e Ceruti 1993), la modernità ne è rimasta profondamente impregnata. In qualche modo rappresenta il principio costitutivo dell’intelligenza artificiale, ispirata al modello ideale di un calcolatore onnisciente, di un software capace di evolvere in funzione della propria stessa esperienza, superando indefinitamente il cervello umano per potenza di calcolo. E sebbene la distanza di un calcolatore dalla mente umana rimanga comunque radicale, circa la capacità di autoriproduzione qualitativa, l’utopia dell’intelligenza artificiale tende a mettere tra parentesi questo scarto (Finn 2017).
Il determinismo scientifico con le sue successive rielaborazioni ha consentito di incorporare il particolare nel generale, basandosi sulla ferma certezza di poter separare nettamente i parametri generalizzabili, suscettibili di essere misurati e organizzati quantitativamente, come sono tipicamente gli indicatori numerici, dalle interferenze costituite dalle eccezionalità, dalle singolarità e dalle imprevedibilità (Timmermans and Berg 2002; Nekrašas 2016).
Grazie ai grandi successi della meccanica razionale nel corso del XVIII e agli inizi del XIX secolo, ha via via preso corpo l’atteggiamento di assumere il paradigma della causalità come modello della spiegazione scientifica. Successivamente con la nascita delle scienze dell’evoluzione, il problema diventò quello di individuare le leggi causali della storia, dell’economia, delle scienze umane e sociali, caratterizzate dalla stessa necessità, invarianza e determinismo delle leggi dell’universo fisico e microscopico. Si diffonde nella modernità la tendenza ad affidarsi a sistemi sempre più astratti e razionali di organizzazione della realtà, ponendoli anche a fondamento dei processi sociali. Questo punto di vista presiede a una diffusa modalità di separare dualisticamente le scienze naturali dalle scienze sociali. Le idiosincrasie intrinseche agli aspetti biografici, relazionali e culturali degli esseri umani vengono messe tra parentesi. La storia è concepita come dispiegamento lineare. L’idea di fondo è che sulla realtà antropologica e sociale non si possa sviluppare una vera conoscenza scientifica, in quanto essa non è riconducibile ai parametri di prevedibilità controllabile, ovvero in una semiotica dell’evidenza dei dati oggettivi, che una mente onnisciente potrebbe cogliere in tutta la loro assoluta trasparenza (Neumann 1966).
La dimensione esistenziale, sociale e antropologica, in questo schema, viene concepita unicamente in termini di pianificazione, di previsione razionale del tempo e dello spazio, che diventano così principi normativi della società, utili a ridurre la realtà sociale a schemi trasparenti, decifrabili e prevedibili che ne semplificano drasticamente la complessità (Giddens 1990).
La fiducia nella scienza, nelle sue applicazioni tecniche e nella sua capacità di previsione razionale della vita è tuttavia un’arma a doppio taglio. È infatti quantomeno problematico elevare acriticamente il livello delle aspettative sociali nei confronti dei saperi tecnoscientifici fino a lambire l’utopia della risolvibilità di ogni problema e il superamento di ogni limite, incluso quello della mortalità. Perché nella società le persone fanno esperienza di situazioni cariche di rischio, sperimentando, spesso loro malgrado, l’imprevedibilità degli effetti delle loro scelte o l’incertezza legata alle condizioni ambientali e sociali nelle quali si trovano ad agire (Beck 1986). Lo sviluppo della società e del grado di interdipendenza che si instaura fra i diversi sistemi sociali (economico, famigliare, educativo, stato-nazionale, ecc.) non comportano l’eliminazione progressiva del rischio e dell’imprevedibilità, ma sono parti insopprimibili dell’attività sociale stessa, come processo storico e geografico. Pur ammettendo che il progresso dei mezzi tecnologici e scientifici possa con una certa approssimazione prevedere il verificarsi degli accadimenti futuri, non si potrà mai prevedere, come insegna la tradizione dell’indeterminazione scientifica, con esatta precisione l’estensione, la durata, l’istante in cui l’evento irrompe della vita, perché l’essere umano è parte integrante e variabile dipendente dei sistemi che osserva (Prigogine et Stengers 1979; Ceruti 2018).
Eppure la vita sociale si organizza e riorganizza all’ombra di una configurazione di idee e valori che attribuisce allo sviluppo scientifico e tecnologico una centralità indiscussa e la qualità di un destino ineluttabile. La profonda fiducia nella capacità di previsione della scienza e delle sue applicazioni tecnologiche tende a trasfigurare l’impotenza esperita nelle traiettorie di vita, nei nostri rapporti interpersonali, nei rapporti tra i popoli e nei rapporti con gli ecosistemi in un’ideologia della potenza e dell’efficienza. Il desiderio di anticipare il futuro tende a trasformarsi in un’ossessione per la prevedibilità e per la pianificazione, che non tollera l’aleatorietà dell’esistenza e della storia che, tuttavia, permane nella vita sociale. E la pandemia di Covid-19 ne è la drammatica conferma.
La perversione della modernità
L’ossessione per la prevedibilità e la pianificazione subisce un’ulteriore forte accelerazione con l’affermarsi del paradigma neoliberista in campo economico a partire dagli anni ’80 del secolo passato. Con le politiche economiche e sociali di Margaret Thatcher nel Regno Unito e Ronald Regan negli Stati Uniti, le forme di controllo e di pianificazione operate dalle (e per conto delle) istituzioni statuali sono progressivamente sostituite da dispositivi previsionali aderenti alle logiche strumentali e di efficienza del mercato, che, secondo la filosofia neoliberista necessita della massima libertà per potersi autoregolare al fine di garantire l’aumento della ricchezza e il benessere degli individui e delle nazioni (Harvey 2005). La storia ci dice che non è andata proprio così: disuguaglianze, sfruttamento, povertà e inquinamento sono paradossalmente aumentati negli ultimi decenni, nel periodo di maggiore ricchezza sul pianeta (Stiglitz 2019). Questi effetti collaterali non hanno comunque minato la fiducia nella capacità di autoregolazione di un sistema economico che per prosperare richiedeva lo smantellamento sistematico dei vincoli esterni (politici e sociali) al proprio funzionamento (Gallino 2011). La deregulation tanto cara ai neoliberisti è proprio questo: l’alleggerimento o, meglio ancora, la soppressione a livello globale degli apparati normativi e regolatori in materia economica per consentire al mercato di auto-organizzarsi secondo quel paradigma che Friedrich von Hayek, uno dei padri del pensiero neoliberal, ha chiamato ordine sociale spontaneo (Moroni 2005). Se la società (e in primis il mercato, che ne è l’istituzione cardine) è in grado di sviluppare autonomamente un equilibrio virtuoso tra gli interessi individuali e il benessere collettivo – equilibrio non corrotto da quella che Hayek chiamava la presunzione fatale, ovvero la presunzione di disporre di tutte le informazioni necessarie per assumere decisioni per altri soggetti –, ogni limitazione di questo processo spontaneo diventa un ostacolo al raggiungimento della ricchezza e del benessere. Si tratta di un paradigma critico sia del modello keynesiano di sostegno alle economie nazionali, sia delle politiche socialdemocratiche alla base della nascita dei principali sistemi di welfare pubblici (Magatti 2009). Il neoliberismo ha così favorito la liberalizzazione dei mercati (in particolare di quelli finanziari), la globalizzazione di merci e persone e la diffusione del consumo di massa (Bauman 2001). Ogni tentativo da parte delle istituzioni politiche di introdurre istanze regolatrici si scontrava con la difesa della proprietà privata, dell’imprenditorialità individuale, della libertà di scambio e di mercato in nome della prosperità e della ricchezza globale.
La pianificazione sociale delle istituzioni statuali è stata così progressivamente sostituita da una tecnostruttura materiale (Magatti 2009) sostenuta dallo sviluppo tecnoscientifico e dall’ingegnerizzazione dei processi produttivi e organizzativi e di molti aspetti del mondo della vita (Beck 1986). La libertà di agire all’interno di un mercato pressoché illimitato e eticamente neutro è vincolata al funzionamento di tecnologie previsionali sempre più sofisticate: sistemi neurali, big data, algoritmi, standard operativi e device tecnologici che migliorano la performance della tecnostruttura materiale e ridefiniscono aspettative sociali, stili di vita e di consumo.
A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, l’elevata e sempre più crescente funzionalità delle tecnologie previsionali su scala planetaria ha contribuito alla diffusione di una specifica narrazione del tempo e dello spazio, il cui focus è l’eterno presente o presentismo (Fukuyama 1992). Una narrazione che ha posto sullo sfondo, se non rimosso (almeno fino all’inizio del 2020), la spiacevole verità che le nostre azioni sul pianeta hanno sempre conseguenze (in larga parte latenti, non volute e imprevedibili) e che queste diventano tanto più profonde quanto più l’interdipendenza sistemica tra scienza, produzione industriale e consumo è stressata alla ricerca di maggiore profittualità o nuovi mercati.
L’eterno presente
Il presentismo attribuisce un privilegio esorbitante al tempo presente, secondo una prospettiva temporale compressa nel breve periodo, per cui il domani sarà comunque e sempre uguale al presente. Senza la prospettiva di un reale cambiamento o di un differente futuro, l’avvenire è sacrificato a beneficio dell’urgenza immediata. Uomini e donne rimuovono ogni riferimento al passato, moltiplicando le loro connessioni all’interno di uno spazio indefinito delle reti e di un flusso di relazioni e interazioni continue, virtuali o in presenza (Maffesoli 2000; Salomon 2000; Taguieff 2000). Questo flusso di relazioni e interazioni senza fine racconta dell’incapacità di proiettarsi nel futuro, trasformando l’incertezza e l’imprevedibilità dell’esistenza in una condizione di precarizzazione della vita senza prospettive di reale cambiamento. Il cambiamento è incorporato in un movimento senza tregua, dove la mancanza di un fine ultimo o di una meta da raggiungere trasforma lo stato nascente, per usare un’espressione cara a Francesco Alberoni, in uno stato nascente permanente (Tomelleri 2019). La precarizzazione della vita non riguarda dunque solo il processo di cambiamento dei contratti di lavoro o dei tempi di lavoro (Beck 1998; Fourcade 1992). Il termine precario deriva dal latino precarius che qualifica un diritto o uno stato, ottenuto per preghiera, che si esercita unicamente grazie a un’autorizzazione revocabile: indica un rapporto sociale di dominazione, nel quale il futuro di un’azione è sottomesso alla decisione di altri. La precarizzazione implica soprattutto le frequenti ristrutturazioni delle biografie, e le conseguenti riconfigurazioni culturali, che rendono instabile e precario ogni assetto acquisito (Castel 1995) e che non sempre contribuiscono a ricomporre il senso profondo della propria condizione esistenziale, sempre più frammentata e settoriale (Rubin 2016).
Il desiderio di controllare il futuro tende a trasformarsi in un’ossessione per la prevedibilità, che mal sopporta l’aleatorietà della storia. Come afferma Beck, «gli orizzonti temporali della percezione della vita si restringono sempre più, fino a quando, nel caso-limite, la storia si riduce al(l’eterno) presente» (1998, trad. it. 2011, 195). Il tempo sociale si appiattisce nell’eterno presente e lo spazio si comprime per la crescente velocità richiesta dalla tecnostruttura. L’ossessione per la previsione si combina, come ha evidenziato Jean-Marc Salmon (2000), con la frenesia e la velocità. La contrazione del tempo nel presente è legata alla sua accelerazione. L’economia neoliberista, soprattutto quella finanziaria, riconosce un vantaggio competitivo a chi è più rapido. Questo si riscontra nell’evoluzione della tecnologia, costantemente rinnovata e potenziata, e nell’elaborazione di indicatori di performance economica e finanziaria sempre più a ridosso del momento presente (dal rendimento trimestrale delle aziende, che dovrebbe condensare gli effetti dei piani industriali, agli indici della borsa azionaria, che sintetizzano le fluttuazioni speculative real-time nei mercati finanziari). Imperativi morali diventano la continua mobilità, l’innovazione, la trasformazione, ma non in vista di cambiamento significativo della società neoliberista, bensì per escogitare sempre rinnovate strategie adattive e incrementare il profitto. Gli eventi, tutto ciò che della vita è inatteso e imprevisto, sono trasformati in prodotti commerciali, prevedibili e attesi (molto spesso con lunghe code all’ingresso dei brand store più rinomati): le sorprese che accompagnano le nostre esperienze di uomini e donne, che connotano nel bene e nel male ciò che è definito vivente, sono ridotte a trovate pubblicitarie, riproponendosi volta per volta secondo l’eterno ritorno del presentismo (Doni e Tomelleri 2011; Tomelleri 2015).
Eppure la vita, nei suoi estremi della nascita e della morte, rimane un evento inatteso e imprevisto. Non è un caso che di questi due estremi non possiamo avere memoria (Blumenberg 1989). L’inatteso e l’imprevisto sono l’irrompere della storia nella vita ordinaria e nei nostri modelli sociali. Essi sono l’irruzione del caso nelle vicende umane, perturbano e modificano il corso della storia, incidono sui governi, sulle congiunture economiche, sui programmi scolastici, universitari, stravolgono la cosiddetta normalità. Scompaginano ogni previsione, smascherandone la natura illusoria e delirante. Si tratta di momenti quasi impercettibili, come la nascita di un bambino a Betlemme, o di cataclismi epocali, come la pandemia di Covid-19, la cui eco molto probabilmente si propagherà nei secoli a venire.
Conclusioni: la storia riparte
All’inizio del 2020 l’inatteso ha fatto irruzione nell’eterno presente neoliberista. Da pochi mesi la storia ha inaspettatamente ripreso a correre e la veloce diffusione del virus SARS-CoV-2 ha proiettato la configurazione societaria neoliberale in una condizione di indeterminatezza che non ha eguali. La pandemia di Covid-19 rappresenta una falla nella nostra capacità di previsione e di pianificazione, segna una discontinuità inattesa e imprevista. Gli effetti collaterali sociali ed economici degli effetti collaterali dell’attuale modello di sviluppo, per usare un’efficace espressione di Beck (1986), stanno compromettendo la tenuta complessiva del sistema neoliberista globale. L’isolamento sociale e il grave rallentamento della produttività e dei consumi entro un orizzonte temporale indefinito, insieme all’incapacità di immaginare gli scenari futuri della vita sociale, costituiscono le conseguenze inattese di un evento tutt’altro che imprevedibile. Fenomeni di spillover di virus da specie animali all’essere umano sono già avvenute nel recente passato e figure di spicco del mondo scientifico e produttivo avevano segnalato la probabilità che questo accadesse nuovamente. L’inatteso, il cigno nero, irrompe nel presente attraverso gli effetti collaterali sociali ed economici che alterano le fondamenta su cui si poggiano le società neoliberali (libero mercato, globalizzazione e consumo di massa) la cui stabilità era il presupposto essenziale per la pianificazione moderna. L’assenza di scenari futuri e l’inconsistenza dei dispositivi previsionali collide con i tentativi di ricorrere alle abituali prassi di governo del malfunzionamento del vettore del progresso, reiterando modelli di pensiero e di comportamento che ora risultano inefficaci per le mutate condizioni sociali. In qualche modo, si concretizza l’incertezza come la rottura dell’ordine meccanico e seriale (Doni, Tomelleri 2010), che concepisce i cambiamenti solo in termini di ottimizzazione del sistema globale, per un’ulteriore massimizzazione del profitto, alla ricerca di nuovi mercati o di nuove piattaforme tecniche (Stiglitz 2019). Stiamo assistendo a un guasto nel «docile robot», per riprendere una metafora di Wright Mills, una falla nell’ingranaggio della previsione; siamo innanzi alla possibilità dell’improbabile, per quanto tragica e drammatica per la specie umana.
Negli ultimi cinquant’anni, il mondo occidentale (Europa, Stati Uniti, Canada, Australia e Giappone in primis) ha vissuto un periodo di crescente benessere e di relativa calma che non ha pari nella storia dell’umanità. Carestie, pestilenze e guerre hanno ciclicamente flagellato i nostri antenati, in qualsiasi epoca e contesto geografico, cambiando il corso della storia, modificando le società, portando all’invenzione o alla diffusione di nuove tecnologie, trasformando l’economia e ci hanno condotto dove siamo oggi (Scheidel 2018). La situazione attuale ci ricorda drammaticamente che non siamo così diversi dai nostri progenitori e che forse ce ne eravamo dimenticati perché la seconda metà del XX secolo ci ha consegnato uno straordinario periodo di ricchezza e libertà nel quale sembrava che questi ‘nemici’ dell’essere umano fossero stati sconfitti per sempre.
Negli ultimi cinquant’anni, la tecnostruttura neoliberale e lo stile di vita ad essa connesso hanno anestetizzato la sofferenza nella vita quotidiana. Hanno rimosso la malattia e la morte, in quanto risvolti tragici del futuro, riconducendoli all’interno di scale numeriche e parametri assicurativi. Alimentando l’illusione dell’essere umano come padrone del proprio ambiente vitale, asettico e incontaminato, la configurazione societaria neoliberale ha promesso l’impossibile: vivere nell’illusione di un’eterna giovinezza in un indefinito presente, salvo poi veder crescere il numero di anziani pluripatologici, malati cronici e in condizioni di terminalità (Lusardi 2012). L’immagine dei camion dell’Esercito Italiano che trasportano le salme dei bergamaschi morti durante la fase acuta dell’epidemia si scontra con l’autotreno della modernità e l’impatto è frastornante, dirompente, devastante.
La pandemia obbliga a elaborare percorsi conoscitivi alternativi al pensiero unico, alla linearità di condotte esistenziali predefinite e ad acquisire il senso profondo della complessità della conoscenza come forma di partecipazione e responsabilità condivisa, come del resto pensatori come Edgar Morin (1973) avevano già teorizzato sul finire del secolo scorso. L’attuale condizione ci costringe a ripensare la rete di interconnessioni e interdipendenza della società globale, il modello economico neoliberale, le abitudini di pensiero e gli stili di vita e di consumo ad esso legati. Già ora, alcune di queste direttrici di cambiamento si possono intravvedere: l’uso estensivo delle tecnologie digitali sta cambiando il modo in cui le persone lavorano, studiano e stanno insieme; le limitazioni al commercio globale stanno rilanciando le filiere produttive nazionali (soprattutto nell’agricoltura e nella manifattura dei dispositivi essenziali); la paura di importare dall’estero il contagio, riaccendendo nuovi focolai, ci obbligherà a rivedere la mobilità internazionale di persone e merci; le relazioni sociali continueranno ad essere prudenziali a lungo e gli eventi collettivi (esami universitari, concorsi pubblici, partite di calcio, concerti, cinema, ad esempio) cambieranno forma nei mesi e negli anni a venire. Infine, la situazione attuale ci impegna a prendere sul serio la categoria dell’inatteso, così fastidiosa per chi è completamente proiettato nella cornice dell’eterno presente. La diffusa fiducia nella tenuta a tempo indefinito dell’oggi ci ha reso insensibili agli inattesi imprevisti, il cui impatto è amplificato dall’incapacità del sistema di rilevarne (e accettarne) la magnitudo e dalle resistenze collettive nel mettere in discussione le premesse di base, ormai considerate consolidate e affidabili, della società contemporanea. Occorre superare la logica probabilistica che ha contribuito a rimuovere dalla coscienza (ma non dal pianeta) gli effetti collaterali dell’industrializzazione durante la modernità avanzata, per riappropriarci collettivamente della responsabilità di una narrazione e di una prassi che riconosca la natura precaria della vita umana in un ambiente, che ci comprende e che ci trascende.
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