1. Le politiche sanitarie al tempo del SARS-CoV-2: per un’analisi comparata internazionale
1.1 Perché la pandemia è un oggetto sociologico
Negli ultimi decenni, gli epidemiologi e gli storici della medicina ci hanno spiegato che si era ormai compiuta per le società tardoindustriali quella che Omran (1971) ha chiamato la “transizione epidemiologica”. Omran identifica, infatti, tre fasi di questa supposta lunga transizione: l’età delle grandi pestilenze e della fame, che dal Medioevo si prolunga sino alle soglie dell’epoca moderna; l’età delle epidemie declinanti che attraversa nel corso dell’Ottocento le prime due rivoluzioni industriali sino alle due Guerre mondiali; e, appunto, l’età delle malattie degenerative e prodotte dall’uomo, che coinciderebbe con l’epoca contemporanea. Successivamente, altri due epidemiologi (Olshansky and Ault, 1986) hanno ritenuto che, in virtù del progressivo allungamento dell’aspettativa di vita associato alle malattie cronico-degenerative nei paesi tardoindustriali, fosse opportuno introdurre «il quarto stadio della transizione epidemiologica: l’età delle malattie degenerative differite».
In realtà, se osserviamo l’andamento storico delle grandi pandemie di peste, colera, vaiolo, tifo, TBC, influenza, ecc. (Jones 2020), scopriamo che esse si ripetono ciclicamente. Non solo: la frequenza e la virulenza con cui le pandemie si sono verificate nel corso del Novecento appare significativamente aumentata rispetto ai secoli passati: dalla terribile “spagnola” del 1918 con 100 milioni di morti alla “Asiatica” del 1957 che uccise oltre un milione di persone prevalentemente in Cina, alla “influenza di Hong Kong” che nel 1968-69 fece più di 250 milioni di contagiati con quasi un milione di morti nel mondo, alla H1N1, detta “influenza suina”, che nel 2009 causò fino a 400.000 decessi.
Che conseguenze possiamo allora trarre da tutto questo a fronte della nuova pandemia di Covid-19 che si è presentata solamente a poco più di un decennio dalla precedente con una virulenza tale che, mentre scriviamo, ha prodotto qualcosa come 4.494.873 di casi di contagio confermati nel mondo dall’inizio dell’epidemia e 305.976 morti (cifre ufficiali probabilmente sottostimate)? Crediamo essenzialmente due. La prima è di carattere interdisciplinare: come scrivevano Robert Dingwall e colleghi (2013, 167) per introdurre un numero monografico di Sociology of Health & Illness dedicato alla sociologia delle pandemie, «alcuni pretenderebbero che questo argomento fosse in misura crescente esclusivo terreno di microbiologi, virologi e professionisti della salute pubblica. Tale asserzione, riteniamo, tradisce una carenza basilare di comprensione di come la medicina e la scienza biomedica si rapportano con il mondo». È un discorso articolato e complesso quello di come le scienze biomediche ed epidemiologiche costruiscono socialmente il proprio oggetto di studio: qui ci limitiamo a suggerire che, dietro quelle periodizzazioni storiche che abbiamo all’inizio richiamato, è possibile rintracciare elementi di una concezione evoluzionistica ed etnocentrica nel momento in cui esse hanno ritenuto di riservare “l’età delle grandi pestilenze” ai paesi del Sud del mondo (prevalentemente asiatici) pensando che l’Occidente fosse ormai immune da esse.
La seconda considerazione riguarda le politiche sanitarie e la loro capacità di affrontare le pandemie ed il loro impatto sociale: proprio perché ritenute ormai un elemento del passato, i paesi occidentali si sono trovati del tutto impreparati di fronte alla diffusione inattesa e pervasiva del nuovo Coronavirus. Diviene quindi di grande interesse cercare di capire come hanno reagito quei paesi – prevalentemente asiatici – che invece, essendo stati spesso negli ultimi decenni colpiti da epidemie e pandemie non si sono fatti cogliere impreparati e hanno messo in campo strategie politiche rivelatesi di una certa efficacia. Ciò dovrebbe consentire poi di effettuare un confronto con le politiche sanitarie adottate nei paesi occidentali per cercare di giungere a qualche riflessione conclusiva in termini di analisi comparativa.
1.2 Un modello sociologico di analisi delle politiche sanitarie
Per analizzare la varietà di strategie di policy messe in atto a livello internazionale è necessario anzitutto disporre di un quadro di riferimento concettuale in grado di coglierne le differenze essenziali: da questo punto di vista, il modello di analisi proposto a suo tempo da Gill Walt (1999) per l’analisi delle riforme sanitarie e dallo scrivente già applicato all’analisi comparata delle riforme in cinque paesi (Giarelli 2003) ci pare conservi intatto il suo valore euristico dal punto di vista sociologico. Tale quadro concettuale è articolato in quattro elementi fondamentali: il contesto, gli attori, le strategie e i processi.
Per contestualizzare anzitutto una strategia di politica sanitaria è necessario fare riferimento a quattro elementi in grado di condizionarne in maniera significativa la stessa possibilità di implementazione: la situazione macroeconomica in cui un determinato paese si colloca nel contesto geopolitico mondiale; la struttura istituzionale del sistema politico (polity); le procedure e le modalità decisionali, di negoziazione e di conflitto politico (politics) (Heidenheimer 1986)[1]. Nei fattori di contesto è opportuno includere anche le eventuali influenze esterne che soggetti sovranazionali o agenzie internazionali possono esercitare sulle scelte di policy sia in modo costrittivo che come modelli di riferimento.
Gli attori sociali e istituzionali costituiscono il secondo elemento del quadro di riferimento: lo Stato e gli altri attori pubblici con i relativi decisori politici e dirigenti ai diversi livelli nazionale, regionale e locale; i professionisti sanitari, medici e professioni sanitarie e sociali, operanti sia in ambito pubblico che privato; il complesso sanitario-industriale privato, comprensivo delle assicurazioni sanitarie, delle cliniche e degli ospedali privati, dell’industria farmaceutica e delle tecnologie sanitarie; e i cittadini, sia come singoli utenti/pazienti che come movimenti sociali, gruppi d’interesse e di pressione.
Le strategie di policy rappresentano il terzo elemento-chiave analizzabile in termini di obiettivi e strumenti. Nel caso di una pandemia, possiamo considerare tre principali tipi di strategie che gli studiosi di sanità pubblica hanno individuato: diffusione naturale, mitigazione o contenimento. La scelta politica della diffusione naturale implica l’affidarsi all’andamento naturale del virus, confidando nelle possibilità di autoimmunizzazione di almeno una parte della popolazione al costo del sacrificio della parte più debole ed esposta al contagio (la cosiddetta “immunità di gregge”), oltre che nella ricerca di un vaccino e di un possibile trattamento terapeutico. La politica di contenimento implica un intervento parziale, in genere a causa della scarsità di risorse sanitarie o del ritardo nella risposta alla pandemia, focalizzato sulla messa in quarantena dei soggetti vulnerabili a rischio di infezione (solitamente, anziani e persone con patologie croniche), allo scopo di ridurre la diffusione del contagio per evitare il sovraccarico dell’infrastruttura sanitaria, in special modo posti-letto ospedalieri e ricoveri in terapie intensive. La politica di mitigazione è quella più rigida e implica il tracciamento epidemiologico di tutti i contagiati e dei loro contatti al fine di interrompere la catena di trasmissione del virus mediante la loro messa in quarantena (se asintomatici) o il loro trattamento (se sintomatici); oltre al lockdown di tutte le attività economiche considerate non essenziali alla sopravvivenza e il divieto di tutti gli incontri pubblici e le occasioni di aggregazione fisica della popolazione (il cosiddetto “distanziamento sociale”, in realtà spaziale).
Infine, i processi sociali costituiscono il quarto elemento del quadro concettuale: possono essere colti attraverso l’identificazione di specifici eventi particolarmente significativi, intesi come quegli avvenimenti che trasformano in modo rilevante le strutture sociali nel flusso temporale dei processi sociali.
Nelle pagine seguenti, dunque, cercheremo di tracciare le linee essenziali della applicazione di tale modello a tre casi che potremmo considerare paradigmatici.
1.3 Il caso asiatico: un autoritarismo piuttosto efficace
La pandemia è scoppiata ufficialmente a Wuhan, in Cina, nel dicembre 2019 nel contesto di un paese ancora in crescita economica, anche se relativamente rallentata negli ultimi anni (+6,1% nel 2019, la piu? debole dal 1990) a causa degli effetti della crisi economico-finanziaria mondiale. La struttura monocratica del sistema monopartitico cinese ha reagito ai primi segni del manifestarsi del Coronavirus in due tempi: dapprima cercando di negare l’evento arrestando il medico che per primo l’aveva identificato insabbiandone la diagnosi e l’allarme, poi con la costruzione nel tempo di pochi giorni di due megastrutture ospedaliere ad hoc per i malati di Covid-19 e con l’adozione di misure draconiane di lockdown dell’intera popolazione della città prima, della provincia circostante di Hubei e delle maggiori città come Pechino e Shangai poi. La tradizione culturale confuciana ripresa ufficialmente nell’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese e inserita nella sua strategia politica con l’idea di armonia sociale e di un’etica delle virtù che include il rispetto delle autorità statali, hanno costituito lo sfondo valoriale dominante che ha legittimato le scelte politiche restrittive; rinforzate comunque da un’efficiente azione di rigido controllo sociale messa in atto dalla polizia locale (coprifuoco notturno e limitate possibilità di uscire da casa) anche con l’ausilio di dispositivi tecnologici di contact-tracing digitale.
L’assenza di rivolte, di manifestazioni pubbliche o di ogni altro evento significativo di dissenso sembra confermare il fermo controllo da parte delle autorità di governo dei processi sociali indotti dalla strategia di rigido contenimento adottata: che si è rivelata peraltro piuttosto efficace, dal momento che la diffusione della pandemia è stata bloccata nell’arco di 3-4 mesi (sia pure con focolai periodici di ricaduta), dopo aver causato 84.484 casi (confermati clinicamente e in laboratorio) e 4.645 morti (cifre ufficiali contestate da più parti). La politica di contenimento si è del resto inserita nel contesto di un progetto come Healthy China 2030, lanciato dal presidente Xi Jinping nell’ottobre 2016, che ha reso la salute pubblica una condizione preliminare per tutto il futuro sviluppo economico e sociale. Un effetto collaterale non voluto ma positivo del lockdown è stato poi il significativo abbassamento dei livelli di inquinamento dei cieli e delle acque cinesi dovuto all’arresto quasi totale del sistema produttivo industriale; mentre uno negativo è il conseguente previsto crollo della crescita economica cinese per quest’anno: nei soli primi due mesi del 2020, i consumi privati e gli investimenti hanno visto un crollo in termini reali rispettivamente del 23,7 % e del 24,5 % su base annua.
La scelta di una politica di rigida mitigazione della pandemia è stata seguita pure con una certa efficacia da altri paesi asiatici, di cui i due casi forse più esemplari sono quelli della Corea di Sud e di Singapore. Entrambi i paesi erano stati preparati dalle precedenti recenti esperienze con l’epidemia di SARS del 2003 e di MERS (sindrome respiratoria mediorientale da Coronavirus) nel 2015. Pur nella significativa differenza di contesti politico-istituzionali rispetto alla Cina – la Corea del Sud è una democrazia liberale, mentre Singapore è una città-stato con forti limitazioni in senso autoritario – entrambi hanno adottato una strategia di rigido contenimento assai simile a quella cinese, con due particolarità. Nel caso della Corea del Sud, oltre ad un lockdown più limitato, ad un distanziamento sociale volontario e alla pubblicazione su blog dei movimenti delle persone infette, sono stati realizzati screening diagnostici di massa per centinaia di migliaia di persone in pochi giorni, obbligatori per gruppi considerati a rischio, geolocalizzazione mediante contact-tracing tramite reti mobili dei contagiati, utilizzo dei dati delle transazioni con carte di credito che hanno caratterizzato in senso ipertecnologico digitalizzato questo tipo di strategia. Nel caso di Singapore, invece, le oltre 800 Cliniche di preparazione alla salute pubblica istituite dopo l’epidemia di SARS del 2003 hanno funzionato efficacemente come barriera contro la diffusione del Coronavirus, mostrando l’importanza della disponibilità di una prima linea di prevenzione e di diagnosi in grado di evitare il sovraccarico degli ospedali.
1.4 Il caso anglo-statunitense: un darwinismo sociale inefficace
Nel Regno Unito è rimasta celebre, all’inizio della pandemia, l’affermazione del premier Johnson circa la cosiddetta “immunità di gregge”, che sarebbe costata centinaia di migliaia di morti specie tra gli anziani ed i malati cronici se fosse stata seguita; salvo poco più di due settimane dopo, lui stesso positivo al virus, virare verso sia pur blande misure restrittive. Se questa esperienza personale sia servita a convincere il leader conservatore britannico ad invertire il trend di distruzione e privatizzazione del National Health Service britannico è presto per dirlo, così come se si tradurrà in scelte concrete nel contesto di un servizio sanitario nazionale fortemente centralistico. Quel che è certo è che “l’immunità di gregge” in assenza di un vaccino e della certezza che l’infezione da Coronavirus, una volta guariti, conferisca l’immunità, non può certo funzionare. Così come il passaggio dalla iniziale scelta di diffusione naturale ad una politica di contenimento che ha previsto soltanto raccomandazioni di autoisolamento per i contagiati, blande misure di distanziamento sociale e la chiusura parziale di scuole e università non sono state sufficienti a bloccare la diffusione del virus: con 236.711 casi di contagio e 33.998 morti la Gran Bretagna ha scavalcato l’Italia e si è collocata al terzo posto dopo USA e Russia nella classifica mondiale della pandemia da Covid-19. Ciò testimonia il fallimento di una strategia di tipo neoliberista, preoccupata principalmente di salvaguardare l’economia anche a costo della perdita significativa di vite umane in una logica darwinista sociale che, oltre a rivelarsi inefficace, non è detto riesca neppure a garantire il livello di crescita economica dopo l’opzione della Brexit.
Negli Stati Uniti la pandemia è arrivata in una fase di crescita economica abbastanza sostenuta e in piena campagna elettorale per le presidenziali di novembre: due fattori-chiave di contesto per comprendere l’andamento altalenante delle reazioni del presidente Trump. Data la nota assenza di un sistema sanitario pubblico – tranne che per il caso limitato delle due assicurazioni MEDICARE per i disabili e anziani e MEDICAID per i più poveri – e la natura privatistica for profit delle assicurazioni sanitarie quotate a Wall Street, il peso delle lobby del complesso sanitario-industriale rispetto alle limitate possibilità di intervento del governo federale e dei singoli stati in campo sanitario – nonostante la riforma Obama, che non ha cambiato la natura del sistema, ma solo posto dei limiti alle sue peggiori distorsioni – è stato ancora una volta determinante. Il presidente ha inizialmente optato per una politica di diffusione naturale anche sotto la pressione delle lobby economiche fortemente preoccupate delle conseguenze sull’economia che un lockdown avrebbe potuto produrre. Poi, quando di fronte al diffondersi del contagio e al crescere dei morti questa scelta è apparsa politicamente impopolare in vista delle ormai prossime elezioni, Trump ha dichiarato l’emergenza nazionale, quando il SARS-CoV-2 si era ormai diffuso in 49 dei 50 stati. A quel punto, il vicepresidente Mike Pence, responsabile ufficiale della gestione della pandemia, ha dichiarato che la strategia governativa sarebbe consistita in una partnership pubblico-privato con le assicurazioni sanitarie, le aziende farmaceutiche e i laboratori privati per rendere disponibile la possibilità del test diagnostico, altrimenti non garantito dalle strutture pubbliche. Che ciò non sia stato sufficiente lo dimostra un comunicato dell’American Medical Association che lamentava l’insufficienza delle risorse diagnostiche messe in campo e le proteste di molti medici privi di dispositivi di protezione, nonché l’insufficiente possibilità di accesso a MEDICAID per i contagiati più poveri. La semplice raccomandazione di restare a casa se contagiati, del distanziamento sociale e di lavarsi le mani frequentemente hanno completato il quadro di una politica di mitigazione i cui risultati parlano da soli: 1.409.452 casi di contagio e 85.860 morti hanno fatto degli USA il paese che vanta il non invidiabile primato del primo posto nella classifica mondiale dei positivi e dei morti per Coronavirus.
La natura decentrata e plurale del sistema politico statunitense ha inoltre innescato una forte conflittualità istituzionale tra la Casa Bianca e gli stati con governatori democratici come la California, che hanno optato per politiche di contenimento basate sul lockdown molto più rigide, criticando i messaggi confusi e contradditori che si sono susseguiti da parte del governo federale: e che si sono visti, per tutta risposta, fomentare contro rivolte armate di estremisti suprematisti bianchi contro il lockdown appoggiate dalla Casa Bianca. A completare il quadro di questo caso ancor più evidente di darwinismo sociale rispetto a quello anglosassone, il fatto che mentre la probabilità di contagio da Coronavirus di un afroamericano e di un ispanico rispetto ad un bianco è di parecchie volte superiore, il numero dei disoccupati negli USA (fra cui la maggior parte è costituita da afroamericani e ispanici) è schizzato a 36 milioni, balzando al 14,7 % della forza lavoro nell’arco di due mesi, cancellando di fatto tutti i nuovi posti di lavoro che erano stati creati dopo la crisi del 2008.
1.5 Il caso europeo occidentale: un approccio democratico-sociale problematico
Nei paesi dell’Europa occidentale continentale e scandinava, l’elemento di contesto più significativo che sembra aver caratterizzato la risposta dei governi nazionali alla pandemia è costituito dalla presenza di uno stato sociale ancora abbastanza forte, nonostante le sue diversità istituzionali (Ferrera 2019) e nonostante le politiche di austerity praticate in molti di questi paesi dopo la crisi del 2008. Meno significativo sembra essere stato l’altro elemento rilevante di contesto: il fatto che tutti questi stati aderiscano o siano partner dell’Unione Europea. L’assenza di un coordinamento nelle politiche sanitarie e la faticosa ricerca di un supporto economico e politico da parte della UE testimoniano della difficoltà dell’Unione a svolgere un ruolo sovranazionale significativo anche nel caso della pandemia da Covid-19: che pure ha colpito fortemente la regione europea con 1.850.714 casi di contagio e 164.770 morti.
È forse questa situazione che spiega la risposta differenziata alla pandemia che appare almeno in parte significativamente correlata ai tre modelli europei di welfare state. I paesi del modello nordico hanno adottato diverse opzioni: mentre la Svezia ha optato per una politica di contenimento, con blande misure di distanziamento sociale e nessun lockdown, forte del proprio sistema sanitario universalistico consolidato e in grado di intervenire con tempestività ed efficacia, gli altri hanno preferito comunque optare per una politica di mitigazione. I risultati sembrano aver premiato la loro scelta: mentre la Svezia con 29.677 casi di contagio e 3.674 morti ha pagato un prezzo tra i più alti al mondo, la Norvegia con 8.197 casi e 232 morti, la Finlandia con 6.286 casi e 297 morti, la Danimarca con 10.858 casi e 543 morti e l’Islanda con 1.802 casi e 10 morti si sono collocati ai livelli più bassi in Europa e nel mondo.
I paesi del modello continentale si sono orientati verso politiche di contenimento sia pure meno stringenti di quella italiana, con un lockdown parziale e misure di distanziamento sociale volontarie, pur in presenza di sistemi sanitari di tipo assicurativo sociale altrettanto robusti di quelli nordici, anche se meno orientati alla prevenzione e all’assistenza primaria. I risultati sono in questo caso più problematici: la Germania con 174.355 casi e 7.914 morti, la Francia con 142.291 casi e 27.625 morti, il Belgio con 54.989 casi e 9.005 morti, l’Olanda con 43.870 casi e 5.670 morti e l’Austria con 16.140 casi e 628 morti presentano infatti, anche se in modo differenziato, un numero rilevante sia di casi di contagio che di morti.
Infine, i paesi del modello mediterraneo, sulla scia dell’Italia, hanno adottato, anche se non da subito, politiche piuttosto drastiche di mitigazione, con lockdown totale e misure di distanziamento sociale obbligatorio, anche nella consapevolezza della maggior fragilità dei loro servizi sanitari nazionali. I risultati sono anche qui altalenanti: l’Italia con 224.760 casi e 31.763 morti, la Spagna con 230.183 casi e 27.459 morti sono quelli maggiormente colpiti, mentre il Portogallo con 28.810 casi e 1.203 morti e la Grecia con 2.819 casi e soli 162 morti risultano meno colpiti.
Difficile quindi poter trarre conclusioni unitarie nel caso europeo occidentale: se non che il ruolo dello Stato è stato in tutti questi casi assai più rilevante che nel caso anglo-statunitense, sia pure con scelte strategiche e con risultati piuttosto differenziati nei tre modelli di welfare. Resta il problema di spiegare le possibili cause di tali differenze: solo un problema di natura sanitaria legato alla diffusione maggiore o minore del virus? Una diversa capacità di risposta organizzativa e preventiva dei sistemi sanitari? Che altro? Anche le significative differenze nel rapporto tra casi di contagio e mortalità restano un problema da capire se imputare alla diversa composizione anagrafica della popolazione oppure ad altri fattori.
1.6 Elementi per un’analisi comparata
Come già affermato, la selezione dei casi effettuata è da considerarsi opinabile, altri si sarebbe potuto scegliere come la Russia, il Brasile o l’Iran, altrettanto interessanti: ma ci è parso opportuno scegliere quei casi la cui valenza avrebbe trasceso la loro specificità idiografica per assumere un significato generalizzabile sulla base di un’analisi comparata. In tal senso, tuttavia la prima considerazione che possiamo fare rispetto alle politiche sanitarie adottate a livello internazionale è la loro sostanziale diversità, nonostante la globalizzazione abbia reso anche la pandemia un problema condiviso al di là dei confini nazionali. L’assenza di convergenza (per rispolverare un vecchio termine della sociologia comparata) nei termini di una strategia comune globale è un elemento che deve far riflettere su quanto davvero ancora possiamo continuare a parlare di “globalizzazione” in un mondo così diviso.
La seconda considerazione è che possiamo individuare almeno tre diversi tipi di approccio di politica sanitaria alla gestione di una pandemia come quella del SARS-CoV-2. L’approccio che abbiamo definito di “autoritarismo piuttosto efficace” è esemplificato dal caso asiatico in paesi come la Cina, la Corea del Sud e Singapore, nei quali una rigida politica di mitigazione del virus ha potuto essere applicata con significativi risultati grazie ad un mix di governi forti, dispiegamento tecnologico e consenso confuciano. Il prezzo da pagare è quello del sacrificio della privacy e delle libertà individuali a fronte dell’interesse collettivo tutelato top-down con il pugno di ferro. L’approccio che abbiamo denominato di darwinismo sociale inefficace è quello adottato nel contesto anglo-statunitense, oscillante tra politiche di diffusione naturale e di contenimento, in linea con le strategie di laissez faire neoliberista adottate dai rispettivi governi, fondamentalmente preoccupate di non intaccare la capacità produttiva e la logica del profitto del sistema economico capitalistico, anche al prezzo del sacrificio dei più deboli, magari appartenenti a minoranze etniche (Dentico 2020). La quota di popolazione la cui morte è messa in conto è fatta in larga misura da persone anziane e/o con malattie pregresse, la cui scomparsa non inficia di fatto la funzionalità del sistema economico, anzi esercita casomai una leva palingenetica, poiché allevia i costi del sistema pensionistico e dell’assistenza socio-economica di medio periodo, innescando un processo economicamente espansivo grazie alle eredità che, come già avvenuto nelle grandi epidemie del passato, accresceranno liquidità e patrimonio di giovani con più alta propensione al consumo e all’investimento. L’approccio dell’Europa occidentale che abbiamo denominato di tipo democratico-sociale problematico in quanto ispirato al cosiddetto “modello sociale europeo” si è articolato in politiche differenziate che vanno dal contenimento a politiche di più o meno rigida mitigazione nei tre modelli di welfare nordico, continentale e mediterraneo operanti nei diversi paesi. Si tratta di scelte di politica sanitaria in linea con la tradizione dei valori di solidarietà, sussidiarietà e tutela delle libertà personali che caratterizza i rispettivi sistemi di welfare: un metodo di governance orizzontale che, se ha avuto nei governi il suo riferimento principale, ha visto comunque coinvolti anche i principali attori sociali nella ricerca di una legittimazione delle misure anche più drastiche di mitigazione e di controllo sociale fondate sul consenso.
2. Servizio Sanitario Nazionale e infezione da Covid-19: il caso italiano
Come si è visto, l’approccio dell’Europa occidentale all’infezione da Coronavirus ha fatto perno su politiche differenziate che rispondono, in larga misura, alle configurazioni istituzionali e agli attori presenti sulla scena nazionale, nonché alle strategie prevalenti e ai processi sociali che si sono realizzati nella prima fase della pandemia. Stante questo quadro globale, ci si può chiedere quali siano state le scelte dell’Italia, considerata l’articolazione regionale del sistema politico e sanitario che ne ha condizionato, certamente, la formulazione e l’esito.
2.1 Il contesto istituzionale-organizzativo
Per contestualizzare una strategia di politica sanitaria è necessario fare riferimento, come si è visto sopra, a quattro fattori in grado di influenzarne la definizione e, in maniera significativa, la stessa possibilità di implementazione. Tali fattori sono da ricondurre alla struttura istituzionale e organizzativa del sistema di tutela sanitaria, alle procedure e modalità di decisione, di negoziazione e di conflitto, alla situazione macroeconomica e alle eventuali influenze esterne.
Come è noto, a partire dal 1978, con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), l’Italia entra a pieno titolo tra i paesi europei che possiedono un sistema sanitario di tipo solidaristico. Dopo una lunga fase storica in cui la tutela sanitaria è lasciata alle singole famiglie o alle associazioni caritatevoli (welfare residuale dal 1861 al 1921) e dopo un altrettanto lungo periodo in cui la salute dei cittadini è fatta dipendere dalle autotutele lavorative e mutualistiche (welfare categoriale dal 1922 al 1977), con la Legge 833 l’Italia si dota di un sistema sanitario di tipo universalistico e istituzionale. Trova, in tal modo, piena attuazione l’art. 32 della Costituzione che risolve la dialettica tra autorità dello stato e libertà dei cittadini sancendo il diritto alla salute come diritto fondamentale della persona ma, al tempo stesso, interesse della collettività. Un diritto, dunque, bifronte che rispetta le libertà dei singoli, ma garantisce, nel suo versante collettivo-solidaristico, che non vengano pregiudicati i soggetti più vulnerabili minando alla base l’eguaglianza sostanziale tra i cittadini sulla quale poggia la stessa democrazia repubblicana.
Alla creazione del SSN fanno seguito, nel corso degli anni Novanta, tre diversi provvedimenti di riforma che ne disegnano l’attuale configurazione istituzionale ed organizzativa, la quale riconosce la competenza della “tutela della salute” alla potestà legislativa regionale concorrente (riforma del titolo V della Costituzione). Le regioni sono individuate, cioè, come il baricentro dell’organizzazione e della gestione dei servizi sanitari, mentre allo Stato aspettano atti di indirizzo e di coordinamento generali. Ne deriva un modello procedurale e decisionale complesso che dipende da un sistema giuridico multilivello contrassegnato da un forte processo di devoluzione di compiti e di funzioni pubbliche in capo agli enti territoriali minori; devoluzione, tuttavia, che, negli anni Duemila, avviene in concomitanza con la crisi della finanza pubblica e il succedersi di continui interventi finanziari correttivi che rappresentano, soprattutto dopo il 2008, occasione di conflitto ed anzi di scontro aperto tra Stato e regioni. D’altro canto, il principio della leale collaborazione che vincola lo Stato e le regioni sul piano dell’amministrazione del SSN vede, nel tempo, delinearsi un ruolo sempre più debole del primo (anche in virtù delle scelte effettuate dai governi di centro-destra) e un ruolo sempre più forte delle seconde (in funzione spesso del potere economico e politico di alcune di esse) (Vicarelli 2011).
Una indicazione normativa complessa si concretizza, così, in forme di interdipendenza a potere variabile tra i differenti livelli istituzionali, con ricadute importanti sulla effettiva tutela della salute e, nello specifico, sulla garanzia dei livelli essenziali di assistenza (LEA). Nel 2017 tutti i Servizi Sanitari Regionali (SSR) risultano garantire i LEA ai propri cittadini, ad eccezione, della Calabria e della Campania che appaiono inadempienti a causa del mancato rispetto di alcuni parametri quali l’assistenza residenziale per gli anziani o l’effettuazione degli screening sulla popolazione. Tuttavia, tra i SSR adempienti si evidenzia uno scarto abbastanza netto sul grado di garanzia dei LEA, con il Piemonte, il Veneto e l’Emilia-Romagna che dimostrano il massimo dell’offerta di servizi (punti 221, 2018 e 218) e la Sicilia, il Molise e la Puglia con il minimo dei servizi offerti (punti 160, 167, 179) (Vicarelli e Spina 2020).
Se si considera, ora, la situazione macroeconomica occorre ricordare che nel corso degli anni Duemila vengono messe in atto dai governi in carica sostanziali politiche di razionamento delle risorse che mettono in discussione, secondo alcuni, la caratterizzazione universalistico-istituzionale del SSN (CREA 2017). Vanno nella direzione del razionamento le politiche che colpiscono i professionisti della sanità (blocco della contrattazione e degli aumenti di stipendio, diminuzione delle posizioni organizzative apicali, incremento dell’orario di lavoro in deroga alla normativa europea), nonché i limitati investimenti in conto capitale con una incidenza negativa sulle innovazioni tecnologiche sia di carattere clinico che di ICT. L’impatto del definanziamento del SSN emerge in tutta la sua gravità se si confronta la crescita percentuale della spesa sanitaria pubblica del 2000-2009 con quella del 2009-2018. Nel primo periodo l’aumento è del 56%, rispetto a una media OCSE del 72%, mentre nel secondo periodo l’incremento è solo del 10%, rispetto a una media OCSE del 37% (European House Ambrosetti 2018). In tale percorso, non tutti i settori sono colpiti allo stesso modo. Una ricerca condotta dall’ANAAO (Di Silverio et al. 2020) rivela che, nel periodo 2010-2017, la diminuzione del personale del SSN riguarda in larga misura i medici a tempo indeterminato operanti negli Istituti di cura pubblici ( ?9,5%) sostituiti, almeno in parte, con personale a tempo determinato (+6,6%). Una diminuzione che non tocca né il personale universitario (+23,9%), né quello delle case di cura convenzionate o delle strutture equiparate al pubblico che sono, invece, in netto aumento (+15%). Quest’ultimo dato esprime un assorbimento, da parte della sanità privata, del personale appena laureato o in fuga dal sistema pubblico attraverso forme di prepensionamento. In aumento risultano anche i medici della specialistica convenzionale, mentre diminuiscono i pediatri (-0,5%) e soprattutto i medici di medicina generale MMG (4,1%). Da una indagine dell’Osservatorio Italiano per la Prevenzione, risulta, inoltre, che l’85% dei Dipartimenti di Prevenzione è sottorganico, mancando complessivamente, dopo anni di tagli e disinvestimenti, circa 5000 operatori (Panorama della sanità 2020). Né occorre sottovalutare che le scelte politiche dell’ultimo decennio incidono sul capitale culturale delle burocrazie sanitarie regionali e sulla loro capacità di programmare modelli assistenziali adeguati agli andamenti epidemiologici e demografici emergenti.
2.2 Gli attori, le strategie e i processi sociali
Stante questo contesto, quali strategie, vengono messe in atto dall’Italia nel momento in cui si presenta l’infezione da Covid-19? Il primo elemento che va sottolineato è che, rispetto al quadro normativo-istituzionale, si fa emergere a valore superiore non l’interesse dei singoli cittadini, ma l’interesse della collettività che, di fronte a una situazione di gravissima emergenza sanitaria e alla minaccia per la salute di tutti e di ciascuno, giustifica severe restrizioni alla libertà della persona e agli atti della sua vita quotidiana, nonché l’imposizione di rigorosi limiti ad altri diritti costituzionalmente garantiti (Nocelli 2020). Occorre ricordare, tuttavia, che il trasferimento della governance sanitaria alle regioni tende a creare, in tema di emergenza, un equilibrio complesso, seppure preciso, tra attribuzioni statali e attribuzioni regionali. In particolare, il d.lgs. n. 112/1998 riconosce (art.117) che la competenza a adottare provvedimenti d’urgenza dipende dalla dimensione dell’emergenza e dall’eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali e che, pertanto, quando a essere interessato sia l’intero territorio nazionale, la competenza all’adozione di tali provvedimenti (ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza) spetta allo Stato. Sempre allo Stato è attribuita (l’art. 112, comma 3 lett. g) la sorveglianza e il controllo di epidemie ed epizoozie di dimensioni nazionali o internazionali, mentre alle regioni si impone obblighi di comunicazione concernenti l’insorgenza e la diffusione di malattie umane o animali. Allo Stato si assegna (l’art. 115, comma 4), infine, il coordinamento dell’attività di costituzione di scorte di medicinali di uso non ricorrente, di sieri, vaccini e presidi profilattici, nonché (l’art. 126) tutte le funzioni amministrative in materia di profilassi internazionale.
Se, dunque, l’insieme di tali norme rende, come ha scritto di recente Balduzzi (2020), le polemiche tra Stato e regioni frutto più di pretestuosità politico-partitiche che non di un dato normativo e istituzionale, resta il fatto che tali polemiche si sviluppano per tutta la Fase 1 dell’emergenza proprio in funzione del difficile equilibrio politico e gestionale sopra ricordato. Si tratta, infatti, di un fattore rilevante di debolezza dell’intero SSN, all’interno del quale la sola Conferenza Stato-Regioni non riesce ad assicurare meccanismi adeguati di raccordo e di collaborazione tra i diversi livelli istituzionali: meccanismi essenziali in un sistema di autonomie non separate, ma interagenti in una logica di cooperazione, e non di competizione. D’altra parte – come scrive De Martin – si tratta di una debolezza di tutto il sistema istituzionale della Repubblica, carente di sedi e procedure adeguate – sia in sede legislativa che amministrativa – per tenere insieme le necessarie autonomie e una visione unitaria del policentrismo” (De Martin 2020, 3).
È in questa cornice che vanno inquadrate le divergenze di azione tra Stato e regioni nei primi giorni della pandemia con lo Stato che lamenta un mancato adeguamento regionale alle direttive governative e alcune regioni (si vedano ad esempio le Marche, oltre alla Lombardia e al Veneto) che denunciano lentezza e confusione da parte dell’esecutivo nazionale. Un esecutivo, peraltro, debole e diviso al proprio interno, seppure con un Ministro della salute particolarmente presente ed accorto sul tema. Le divergenze riguardano, in primo luogo, le strategie da adottare e i loro tempi. Se, ad esempio, già il 20 febbraio il Ministro Speranza ritiene che si debba chiudere il Comune di Codogno e le zone limitrofe del lodigiano, non tutti i Ministri sono d’accordo ed inizialmente neppure il Presidente della Regione Lombardia. Allo stesso modo, nei giorni seguenti mentre sarà il Presidente delle Marche a voler anticipare il lockdown nonostante i pochi casi registrati sul territorio regionale, è il Presidente del Consiglio Conte ad opporsi e a ricorrere al TAR per il comportamento non istituzionale tenuto dalla Regione.
In secondo luogo, sono le modalità di implementazione delle politiche decise a dividere le regioni e l’esecutivo nazionale. Nonostante il Governo decida di avviare una strategia drastica di mitigazione della infezione, con un ampio lockdown e misure di distanziamento sociale obbligatorie (anche nella consapevolezza della maggior fragilità dei SSR del centro-sud), di fatto alcune regioni settentrionali attuano tale strategia in modo diversificato in forza di fattori sia strutturali che contingenti. Emblematico il caso del Veneto dove un ruolo determinante viene giocato dal Presidente della regione Zaia e da un tecnico, il professor Crisanti, nominato, nell’ottobre del 2019, direttore del Dipartimento di Medicina molecolare all’Università di Padova che è anche il polo di riferimento regionale per le malattie emergenti di tutto il territorio regionale. Crisanti viene da Londra dove all’Imperial College ha avuto per un triennio il posto di direttore del reparto Malattie infettive ed è lui che mette in atto il così detto “modello attivo di contenimento” della Regione Veneto. Si tratta, in altri termini, di predisporre accanto al lockdown dell’area di Vò, dove già il 21 febbraio si registrano due casi di Coronavirus, l’acquisto di test per l’identificazione con tampone dei casi positivi con risultato garantito in 24 ore, nonché il reperimento di mascherine, respiratori e quantitativi massicci di reagenti per i tamponi: materiale che risulterà decisivo nei giorni seguenti e che distanzierà il Veneto dai modelli di comportamento di tutte le altre regione del centro-nord. D’altro canto, il Presidente Zaia, inizialmente contrario alle posizioni di Crisanti, prende due decisioni che risultano vincenti: fare il test a tappeto alla popolazione di Vò, chiudere l’ospedale di Schiavonia sottoponendo a tampone sia i pazienti sia il personale medico-sanitario, predisporre tende della protezione civile per il triage e il pre-triage, trasformando Schiavonia nel primo Covid Hospital d’Italia. Va ricordato, tuttavia, che il Veneto non solo risulta essere uno dei SSR più adempienti in termini di LEA, ma che esso dispone di una sanità di primo livello ampiamente funzionante che gioca, nel caso della pandemia, un ruolo cruciale limitando gli accessi incontrollati dei malati di Coronavirus al sistema ospedaliero.
Emblematicamente inverso il caso della Lombardia, regione in cui il progressivo processo di privatizzazione della sanità, avviato dal Presidente Formigoni all’inizio degli anni Novanta, determina una pressoché totale cancellazione della medicina di primo livello a favore di un sistema ospedaliero di eccellenza che, tuttavia, nel caso del SARS-CoV-2 non blocca, anzi dilata, i casi di infezione pur risolvendoli, almeno in parte, a livello di cure ospedaliere. Nella regione, inoltre, per motivi che sono ancora da accertare non si procede alla chiusura delle zone più colpite come la Val Seriana dove i controlli sulla mobilità verso e dalla Cina restano limitati, l’Ospedale di Alzano Lombardo non viene trasformato in Hospital-Covid, non si creano percorsi differenziati di accesso e degenza e, di fatto, la mappatura e messa in quarantena di tutti i casi sospetti restano incomplete e inadeguate. Dunque, quello lombardo può essere considerato “un modello lasco di contenimento”. Meno evidenti e, soprattutto, al momento meno conosciute le azioni strategiche delle altre regioni centro-settentrionali i cui percorsi appaiono, comunque, meno netti e con mix di scelte dell’uno e dell’altro tipo.
I risultati di tali strategie, nazionali e regionali, sono molto evidenti sia in riferimento alla limitata espansione della pandemia nel centro-sud del paese, sia rispetto ai risultati ottenuti dalle regioni settentrionali più colpite dal SARS-CoV-2 (tabella 1). In Veneto, ad esempio, i casi totali di positivi al Coronavirus, dal 21 febbraio al 23 giugno 2020, pesano sulla popolazione (0,39%) quasi un terzo in meno di quanto pesino i casi di malati in Lombardia (0,92%), nonostante la percentuale di tamponi effettuati sia doppia: 18,1% in Veneto e 9,7% in Lombardia. Inoltre, il Veneto registra per lo stesso periodo di tempo un numero totale di decessi per Covid-19 (2004) che è pari allo 0,04% della popolazione residente, mentre in Lombardia i decessi sono otto volte superiori (16.579) con una incidenza dello 0,16% sulla popolazione.
Tabella 1 Casi totali di infetti dal Coronavirus, tamponi effettuati e deceduti in Italia per regione dal 21/02/2020 al 23/06/2020
Territorio
|
Popolazione
|
Casi totali positivi al Covid-19
|
Percentuali casi totali su popolazione
|
Totale
tamponi
|
Percentuali
tamponi su popolazione
|
Deceduti Covid-19
|
Percentuale
deceduti Covid-19
su popolazione
|
Lombardia
|
10060574
|
93173
|
0,93%
|
971721
|
9,66%
|
16579
|
0,17%
|
Piemonte
|
4356406
|
31254
|
0,72%
|
394940
|
9,07%
|
4059
|
0,09%
|
Emilia Romagna
|
4459477
|
28260
|
0,63%
|
460600
|
10,33%
|
4236
|
0,09%
|
Veneto
|
4905854
|
19250
|
0,39%
|
888273
|
18,11%
|
2004
|
0,04%
|
Toscana
|
3729641
|
10217
|
0,27%
|
319933
|
8,58%
|
1100
|
0,03%
|
Liguria
|
1550640
|
9939
|
0,64%
|
933694
|
60,21%
|
1553
|
0,10%
|
Lazio
|
5879082
|
8033
|
0,14%
|
322341
|
5,48%
|
832
|
0,01%
|
Marche
|
1525271
|
6775
|
0,44%
|
130121
|
8,53%
|
994
|
0,07%
|
Campania
|
5801692
|
4634
|
0,08%
|
267306
|
4,61%
|
431
|
0,01%
|
Puglia
|
4029053
|
4529
|
0,11%
|
165598
|
4,11%
|
542
|
0,01%
|
Provincia autonoma di Trento
|
541098
|
4465
|
0,83%
|
113091
|
20,90%
|
466
|
0,09%
|
Friuli V.G.
|
1215220
|
3305
|
0,27%
|
176470
|
14,52%
|
344
|
0,03%
|
Abruzzo
|
1311580
|
3282
|
0,25%
|
99976
|
7,62%
|
460
|
0,04%
|
Sicilia
|
4999891
|
3073
|
0,06%
|
194935
|
3,90%
|
280
|
0,01%
|
Bolzano
|
531178
|
2633
|
0,50%
|
80538
|
15,16%
|
292
|
0,05%
|
Umbria
|
882015
|
1438
|
0,16%
|
89831
|
10,18%
|
78
|
0,01%
|
Sardegna
|
1639591
|
1360
|
0,08%
|
77129
|
4,70%
|
132
|
0,01%
|
Valle d’Aosta
|
125666
|
1193
|
0,95%
|
17589
|
14,00%
|
146
|
0,12%
|
Calabria
|
1947131
|
1175
|
0,06%
|
89226
|
4,58%
|
97
|
0,00%
|
Molise
|
305617
|
444
|
0,15%
|
20902
|
6,84%
|
23
|
0,01%
|
Basilicata
|
562869
|
401
|
0,07%
|
37613
|
6,68%
|
27
|
0,00%
|
Totale
|
60359546
|
238833
|
0,40%
|
5053827
|
8,37%
|
34675
|
0,06%
|
Fonte: PCM-DPC del Ministero della Salute e ISTAT dati sulla popolazione residente del 24 gennaio 2020
3. Conclusioni
All’interno, dunque, dei paesi europei e nello specifico di quelli meridionali, l’Italia presenta una strategia di azione contro l’infezione da Covid-19 abbastanza netta che sembra aver dato i suoi risultati in termini globali, seppure con grandi differenze di tipo regionale. Tali differenze sono da addurre, come si è visto, a numerosi fattori sia contingenti che strutturali ed ancor più ad un quadro istituzionale ed organizzativo complesso che pur prevedendo, in casi emergenziali, un intervento statale determinante lascia ampi spazi di azione o di interferenza ai SSR che restano i principali responsabili della tutela sanitaria nel paese. Da qui, ad esempio, le differenze – talora assai marcate – in ordine al rapporto pubblico/privato nell’organizzazione dei presidi sanitari, in primo luogo ospedalieri, con regioni come la Lombardia che hanno costruito via via un sistema misto, mentre la maggior parte ha mantenuto il baricentro su quelli pubblici, il cui ruolo si è rivelato indispensabile. Altra differenza rilevante riguarda la solidità della rete di presidi territoriali non ospedalieri, facenti capo anzitutto ai medici di base: rete che ha reso possibile – nonostante la larga inattuazione della riforma Balduzzi del 2012 – un supporto prezioso preliminare o alternativo a quello ospedaliero, consentendo di fronteggiare meglio una situazione straordinaria in virtù della conoscenza ordinaria dei pazienti sia sintomatici che asintomatici. Né vanno sottovalutate le politiche regionali connesse alla disponibilità di dispositivi di protezione individuale e di kit per tamponi o test sierologici, assistiti da una rete di laboratori e strutture tecniche in grado di verificare tempestivamente la presenza o meno del virus. Su questo terreno si sono talora registrate forti differenze tra le regioni, dipendenti dalle diverse politiche seguite negli acquisti dei presidi e nell’organizzazione della rete territoriale in grado di somministrarli e di riscontrarne l’esito. «Da qui anche la possibilità di dar corso da parte di alcune Regioni ad interventi molto più organici rispetto ad altre nella ricerca e verifica dei contagiati e nella lotta alle infezioni, con risultati apprezzabili ad esempio in Veneto, anche per via di un orientamento tecnico-scientifico più aperto all’uso di questi strumenti rispetto a quello indicato a livello nazionale, presumibilmente condizionato dalla scarsa disponibilità dei materiali necessari» (De Martin 2020, 3). Molte altre dimensioni di analisi a livello meso (l’incidenza, ad esempio, delle tecnologie ICT nella organizzazione sanitaria) o micro (le risposte dei cittadini alle politiche nazionali e regionali) meritano di essere sviluppate e ci si augura che lo saranno in futuro, quando si disporrà di maggiori dati e di maggiori informazioni sui processi che si sono effettivamente sviluppati nella prima fase della pandemia.
Come è stato di recente ricordato, l’infezione da Covid-19 costituisce un buon esempio di quello che nell’analisi delle politiche pubbliche e? chiamato focusing event (Birkland 1998), un evento che forza opinione pubblica e decisori politici a inserire nell’agenda istituzionale temi che non necessariamente vi sarebbero entrati o che almeno non lo avrebbero fatto con la stessa visibilità e rapidità (Razetti 2020). È augurabile, in tal senso, che torni in primo piano nel dibattito sul welfare italiano il tema dell’efficacia del SSN dopo anni segnati dall’imperativo del contenimento dei costi. Se, da un lato, sarà necessario rimodellare la configurazione dei legami istituzionali tra Stato e regioni (soprattutto rispetto alle competenze di ciascuno e al principio della leale collaborazione), dall’altro, sarà d’obbligo provvedere alla maggiore integrazione della assistenza di primo livello nel sistema dei servizi pubblici, così come ricollocare al suo posto originario (come previsto cioè dalla legge 833) la medicina preventiva. Occorrerà, in altri termini, procedere, dopo un preciso esercizio di valutazione dell’operato dei soggetti pubblici nelle fasi pandemiche, a riconfigurare i legami istituzionali e organizzativi del SSN per rendere effettivamente universalistica e globale la tutela della salute anche in casi di emergenza sanitaria, facendo sì che le risposte siano allineate a quelle del modello “democratico sociale europeo”, ma con minori livelli di problematicità.
Riferimenti bibliografici
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