AIS
2025/27
Silvia Gherardi è nata a Conegliano Veneto nel 1949, ha trascorso la sua infanzia in Venezuela e l’adolescenza a Genova. Si è laureata in Sociologia a Trento nel 1974, facoltà nella quale ha lavorato per tutta la sua carriera fino al pensionamento nel 2014 insegnando sociologia del lavoro e delle organizzazioni.
Nel corso della sua carriera i suoi temi di ricerca hanno sempre tenuto al centro l’interesse per l’agire organizzativo, affrontato di volta in volta affiancando altri temi quali il genere, la cultura, l’apprendimento, il mutamento tecnologico, la sicurezza, i processi decisionali. La sua attività scientifica è stata spesso guidata da curiosità e interessi che, per affinità elettiva, l’hanno portata a prediligere le collaborazioni internazionali. Questo si riflette nel conferimento di quattro lauree Honoris dalle università di Roskilde (Danimarca) nel 2005, East Finland (Finlandia) nel 2010, Saint Andrews (Scozia) nel 2014 e Lione (Francia) nel 2024 e nella prosecuzione dell’attività didattica e di ricerca con collaborazioni con le università di Oslo (Norvegia), Aalto (Finlandia) e Mälardalen (Svezia) dopo il pensionamento.
Membro onorario di AIS e di EGOS (European Group of Organizational Studies). È stata presidente dell’EGOS dal 1998 al 2001. Fa parte del comitato editoriale di riviste nel campo degli studi organizzativi e manageriali (British Journal of Management; Culture and Organization; Journal of Management Studies; Organization Studies; Organizational Ethnography; Learning, Culture and Social Interaction; Qualitative Sociology Review; Revue d’Antropologie des Connaissances; Studi Organizzativi).
Tra le sue pubblicazioni, segnalando solo le più citate: Organizational knowledge: The texture of workplace learning (John Wiley & Sons, 2006), Practice-based theorizing on learning and knowing in organizations (Organization, 2000), Toward a social understanding of how people learn in organizations: The notion of situated curriculum (con D. Nicolini e F. Odella, Management learning, 1998), Gender, symbolism and organizational cultures (Sage, 1995), Doing gender, doing entrepreneurship: An ethnographic account of intertwined practices (con A. Bruni e B. Poggio, Gender, Work & Organization, 2004), How to conduct a practice-based study: Problems and methods (Edward Elgar Publishing, 2019), Gender and Entrepreneurship: an Ethnographical Approach (con A. Bruni e B. Poggio, Routledge, 2005), Introduction: The critical power of the practice lens (Management learning, 2009), Through the practice lens: where is the bandwagon of practice-based studies heading? (con G. Corradi e L. Verzelloni, Management learning, 2010), The gender we think, the gender we do in our everyday organizational lives (Human relations, 1994), From organizational learning to practice-based knowing (Human relations, 2001), The organizational learning of safety in communities of practice (con D. Nicolini, Journal of management Inquiry, 2000), Organizational learning: diverging communities of practice? (con M. Easterby-Smith e R. Snell, Management learning, 1998), Learning in a constellation of interconnected practices: canon or dissonance? (con D. Nicolini, Journal of management studies, 2002).Le sue pubblicazioni più recenti riflettono una svolta verso la teoria della pratica e l’epistemologia postumanista: The Posthumanist Epistemology of Practice Theory: Re-imagining Method in Organization Studies and Beyond (con M. Cozza, Palgrave Mcmillan, 2023); Organization Studies and Posthumanism: Towards a More-than-Human World (con F. de Vaujany e P. Silva, Routledge, 2024).
Ho incontrato Silvia Gherardi a un seminario a Cagliari nel 2002, pochi mesi prima di essere ammesso al dottorato in Information Systems and Organization a Trento. Come con molti dei colleghi di quegli anni di dottorato, la frequentazione si è approfondita nel tempo.
L’intervista è stata l’occasione per fare ordine, in primo luogo per chi l’ha intervistata, tra i vari interessi di ricerca e per rendere più leggibile il filo rosso che tiene insieme la sua estesa attività pubblicistica ancora in corso. Per come si è dipanata e grazie alla confidenza reciproca, l’intervista ha cercato di tenere insieme il percorso scientifico con quello relazionale che si sono co-costruiti nel corso di oltre cinquant’anni.
Sono nata a Conegliano Veneto dove, dopo la guerra, mamma e papà si incontrarono e poi emigrarono in Venezuela. I miei sono rientrati a Genova nel ’59 e lì ho fatto medie e superiori. Il Liceo Scientifico, che a suo tempo era quasi esclusivamente maschile. E poi sono venuta a Trento a fare Sociologia. Era il ’69. In pieno «divertimento». Ed ero incinta. Quindi, quando c’era un po’ di «confronto politico» [ride] dovevo cercarmi stradine laterali ed evitare gli scontri diretti. A quel tempo c’erano due o tre ragazze che erano incinta insieme a me e successivamente i nostri bambini giocavano insieme, ovviamente scorrazzando per quei corridoi di Sociologia che tu ben conosci.
Visto che abbiamo iniziato con i viaggi, ti propongo una metafora geografica. Mi racconti il tuo percorso come fossi una cartografa? Una cartografia intellettuale, con gli ambiti che hai toccato e i compagni di viaggio, a partire dalla tua formazione.
Ovviamente la formazione è stata a Trento. Trento in quegli anni era veramente il crocicchio di persone che venivano da tutt’Italia, anni che sono stati iper-raccontati. Quando sono arrivata c’era preside Alberoni con Laura Bonin. Ho iniziato subito a lavorare con un collettivo che seguiva Basaglia e l’abolizione dei manicomi. Quindi il mio approccio con la sociologia è stato Goffman. Il mio incontro con la sociologia è stato con la micro-sociologia, l’etnometodologia e la scuola di Chicago, e di sicuro non con Parsons, Weber e Durkheim, che ho studiato ma non amato. Ho cominciato con l’interazionismo simbolico che poi nel mio lavoro ha portato all’interesse per i fatti culturali e la ricerca qualitativa. Insomma, c’è un filo rosso che accomuna questo tipo di sociologia che, come vedi, non so bene neanche io come chiamarla.
Finita l’università avrei voluto tornare a vivere in una grande città. Trento era bellissima in quegli anni perché era una massa unica di gente che si spostava collettivamente da una situazione a un’altra. Gli stessi film, gli stessi libri, gli stessi bar e le case che si frequentavano. Non era solo goliardia, c’erano degli interessi anche culturali molto specifici. E poi sono stati gli anni del femminismo. Mi vien da dire che è nato a Trento e questo sarebbe eccessivo, ma sicuramente il femminismo a Trento ha avuto la sua specificità, la sua forza. E per me è stato importante, è stato un fatto identitario, politico. Politico anche contro i gruppetti che facevano politica, e quindi contro il maschilismo di fondo anche degli extraparlamentari. Sono stati anni molto formativi.
Mi era stato offerto di entrare in università come addetta alle esercitazioni e io ho detto «No, grazie», perché ero più legata al movimento e al fatto che la politica si facesse fuori dall’università. E poi per il tipo di rapporti gerarchici che c’era non mi piaceva. Per un paio d’anni ho insegnato a Mezzolombardo, ho anche insegnato ragioneria ovviamente studiandola la sera perché io non ho mai fatto ragioneria in vita mia [ride]. In università ci sono ritornata per un progetto legato al movimento. Era il ’76, il primo anno della consulta per l’Anno delle Donne e con un gruppo di altre compagne femministe abbiamo fatto un progetto di ricerca che, per essere presentato, ha avuto la firma di due docenti: Guido Romagnoli e Chiara Saraceno. Questo è stato il mio rientro a fare ricerca che mi interessava, con un lavoro sul mercato del lavoro femminile in Trentino. Poi ho vinto la borsa di studio, e poi la legge 382 del 1980 mi ha stabilizzata come ricercatrice e ho potuto incominciare a fare le prime lotte dei precari per avere il riconoscimento del ruolo di ricercatrice/ricercatore.
Trento era piccola. O andavo via oppure incominciavo a fare ricerche che mi potessero portare via per un po’ di tempo. E quindi ho cominciato a fare ricerche internazionali, progetti di ricerca europei. Al tempo si lavorava molto con l’Inghilterra. Poi la collaborazione con l’Inghilterra è scomparsa. Non del tutto ma, insomma, è un po’ uscita dai miei giri ed è uscita molto anche dai progetti europei, mentre una volta era una partner abbastanza abituale. Questi progetti mi hanno portato ad avere molti rapporti di colleganza e poi d’amicizia in Inghilterra. Negli anni Ottanta i punti di gravità erano Londra ed Exeter. La persona che per me è stata importante da un punto di vista intellettuale e poi, soprattutto, amicale è stata Barry Turner, il quale sfortunatamente è morto a 56 anni. Erano i primi anni Novanta e Barry Turner è stato importante perché mi ha aperto a network intellettuali. Era all’inizio del discorso sulla cultura, quindi l’idea che le organizzazioni non sono entità strumentali, ma che sono fatti culturali. E c’è stato poi il mettere in piedi il network SCOS (Standing Conference on Organizational Symbolism) e questo mi ha legato con molte persone, molti francesi in quegli anni. Barry Turner è stato anche il legame con la ricerca sociologica sulla sicurezza, il suo famoso modello di analisi Man Made Disaster per studiare le dinamiche organizzative degli incidenti industriali. Il mio filone di studi sulla sicurezza è stato influenzato da lui, ma non solo quello. Il filone metodologico della Grounded Theory l’ho incominciato insieme a lui, che aveva portato la Grounded Theory dall’America in Europa, e mi ha insegnato la manualità, perché al tempo non c’erano i programmi che sono stati sviluppati dopo, da NVivo a Ethnograph. La mia prima Grounded Theory è stata fatta con le schedine, gli schedari, tutto scritto manualmente e riportato manualmente. È stato anche molto divertente. Se dovessi continuare a fare Grounded Theory la farei ancora con carta e penna perché nella possibilità di spostare le schedine e di riarrangiarle c’è una manualità che è creativa più che con il computer, secondo me.
Per anni ho gravitato su progetti europei dove gli inglesi erano presenti. Invece dopo mi sono molto spostata su Parigi. Diciamo che contemporaneamente, quando ho incominciato a gravitare meno su Londra, ho incontrato tutto il mondo scandinavo. Ci siamo sempre amati a vicenda, scherzavamo sul fatto che facevamo i network ScandItalia. Sono stata visiting a Copenaghen e poi in Svezia, un po’ dappertutto in Finlandia. Gli scandinavi, a livello teorico, sono forse meno utilitaristi e razionalisti degli inglesi. Anche qui c’è un legame personale: l’amicizia e la colleganza con Barbara Czarniawska, che sfortunatamente ci ha lasciato nel 2024, mi ha segnata così come quella con Barry Turner. Ricordo che l’ho conosciuta a un colloquio EGOS a Stoccolma nell’84 e siamo rimaste amiche. Oserei dire che non c’è stato anno in cui non ci siamo viste. Anche lei è un Sagittario [ride] e anche lei ha un cattivo carattere come il mio. Non c’è capitato mai di scrivere assieme. Di leggerci a vicenda, di discutere, di seguire strade che andavano in parallelo e che poi si incrociavano molte volte. E anche molte discussioni in cui i temi della ricerca e i temi dell’amicizia e della curiosità andavano di pari passo.
Non mi ricordo bene come è nato invece il gravitare su Parigi. Dal 2000 in avanti, ho sempre più avuto occasioni di essere invitata e di avere network di collaborazione francesi, il CRG (Centre de Researche en Gestion, Ecole Polytechnique, Paris) e l’amicizia/colleganza con Anni Borzeix, che ci ha lasciato il 10 di agosto di quest’anno ed è stato veramente un dolore immane. Il CRG l’abbiamo frequentato (sia Antonio Strati che io) per tantissimi anni e in un certo senso ancora lo stiamo frequentando. Dentro il CRG c’era l’unità di ricerca «Langage et travail» che è stato un punto di riferimento. Anche lì, la sociologia relazionale, la comunicazione e quindi l’interazione, non tanto la conversation analysis quanto la conversazione e il linguaggio come relazione. E, ti dirò, questo ambito è anche stato un po’ il terreno di cultura, quando ho incominciato a lavorare sulle pratiche, sulla conoscenza pratica e il linguaggio al lavoro. Questo è stato il network più grosso che dal ’93 in parte ho contribuito a costruire. Era il 2000 quando ho curato il numero speciale di Organization, dedicato a Learning and Knowing in Organization, con una riscoperta del concetto di pratica e l’analisi del lavoro come pratica situata.
Nel network legato alla riscoperta del concetto di pratica, c’era il gruppo a Londra dei Workplace Studies con Christian Heath, che è andato in pensione anche lui qualche anno fa. All’inizio avevamo il legame anche con le Communities of Practice e con Etienne Wenger, con il finlandese Yrjö Engeström e la Cultural Historical Activity Theory. Con Yrjö ci scriviamo e continuo a essere nel loro network, anche se poi non li frequento ormai da anni. Poi in Europa, c’è stato il grande lavoro sull’apprendimento organizzativo che ha fatto Mark Easterby-Smith a Lancaster, anche lui mancato durante il Covid. A Lancaster poi si è costituito nel 2022 un nuovo gruppo al quale partecipo, attorno a Schatzki, Shove e Blue, che tiene in piedi il Center for Practice Theory e che sta lanciando la nuova rivista Journal of Practice Theory.
Ti sto facendo non soltanto il percorso culturale, ma anche le crocette di chi è ancora con noi, di chi lo è stato e non lo è più. Tra i punti di riferimento in Europa, «oltremare» c’era Lucy Suchman che per anni ha lavorato a Xerox’s Palo Alto Research Center, prima di passare all’università di Lancaster.
Con Lucy ci siamo viste un paio d’anni fa e lei mi diceva «ma ci pensi che adesso i nostri dottorandi sono full professor», ed è stato carino avere un senso di continuità nella carriera e vedere che contribuisci all’inserimento professionale di nuove persone che hai conosciuto da giovanissimi come dottorandi e sono tuoi, più giovani, colleghi.
È stato importante avere un po’ degli appuntamenti, più o meno fissi, nel corso di una carriera e nelle relazioni anche istituzionali che si sviluppano. L’EGOS è stato importantissimo per me. In primo luogo, perché ho partecipato alla trasformazione da network a istituzione, sono stata poi il primo presidente per tre anni, mentre prima la carica durava un anno. Ho scritto tutti i regolamenti dell’EGOS, nel bene e nel male [ride]. Prima era un network, facevamo le riunioni un anno sì e un anno no, ed eravamo circa 200 persone. Adesso andiamo sopra i 2500 partecipanti. L’EGOS ha mantenuto una caratteristica a cui noi «vecchi» abbiamo sempre tenuto moltissimo: lavorare in subtheme. Vale a dire che le persone erano caldamente pregate a rimanere a lavorare nel subtheme tutto il tempo in modo da poter alternare i benefici del lavorare in un gruppo piccolo continuativamente per tre giorni, e contemporaneamente alternare i momenti assembleari in cui poter incontrare tutti gli altri. Non ti dico che ho fatti tutti i convegni, perché ogni tanto prendevo un sabbatico. Ogni tanto avevo degli abstract che non venivano accettati. Barbara Czarniawska me ne ha rifiutato uno! [ride]. Si poteva essere colleghe severe e ‘cattive’ e buone amiche allo stesso tempo. Non era certo una questione personale.
Nel tragitto mi manca un pezzo che è il tuo costeggiare gli Studi Sociali di Scienza e Tecnologia.
Sai perché? Agli inizi attorno al 1999, al tempo in cui Bernward Joerges era presidente di quel network, e i riferimenti teorici erano la sociologia della conoscenza scientifica con David Bloor, la scuola di Edimburgo e di Bath, e uscivano libri come quelli di Wiebe Bijker nel 1987 e di Arie Rip nel 1995 sul costruzionismo sociale della scienza e della tecnologia, io mi sentivo a casa. All’inizio, come sociologi trentini, eravamo molto presenti perché la riflessione su tecnologia, lavoro e organizzazione era al centro degli interessi scientifici dei laboratories studies, di Latour e dell’Actor-network theory e degli studi femministi su scienza e tecnologia con Donna Haraway. Poi, secondo me è cambiato lo spirito rispetto al decennio successivo. Secondo me quel network, e tu mi scuserai il giudizio tranchant, ha dato il meglio di sé stesso negli anni Settanta-Novanta. Poi dopo, secondo me è cambiato il network, sia come persone che come interessi. Forse l’entusiasmo iniziale nel dire che «la tecnologia è socially shaped» era rivoluzionario all’inizio, poi dopo è diventato un «taken for granted», quindi non è che si può continuare a ripeterlo all’infinito. Dopo i primi anni, per me è stato più un leggere gli STS più che frequentare il network. Poi, soprattutto, gli studi STS contemporanei sono poco interessati, e secondo me a torto, alla dimensione organizzativa. Va bene la scienza, va bene la tecnologia, ma scienza e tecnologia non hanno luogo nel vuoto, bensì entro contesti organizzati e organizzativi. E questa è sempre stata, per 30-40 anni, la mia critica. Quindi, accanto a cose eccelse, perché certi articoli sono veramente eccelsi, trovo gli studi STS molto autoreferenziali. Ma sai, c’è anche una cosa per me irritante. In molti articoli c’è un black-boxing tipo: «questo articolo segue gli STS». Che cosa sono? Mi vuoi spiegare? Lì dentro c’è il mare magnum. Mi vuoi fare dei riferimenti? È una specie di black box che si è auto-istituzionalizza senza dover spiegare le premesse, o i punti di partenza o le differenziazioni interne. Quindi diventa una etichetta. È un labelling che presenta un’identità omogenea, ma evita di affrontare la differenza. Per cui sono un po’ scettica e un po’ faccio la fiancheggiatrice.
Parlare degli STS mi dà l’occasione di introdurre un’altra dimensione nella cartografia, ossia le cose che hai costruito a Trento, dove ti ho conosciuta io e il gruppo di persone che ha gravitato attorno a Trento intorno agli anni Duemila, c’è la tua esperienza con la laurea magistrale e poi al dottorato.
Te la racconto in termini strategici. Nel momento di riforma dell’università, con i 3+2 a Sociologia a Trento si sono cominciate a fare le riunioni per progettare le lauree. Gran parte delle discussioni, dei litigi, dei confitti avveniva sulle triennali, le magistrali erano un terreno meno battuto e conflittuale. In quegli anni a livello di ateneo c’era una linea strategica per portare l’informatica in tutte le facoltà, soprattutto nelle facoltà umanistiche. C’era la possibilità quindi di avere risorse e persone curiose, e poi soprattutto di guardare in questo campo in cui tecnologia, sviluppo tecnologico digitale, lavoro e organizzazione si mettessero insieme. In quegli anni lì, grazie un po’ all’alleanza con Information System e con Gianni Iacucci, si è creato un momento favorevole per avere risorse, umane e non, per mettere in piedi un dottorato su quelle tematiche e immaginare una funzione sociale e occupazionale per futuri sociologi. Dal dottorato noi siamo andati all’indietro a mettere in piedi una laurea specialistica, la LOSI (Laurea magistrale in Lavoro, Organizzazione e Sistemi Informativi), e avere una presenza di insegnamento anche alla triennale. Devo dire che sono stata contenta di avere avuto una presenza nei tre momenti formativi, della triennale, della magistrale e del dottorato, perché mi ha dato la possibilità di elaborare un percorso pedagogico differenziato.
Su questo si innesta poi Rucola (Research Unit on Communication, Organizational Learning and Aesthetics), il gruppo di ricerca creato a Sociologia.
Rucola è stata una fortuna. Da una parte. ovviamente c’era un nucleo di persone che si ritrovava e che aveva un passato di condivisione e di collaborazione nel fare ricerca (penso ad Attilio Masiero, Rino Fasol, Antonio Strati), e dall’altro un momento di vuoto istituzionale perché la formula istituzionale dell’unità di ricerca’ non era ancora apparsa. In quegli anni poi si è formata una sorta di seconda generazione di studiosi che man mano sono stati stabilizzati o si sono dispersi in altre istituzioni. Penso soprattutto a Barbara Poggio, Attila Bruni, Paolo Rossi e successivamente tutte le collaborazioni con i dottorandi che ruotavano intorno ai progetti Rucola. Perché non c’era soltanto Rucola ma, più o meno negli stessi anni è nato anche il Centro Interdisciplinare di Studi di Genere, primo centro interdisciplinare dell’università di Trento. Sempre perché c’erano dei momenti in cui i conflitti erano altrove e si creava un po’ di spazio vuoto da un’altra parte. Rucola è nata che eravamo poche persone e c’era a Trento Davide Nicolini. Con Davide, e inizialmente con Francesca Odella, eravamo presenti in un progetto di ricerca sull’apprendimento organizzativo, guidato dal WZB di Berlino (anche Berlino è stata importante, mi stavo dimenticando) di sei anni in cui eravamo più o meno venti unità di ricerca sparse in tutta Europa. Era il ’93 e la nostra ricerca era sull’apprendimento organizzativo della sicurezza in cui mettevo insieme le competenze che avevo acquisito tramite il Man Made Disaster con lo studio del sapere pratico, nelle pratiche lavorative e attraverso l’azione. In questo contesto abbiamo fatto nascere Rucola. Perché, anche se eravamo poche persone inizialmente, avevamo la prospettiva temporale del fare ricerca insieme per sei anni. Con il dottorato in Information Systems and Organization, istituito nel 2001, è stato possibile avere una massa critica di persone interessate a temi di ricerca simili. Il nostro dottorato fondamentalmente reclutava circa sei persone all’anno di cui tre senza borsa e tre con borse industriali. Noi lavoravamo dunque con le borse industriali per ottenere le quali era necessario avere un certo radicamento nel territorio e con gli attori economici. A quel tempo non erano viste bene le borse industriali, mentre invece mi si dice che adesso sono il non plus ultra. I tempi cambiano. Ma insomma, c’è stata la possibilità di avere dottorandi e altre ricerche finanziate da fonti diverse. Finché a un certo punto c’è stato il paradosso del successo nel senso che bisognava avere fondi nuovi, firmare nuovi progetti. I dottorandi andavano a fare ricerca e c’era qualcuno, come la sottoscritta, che non faceva altro che scrivere progetti e firmare tutte le carte di questo mondo e aveva finito di divertirsi perché non aveva più tempo per leggere per fare ricerca in prima persona. E lì ho incominciato a pensare di prendere un sabbatico, e di ripensare al fatto che i più giovani dovevano rimboccarsi le maniche perché era arrivato il momento di passare la mano a chi voleva portare avanti questo progetto.
Rucola, anche per come lo stai raccontando, è stato una sorta di precursore in questo modo di porsi semi-imprenditoriale in università. Non ti divertivi più. Nella storia di Rucola c’è anche questa trasformazione dell’università in «progettificio».
Sì, hai detto bene, è stato un precursore. È stato anche lo sfruttare quegli spazi che c’erano di reperimento fondi. Ma, appunto, erano veramente i primi anni. Per alcuni anni sono state addirittura pagate due persone su fondi di ricerca per gestire tutta l’amministrazione perché, se ricordi, non c’era un supporto amministrativo da parte dell’università. Quindi per i progetti europei bisognava provvedere a scrivere i progetti, prendere le risorse, amministrarle, a rendicontarle, con tutte le responsabilità che andavano insieme a queste attività amministrative e organizzative. Al tempo c’era pochissima stima tra i colleghi e il personale amministrativo per chi lo faceva. Io non ho vissuto la fase del progettificio come lo definisci tu, però ho vissuto come il cercare fondi europei sia cambiato. Negli anni Novanta c’era molta più ricerca nei progetti europei. Adesso la parte organizzativa, burocratica e di rendicontazione... insomma la possibilità di fare ricerca con questi progetti europei si è ridotta in una maniera spaventosa. Di conseguenza, invece che avere così tanti fondi e avere così tanto lavoro che non è attività di ricerca vera e propria, è meglio avere un finanziamento più piccolo, magari più locale, però avere a disposizione fondi che vanno direttamente per fare ricerca e non per tenere in piedi un apparato che di ricerca ne faceva poi veramente poca.
A questo aggiungi che insieme a Rucola c’è stato lo sviluppo del Centro Interdisciplinare di Studi di Genere. Facevamo i master sul mercato del lavoro, pari opportunità eccetera. Io sapevo di altre colleghe che lavoravano sul genere in altre facoltà dell’ateneo trentino e pian piano, un po’ invitandole a lavorare nel master che gestivamo (parlo al plurale perché Barbara Poggio è sempre stata molto presente) abbiamo creato il primo centro interdisciplinare a livello di ateneo. Con forti opposizioni da altre facoltà che lo vedevano come un potenziale centro di potere, cosa che non era proprio nella nostra ambizione e nella nostra possibilità [ride]. Comunque, messo in piedi il centro e fatto il regolamento, io ho proposto che noi donne di generazione più avanzata, chiaramente ordinarie, ci ritirassimo in modo da passare alla mano alle persone di seconda generazione. Io ho sentito molto il lasciare il posto a quelle/i più giovani. Penso che, come ordinario, hai la possibilità di mettere in piedi i progetti, avviarli, reperire risorse, e questa secondo me è la funzione che possiamo e che dobbiamo avere. Dopo se altri vogliono prendere questa opportunità e portarla avanti… cambiarla anche perché è nella natura delle organizzazioni che cambino missioni e ruoli. Se ciò non avviene, va bene. Le organizzazioni si pensa che debbano essere eterne. O che se sono di successo, devono essere eterne. Secondo me c’è da ripensare a queste credenze. Se ci pensi, il nostro dottorato è durato dieci anni, nel bene o nel male ha fruttato in termini di persone, di formazione, di idee che sono circolate, di altre persone che sono venute perché il dottorato ha avuto sempre una apertura internazionale. I nostri dottorandi hanno conosciuto e conversato con Howard Becker, Smelser, Cicourel, Latour, Czarniawska e tanti altri illustri studiosi e studiose. Così come anche altre organizzazioni, non è male se stanno in piedi 10-15 anni o 20 anni. E se poi finiscono lasciano lo spazio per fare cose nuove. Quindi è necessario farsi da parte.
Tu ti sei fatta da parte. Sei andata in pensione, il che non ha messo fine assolutamente alla tua produzione scientifica.
[ride] Ah, beh, no. Se al tempo di lavoro di una professoressa ordinaria togli tutti i consigli, tutte le riunioni e togli l’insegnamento, rimane finalmente il tempo per leggere e per scrivere. E poi, un angolo istituzionale l’ho sempre avuto perché sono dieci anni che sono in pensione e ho fatto cinque anni a Oslo, due anni e mezzo a Helsinki, a Mälardalen sono stati quattro anni. Questo ha voluto dire che ero impegnata soprattutto con dottorandi e ricercatori early career, con gente che studia e fa ricerca. Poi, se questi avevano voglia di imparare da me, ben volentieri. Anche perché loro non avevano l’obbligo di seguire i miei consigli e io non avevo responsabilità di valutazione. Per me questo è un dono perché rappresenta l’opportunità di continuare a stare nel giro academico e di incontrare persone e progetti stimolanti. Infatti, le ultime cose che ho scritto sono prevalentemente co-firmate perché nascono dall’opportunità di lavorare con altri, di trovarsi, di discutere e di collaborare. Raramente, ormai, scrivo da sola. Sul campo non è che vado più di tanto o non ci vado per niente, ma poter seguire il campo fatto da qualcun altro è sempre foriero di nuove idee.
Anche se rimane l’idea di tornare con la scatoletta a fare Grounded Theory con i ritagli.
Non mi dispiacerebbe. Ti dirò, onestamente, che la Grounded Theory è stata un’esperienza molto formativa perché mi ha lasciato l’abitudine a prendere appunti, fare i famosi memo, in continuazione. E quindi quando io rifletto su una cosa, cerco di capire un concetto, mi scrivo i miei memo e li archivio ordinatamente. Al momento opportuno ho una base di riferimento che mi rende anche il lavoro di scrittura molto più facile. La Grounded Theory è molto, molto formativa per come ti abitua a tenere traccia del come pensi, come rifletti e come cambia quello che pensi nel corso del processo.
In questa intervista c’è un convitato di pietra, Antonio Strati (marito e collega). Una persona che ha avuto un ruolo non solo in alcuni scritti. Visto che nell’intervista hai legato molto la tua vita personale e amicale al tuo sviluppo scientifico, se ne vuoi parlare...
In un certo senso è doveroso. Non c’era soltanto Barbara (Poggio) o Davide (Nicolini) o Attila (Bruni) o Alberto Zanutto. Ma molte cose sono state pensate e fatte insieme ad Antonio. Alcune cose le abbiamo scritte e firmate insieme in un momento iniziale della carriera per entrambi. In un momento in cui spesso le nostre strade si sono incrociate in questo modo: il momento in cui io incominciavo a fare qualcosa era il momento in cui Antonio finiva di farla e si stava orientando verso qualcosa d’altro. E viceversa. Spesso ci siamo ritrovati a portare avanti delle cose che l’altro invece aveva lasciato. Io credo che alcuni degli articoli migliori, o ai quali io sono più affezionata, sono stati firmati assieme. Ma, onestamente, lavorare insieme... abbiamo due modi così diversi di lavorare che è molto faticoso. E poi invece ci siamo ritrovati a lavorare insieme come colleghi, istituzionalmente, quindi nel dottorato, nella laurea magistrale, nel fondare Rucola. Non posso dire che sia stato sempre facile tenere separata la vita privata dalla vita lavorativa, ma di sicuro è stata una decisione molto saggia. Si era colleghi quando si era colleghi è finita la colleganza si evitava di parlare di lavoro a casa, si evitava di parlare di lavoro mentre si andava a passeggio, mentre si andava a sciare. Porsi delle limitazioni nel nostro lavorare insieme ed essere colleghi è stato il modo di evitare che ci fosse la fagocitazione di una sfera di vita da parte dell’altra. Credo anche che per i nostri colleghi sia stato un processo di apprendimento, perché il fatto di vedere che più o meno regolarmente nei consigli di dipartimento avevamo posizioni diametralmente opposte, andava contro le aspettative di coloro che invece pensavano che, essendo una coppia, avremmo avuto le stesse posizioni. La paura nelle organizzazioni è che le coppie facciano massa. Non è stato facile per loro vedere che potevamo discutere, anche ferocemente, avere posizioni e idee diverse e poi andare a casa a braccetto. Poi raramente leggiamo le cose l’uno dell’altro. A volte sì, infatti in alcuni articoli c’è il ringraziamento nel caso venga letto anche dall’altro. Ma poi, un po’ è che abbiamo interessi diversi, un po’ che lavoriamo in modo diverso, un po’ che entrambi siamo molto polemici.
Una ultima riflessione sul tuo posizionamento. Per citazioni sei una delle top scientist nel settore. Se a una persona che non conosce i meccanismi dell’accademia dicessi che tu hai quattro lauree honoris causa conferite da università straniere immaginerebbe un racconto diverso. Sei partita da Goffman e hai fatto tutto un racconto di interstizi. Ti sei mossa negli interstizi, tra riforme e politiche di ateneo. Uno immaginerebbe che i finanziamenti ti arrivino addosso. Invece nelle tue parole hai restituito questa immagine di un lavorio costante per procurare soldi, progetti e tenere insieme questi network. Però forse questo testimonia anche il fatto che a questo grande riconoscimento che c’è stato all’estero, non sia corrisposto una presenza analoga in Italia.
Ma, sai, quelle statistiche non so come vengono fatte. Io sono l’ultima a saperlo. Comunque, è bello che Trento ha me, ma ha anche Diani e Sciortino, quindi tre nei top 20. Poi sul perché nell’accademia italiana io non sia stata molto inserita... dipende un po’ perché non mi sono molto sforzata. L’AIS e l’ELO, lo dicevo sempre a voi (dottorandi), sono come i pranzi di Natale in famiglia, bisogna esserci, anche se non ci si diverte. Non so se questo si può dire in una intervista. Ti racconto un piccolo episodio sul clima accademico. Alla prima riunione di quando doveva nascere l’AIS, in Versilia nell’83, faccio la conoscenza di un influente sociologo. Non ricordo onestamente chi fosse la persona, ma la domanda sì: «Tu di chi sei?». Sono rimasta a bocca aperta la prima volta che mi è stata rivolta la domanda. Io di chi sono? A una femminista? La mia idea a inizio carriera era che ‘facevamo’ i ricercatori, ma che non appartenevamo di diritto né a scuole né a correnti. Io ho battagliato per la fine delle correnti nell’AIS. Nessuno se n’è accorto, anzi spesso la cosa è stata usata contro di me in facoltà per dire che mi ero venduta ai cattolici [ride]. Sono stata attiva in ELO, per anni. Nel comitato ci sono andata. Se avessero voluto avrei fatto anche la responsabile. Non mi sono mai tirata indietro dalle posizioni organizzative, burocratiche, amministrative, ma non che le andassi a cercare!
Per chiudere torniamo alla parte scientifica. Ora scrivi con colleghi più giovani sfruttando questi periodi di permanenza all’estero. Qual è il prossimo tema di cui ti occuperai?
L’anno scorso sono uscita con due libri collettanei che mi hanno dato molta soddisfazione. Per quest’anno mi sono impegnata a fare la terza edizione di How to conduct a practice based study. Dopo aver fatto la seconda edizione nel 2019 mi son detta «mai più in vita mia, neanche morta», perché è un lavoraccio immane rimettere le mani su qualcosa scritto sette anni prima. Poi però in questi anni c’è stato il Covid, la digitalizzazione e adesso la bolla dell’AI, e molte cose sono cambiate nelle pratiche lavorative e organizzative e dunque ho accettato di integrare il testo.
Ora c’è un progetto di volume collettaneo con Michela (Cozza) e con Laura (Parolin) e Carmen (Pellegrinelli) sulla affective ethnography, una metodologia che ha avuto un successo incredibile. Come spesso accade, le cose che hanno molto successo, spesso hanno molto successo perché sono sufficientemente «plastiche», cioè facilmente adattabili e adottabili. Un’idea potrebbe essere quella di dare più strutturazione e metodologia a qualcosa che, nel 2019, avevo definito come uno ‘stile’ di fare ricerca etnografica. Tuttavia non so se questa sarà la tesi del libro perché abbiamo lanciato una open call a coloro che dicono di seguire questo stile. Gli autori avranno l’ultima parola, ma la sfida è che se l’affective ethnography è uno stile, esso deve essere riconoscibile!

- Articolo
- pp:235-246
- DOI: 10.1485/2281-2652-202527-16
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Editoriale
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Teoria e ricerca
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Focus. Sport e teorie sociologiche
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Focus. Cerchie, gruppi, associazioni, componenti, reti: traiettorie biografiche e dinamiche di riconoscimento accademico nella sociologia italiana
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L'intervista