AIS

2025/27

Introduzione alla sezione speciale «Sport e teorie sociologiche». Una sociologia senza Sport?


I lettori, certamente, avranno colto la provocazione contenuta nel titolo che abbiamo scelto per questo numero monografico promosso dalle Sezioni «Sport» e «Teorie Sociologiche e Trasformazioni Sociali» dell’Associazione Italiana di Sociologia da noi coordinate. A nostro parere, serve – grazie a una sorta di psicologia inversa – per mostrare che invece lo sport è sempre stato presente sia nella storia che nella teoria sociologica, lasciando prima delle semplici tracce e poi, come si vedrà, dei quadri teorici più compiuti fino ad approdare alla dignità scientifica che spetta a ogni branca della disciplina.

Lo sport è un fatto drammaticamente sociale, lo è in quanto capace di veicolare cornici di significato condivise al di là di ogni barriera linguistica, lo è in quanto capace di indurre stati di effervescenza, lo è in quanto momento capace di mettere tra parentesi l’Erlebnis per esperire nel gioco, in quanto mondo di regole date, la possibilità di inventare nuove combinazioni con esiti controllati e mai definitivi. In questo senso la lezione dei classici, a partire dal seminale lavoro di Johan Huizinga, non è prescindibile. Come non è prescindibile, come illustreranno i redattori dei vari lavori, il lungo percorso di studio simmeliano delle differenti forme sociative, l’ultimo Durkheim, laddove si esplicita il ruolo della ritualità intesa in senso ampio, oppure l’affresco figurazionale composto da Norbert Elias. Da subito lo sport viene anche studiato criticamente, proprio in quanto elemento trasversale alla costruzione del tempo sociale di individui, gruppi sociali e persino Stati. Ortega y Gasset nel 1930 statuisce il possibile collegamento tra la filosofia dello sport e la volontà che dà origine a una struttura statuale. Lo stesso Gramsci, come si leggerà, usa lo sport in modo convincente per sostenere la propria visione critica del mondo. Uno dei contributi, quello di Luca Bifulco, lavora proprio sulla diffusione della concettualizzazione di egemonia come esito di un lungo percorso che, quasi parallelamente e – aggiungiamo noi – piuttosto caratteristicamente, aggiunge utile conoscenza alla classica dicotomia tra apocalittici e integrati, tra conflitto e integrazione.

In questo numero monografico vi sono autori classici molto rappresentati (Norbert Elias, anzitutto, ma non solo) e altri assenti: Max Weber, anzitutto, Thorstein Veblen, lo stesso Johan Huizinga, prima citato, oppure ancora studiosi operanti nella seconda parte dello scorso secolo, Joffre Dumazedier, Allen Guttmann, Pierre Bourdieu, John Hoberman, Georges Magnane, George Mosse, Christian Pociello, Eric Dunning e il nostro Antonio Roversi, solo per citarne alcuni. Tutti autori che avrebbero meritato, dal punto di vista della storia del pensiero sociologico, una adeguata attenzione da parte dei ricercatori. In quanto curatori ci siamo trovati a dover rispettare limiti e criteri editoriali che – come spesso accade – confliggevano chiaramente con la possibilità di rappresentare compitamente la storia del pensiero sociologico nello sport.

Ciononostante crediamo possa essere una operazione oltremodo utile proporre questo numero monografico ai lettori della rivista per restituire visuali d’angolo di autori spesso conosciutissimi ma con una prospettiva meno calibrata sul fatto sportivo.

Per fare questo ci siamo sentiti quasi obbligati ad aprire con un testo di Nicola R. Porro, allievo di Franco Ferrarotti, che si è occupato di sport fin dalla sua militanza nel dipartimento di Sociologia della Sapienza. Porro, probabilmente il decano della sociologia dello sport italiana, traccia nel suo lavoro un excursus vero e proprio della sociologia dello sport contemporanea, evidenziandone i percorsi e, forse soprattutto, le opportunità che si possono ancora trarre dallo studio di un soggetto che soffre una sempre maggiore burocratizzazione funzionale, determinata dal sostanziale affermarsi di un paradigma di sport prettamente afferente alla cultura occidentale e sempre più legato ai sistemi valoriali che da questa cultura vengono veicolati, primo tra tutti quello della ricerca e del superamento del limite oltreché di un sostanziale utilitarismo, quasi alla Bentham, ma che ha comunque bisogno di «narrazioni emotivamente calde».

Per Porro lo sport, ora come allora, è anzitutto rappresentazione e dramma. Uno sport che è un prodotto della modernità ma che incorpora elementi ultra classici, ellenici o pre-ellenici e che, in tale ambivalenza – anche valoriale – giustifica sé stesso e giustifica gli esiti di una «sportivizzazione della società» sempre più evidente.

Il saggio di Dario Verderame vuole contribuire a una diversa lettura della ritualità implicata negli sport attraverso un riesame di quella che ancora oggi può essere definita come la principale fonte nell’attribuzione di senso al binomio sport-rito, ovvero la teoria durkheimiana del rituale. Verderame sviluppa la sua analisi in due punti. Il primo riguarda l’interpretazione del rito come pratica invariabilmente oppositiva, secondo una dinamica in group/out group, e quindi come esclusivamente funzionale alla riproduzione dell’ordine sociale; un punto di vista che viene ricondotto all’opera di Durkheim, secondo una canonizzazione del suo pensiero di stampo conservatore. Sullo sfondo di una rilettura del sociologo francese quale «teorico del cosmopolitismo», Verderame cerca di mostrare come, in realtà, per Durkheim il rituale possa veicolare forme di solidarietà inclusiva, utili a rileggere lo stesso rito sportivo.

Al saggio di Verderame, non casualmente, abbiamo fatto seguire l’interessante testo proposto da Luca Bifulco. L’autore propone una efficace rilettura dell’eredità gramsciana sull’uso della teoria dell’egemonia culturale negli studi critici. Il tentativo di (ri-)composizione della dialettica tra soggetto e struttura viene esplicitato lungo un percorso ricognitorio di studi e autori della teoria critica, con un particolare riguardo verso la possibilità di riuscire a «entrare», «afferrare» la pratica sociale sottesa a quella sportiva. In sostanza uno sforzo per dare evidenza e merito alle ragioni dello sdoganamento dello sport da mera sovrastruttura sociale. La creazione di nuovi significati e nuove riflessività, per Bifulco, non confligge con quella necessità storica di conflitto come motore sociale ma anzi, crea i presupposti per la comprensione della dimensione di non-lavoro (leisure-loisir) come dimensione economica e identitaria. L’esito è l’identificazione di una serie di pratiche tese al controllo delle risorse simboliche e materiali legate alla dimensione dello sport. In sostanza dal testo emerge un tentativo di intercettare nello sport «tracce di complessità storica, connessione tra rapporti economici […], forme di negoziazione, promozioni di idee e convinzioni in linea con interessi specifici».

Il saggio di Liana M. Daher, Giorgia Mavica e Davide Nicolosi si concentra sul contributo di Georg Simmel alla sociologia dello sport. Per il grande sociologo tedesco, sociologia dello sport significa, innanzitutto, recuperare una lettura attraverso il filtro del contrasto orientato alla «sociazione» delle forme sociali e categorie mentali, produzioni culturali e situazioni sociali in cui persone e gruppi vivono e si relazionano attraverso pratiche sportive e di leisure. La sua sociologia le rileva come forme di interazione tra individui esaminandole attraverso il tema del conflitto nel gioco e nel tempo libero all’interno degli spazi urbani. È possibile considerare Simmel precursore della sociologia dello sport? Quanto ancora i suoi insegnamenti sono utili alla disamina delle pratiche sportive nella società contemporanea? Questi e altri interrogativi sono discussi all’interno dell’articolo.

Lo stimolante saggio di Daher, Mavica e Nicolosi costituisce una opportuna premessa al lavoro di Francesca R. Lenzi che proprio dalla dimensione sociativa prende le mosse per accostare alcune dimensioni della teoria simmeliana, prima tra tutte quella di confine (che deve essere vissuto e superato, proprio a partire dal fatto sportivo) con la classica teoria figurazionale, del controllo pulsionale, come elemento di adattamento e progresso di una determinata società. Lenzi, per creare un ponte teoretico tra i due autori, usa in modo consistente il concetto di spazio come elemento necessario per il superamento del confine: senza il primo non può esistere il secondo e senza il secondo non può venirsi a creare la forma sociale, la figurazione appunto, sintomo di uno sviluppo morfogenetico. Lo spazio costituisce un elemento rilevante anche nella costruzione eliasiana. Nella concezione del suo modello Established/Outsiders, Elias usa alcune delle proprietà di spazio (esclusività, fissazione, confini) marcate anche nel famoso lavoro di Dal Lago. L’esito, che poi sarà puntualizzato dall’ultimo saggio di Benvenga e Bevilacqua, è la possibilità di usare il conflitto come lettura di un divenire possibile, depurato – non esente – dalla condizione di violenza anche solo potenziale che ne ha caratterizzato la nascita.

L’ultimo saggio di Benvenga e Bevilacqua, in sostanza, riprende dove il saggio di Lenzi aveva lasciato proponendo una approfondita disamina del fenomeno del teppismo calcistico per come esso è stato affrontato e studiato dalla scuola di Leichester. Gli autori sottolineano come il ruolo di violenza ritualizzata, appartenenza territoriale e adozione di simboli collettivi possano utilmente – e nonostante le molte critiche sul supposto determinismo di classe e sulla limitata pregnanza empirica – restituire un quadro utile per comprendere le traiettorie della civilizzazione laddove essa possa svilupparsi anche lascando fuori ambiti minoritari, refrattari per varie ragioni (culturali, territoriali, economiche) ad assumere una struttura di personalità in controllo delle emozioni. La scuola di Leichester, in sostanza, fotografa le condizioni sociali di crescita del fenomeno del teppismo calcistico. Gli autori concludono il loro excursus con una illustrazione delle non poche critiche al modello Eliasiano di comprensione del teppismo calcistico. In sostanza il dato più interessante, anche se piuttosto paradossale data la trasversalità della teoria Eliasiana, è che tale modello sia fortemente situato in termini temporali (anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo) e in termini geografici (in buona sostanza il Regno Unito dello stesso periodo). Questo – sottolineano gli autori – ha comportato una perdita della capacità di tipo euristico della teorizzazione Leichesteriana. Ciononostante il dato certamente rilevante d’insieme, così come trasversalmente sottolineato dagli autori di questo numero che si sono occupati della teoria figurazionale, è la sostanziale utilità dell’oggetto di studio «sport» per comprendere le categorie fondamentali dell’agire collettivo, così come quelle di identità, classe e territorio.

In conclusione, possiamo affermare che occorre ancora un lungo lavoro di scavo per far emergere i tanti nodi concettuali provenienti dalla teoria sociologica classica e contemporanea, utili a sviluppare ulteriormente la sociologia dello sport. Questo numero monografico è quindi solo un primo tentativo in questa direzione.

  • Articolo
  • pp:79-82
  • DOI: 10.1485/2281-2652-202527-4
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