AIS

2024/24

Intervista a Giandomenico Amendola


Gli obiettivi di questa sezione della rivista dedicata alle interviste sono di conservare la memoria del processo di sviluppo della sociologia nel nostro paese e di acquisire un punto di vista autorevole sulle trasformazioni e della disciplina e delle società contemporanee. Crediamo, dunque, che i lettori potranno trovare di un certo interesse il racconto del percorso biografico e accademico di Giandomenico Amendola. Un percorso, il suo, comune a una generazione di giovani intellettuali che, negli anni Sessanta in Italia, si rivolse alla sociologia per comprendere i tumultuosi cambiamenti sociali e provare a immaginare una società diversa.

Nato a Bari nel 1941, Amendola sin dai primi anni Settanta ha insegnato Sociologia nell’Università di quella città, ricoprendo il ruolo di professore ordinario di Sociologia e poi di Sociologia Urbana. Nel 1999, è stato chiamato alla cattedra di Sociologia Urbana nella Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. Ha svolto con continuità attività di ricerca e docenza presso diverse università internazionali, tra cui il Department of Urban Planning del MIT e la Graduate School of Architecture, Planning and Preservation (GSAPP) della Columbia University.

Amendola ha sempre creduto nell’importanza delle società scientifiche. Ha seguito attivamente le vicende dell’Associazione Italiana di Sociologia sin dai suoi esordi, come componente del primo direttivo presieduto da Achille Ardigò (1983-1986), poi come vice nella presidenza di Luciano Gallino (1989-1992), infine come Presidente dal 2001 al 2004. E, come rappresentante dell’AIS, ha fatto parte del comitato organizzatore della prima conferenza europea di Sociologia, a Vienna nel 1992, in cui si definì il processo che avrebbe portato alla costituzione della European Sociological Association due anni più tardi.

Non potendo citare tutti i suoi volumi, di Amendola qui ricordiamo la bella monografia su Mills, Metodo sociologico e ideologia: Charles Wright Mills (De Donato, 1971); l’antologia Sottosviluppo, imperialismo, analisi sociale (Dedalo, 1974); gli studi e le ricerche di sociologia urbana come La comunità illusoria (con prefazione di Ludovico Quaroni, Mazzotta, 1976), Uomini e case. I presupposti sociologici della progettazione architettonica (Dedalo, 1984), Segni e evidenze. Atlante sociale di Bari (con altri, Dedalo, 1985), La sociologia dell’abitazione (con A. Tosi, a cura di, Franco Angeli, 1987); e il libro La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea, uscito per Laterza nel 1997 (con svariate riedizioni) e in traduzione spagnola per Celeste nel 2000. Ricordiamo anche le curatele uscite nella collana «Città e sicurezza», diretta da Amendola per Liguori (Il governo della città sicura, 2003; Paure in città. Strategie ed illusioni delle politiche per la sicurezza urbana, 2003; Città, criminalità, paure. Sessanta parole chiave per capire e affrontare l’insicurezza urbana, 2008; Insicuri e contenti. Ansie e paure nelle città italiane, 2011). Negli ultimi anni, con libri come Tra Dedalo e Icaro. La nuova domanda di città (Laterza, 2010), Il brusio delle città. Le architetture raccontano (Liguori, 2013), Emozioni urbane. Odori di città (Liguori, 2015), Le retoriche della città. Tra politica, marketing e diritti (Dedalo, 2016), Sguardi sulla città moderna. Narrazioni e rappresentazioni di urbanisti, sociologi, scrittori e artisti (Dedalo, 2019), L’immaginario e le epidemie (a cura di, Adda, 2020), Desideri di città. Utopie speranze illusioni (Progedit, 2023) e sino al recentissimo Le città: immagini e immaginari. Narrazioni, analisi, miti (Franco Angeli, 2024), Amendola ha continuato a occuparsi del modo in cui la città è stata immaginata e narrata nel corso dei secoli. Infine, vanno ricordati due volumi da lui curati, testimonianza dell’impegno scientifico e della vocazione pubblica dell’AIS: il primo, con Achille Ardigò, Ricerca sociologica, informatica e società italiana (Franco Angeli, 1986), il secondo, Anni in salita. Speranze e paure degli italiani, con contributi collettivi di tutte le Sezioni dell’associazione (Franco Angeli, 2004).

Conversare con Giandomenico Amendola, che si definisce, con una punta di compiacimento, un cantastorie, è sempre piacevole. Nelle pagine seguenti, si potranno apprezzare il ricordo vivo di tanti incontri e momenti importanti, gli aneddoti curiosi, ma soprattutto la passione per l’immaginazione sociologica, che non è venuta meno nel corso degli anni.

Professor Amendola, partiamo dalla sua biografia. In che anno si è iscritto all’università e in quale facoltà?

Mi sono iscritto alla facoltà di Giurisprudenza nel 1959. Ma avevo realizzato il mio primo libretto, sui quartieri di Bari, già nel 1958. In quegli anni avevo fondato e dirigevo un giornale studentesco diffuso per tutta Bari, si chiamava A prescindere. Poi, ho venduto la testata e con il ricavato mi sono comprato la mia prima 500. Finita l’università, ho cominciato a guardarmi intorno.

È da qui che inizia il mio rapporto con la sociologia. La sociologia mi piaceva molto, avendo dalla mia il grosso vantaggio che leggevo correntemente l’inglese e avevo cominciato a scribacchiare qualcosa. Però, ci giravo intorno... Al che, ho avuto l’improntitudine che solo un ragazzo di poco più di vent’anni può avere: ho scritto a Franco Ferrarotti, che era il luminare della materia. Negli anni Cinquanta, Ferrarotti aveva fondato e dirigeva i Quaderni di Sociologia. La cosa strana dei Quaderni è che Nicola Abbagnano ne era il vicedirettore mentre un ragazzo così giovane come Ferrarotti ne era il direttore. Poi, Ferrarotti fece il parlamentare dal 1959 al 1963 subentrando ad Adriano Olivetti, che si era dimesso. Nel frattempo, aveva vinto il concorso nel 1961 a Roma, per la prima cattedra di Sociologia in Italia. Allora, io gli scrissi: «Caro professor Franco Ferrarotti, Università di Roma, sono Tizio Caio, mi piace molto la sociologia, sto leggendo, sto studiando (…) ma da solo non ce la faccio. Ho bisogno di un maestro. Vuole essere il mio maestro»? E Ferrarotti mi rispose. Andai a Roma per incontrarlo e così ho cominciato il mio percorso di sociologo.

In effetti, ero curioso di sapere come avesse scelto di dedicarsi alla sociologia, visto che negli anni della sua formazione a Bari, ma anche nell’intero Mezzogiorno, non c’erano insegnamenti in materie sociologiche.

Infatti. A Bari, i primi due a occuparsi di sociologia siamo stati io e Franco Cassano. Franco aveva due anni meno di me, eravamo nello stesso liceo. Il bello è che i nostri primi due libri di un certo spessore, il mio su Mills, Metodo sociologico e ideologia. Charles Wright Mills, e il suo, Autocritica della sociologia contemporanea. Weber, Mills, Habermas, vennero entrambi pubblicati nello stesso anno, il 1971, presso la casa editrice De Donato.

Quali sono stati i suoi primi interessi di ricerca?

Io ho incominciato a occuparmi di quella che, negli anni Sessanta in Puglia, era «la grande trasformazione», cioè l’Italsider di Taranto, che all’epoca era il quarto centro siderurgico nazionale. La grande retorica che correva in quegli anni descriveva questo momento come il passaggio «dagli ulivi agli altiforni». Ma era retorica, appunto. Dello stesso tema, questo è molto interessante, si era occupato anche Luciano Gallino con una ricerca per l’ARPES, la società che lui aveva fondato con Paolo Leon e Alessandro Fantoli. Quella ricerca (dal titolo L’azienda nel contesto territoriale e sociale. Il rapporto azienda-gruppi sociali, 1972, non pubblicata) mostrò come, a Taranto, i profitti e le plusvalenze della speculazione edilizia fossero stati superiori alla somma di tutti i salari pagati ai lavoratori del siderurgico e dell’indotto. Gallino e gli altri furono i primi a capire che non c’era il rimbalzo sul territorio di questi grandi investimenti di cui tutti parlavano, non avveniva la trasformazione storica di una comunità con il centro siderurgico. Nel corso degli anni, l’Italsider, poi Ilva e oggi Acciaierie d’Italia, è diventata la grande azienda che produce lavoro ma ammazza la gente. L’azienda si è chiusa su sé stessa, non è stata più l’azienda territorio.

Voglio ricordare Luciano Gallino, che è stato il mio secondo grandissimo maestro. Io sono stato il vicepresidente dell’AIS con Gallino e ho imparato da lui cose fondamentali, ho avuto con lui un rapporto, anche umano, straordinario.

Nei primi anni Settanta, mi sono occupato anche di sottosviluppo e imperialismo. E poi, con la virata data dallo stimolo dell’urbanista Ludovico Quaroni e di Henri Lefebvre, ho cominciato a occuparmi di città, però con un taglio affatto particolare, perché io insegnavo nella Facoltà di Lettere e Filosofia, ero a strettissimo contatto con i filosofi. Questo rapporto con la riflessione filosofica l’ho sentito molto. L’incontro con Lefebvre è stato fondamentale appunto perché lui era un filosofo. C’era anche un altro aspetto, che io porto tutt’ora dentro la mia biografia, il rapporto con i letterati e con la letteratura.

Tenete presente che erano gli anni in cui l’Università di Bari, come tante altre università meridionali, brillava e cresceva perché i professori potevano andare da una università all’altra. Si verificava un impollinamento continuo. Alcuni professori rimanevano a lungo, altri per qualche anno lasciando però dei bravi allievi. Così abbiamo avuto a Bari vari personaggi come Biagio De Giovanni, Mario Sansone e Gino Giugni, giusto per fare pochi nomi. Io sono stato per anni assistente di Gino Giugni perché, quando arrivò nell’Università di Bari, dove non c’erano ancora sociologi, ebbe l’incarico di Sociologia. Tutto è cominciato così.

Quali sono stati i suoi libri più importanti negli anni Settanta?

Ricorderei il mio libro su Mills e poi gli altri pubblicati da Dedalo, dove c’era Raimondo Coga, un grande editore che ha pubblicato all’epoca delle collane straordinarie. Per Dedalo tradussi il libro La dialettica sociale del sociologo egiziano Anouar Abdel-Malek, un altro grande mio amico. Fu lui a ispirarmi la curatela della prima antologia di sociologia dell’imperialismo (Sottosviluppo, imperialismo, analisi sociale, 1974). Un altro libro a cui tengo molto è Uomini e case. I presupposti sociologici della progettazione architettonica (1984), che è il libro della conferma per l’ordinariato. Io ho vinto il concorso nel 1980. Nella commissione giudicatrice, una di quelle grandi commissioni con tanti professori com’era all’epoca, ci fu una discussione se fosse più utile mandarmi come sociologo generale a Bari o come sociologo del territorio a Roma. Devo dire che Ferrarotti e Gallino valutarono che in quel momento nel Mezzogiorno c’erano pochi sociologi e che era preferibile assegnarmi all’Università di Bari.

In effetti, non erano molti gli ordinari di sociologia nei primi anni Ottanta nelle università meridionali.

Sì, eravamo pochi. C’erano Gilberto Marselli a Napoli, Franco Leonardi a Catania, Ada Cavazzani, che vinse il concorso con me, a Cosenza. Tutti insieme, nel 1981, creammo il primo dottorato in sociologia che vedeva unite le grandi università del Mezzogiorno, con sede a Catania da Leonardi, che era il preside della Facoltà di Scienze Politiche.

Tra i suoi primi lavori, lo abbiamo già ricordato, troviamo la monografia su Mills, un autore sempre molto amato dalle sociologhe e dai sociologi di tutto il mondo.

Mills aveva una funzione critica, che svolse nella sociologia e negli Stati Uniti degli anni Cinquanta. Il suo libretto più famoso, all’epoca, fu Listen, Yankee: The Revolution in Cuba (1960), in cui scrisse che gli americani stavano sbagliando la loro strategia e che Castro poteva diventare un principio di democrazia non consegnato in mano ad altri. Ho cominciato a leggere Mills su quel libro straordinario che è L’immaginazione sociologica, un libro da capezzale, si diceva una volta, il libro da tenere sempre sul comodino, in cui si affermava la dimensione critica della sociologia. Perché, non dimentichiamolo, c’era il Sessantotto, che ha colpito tutti, soprattutto noi sociologi. Il Sessantotto per noi ha significato riflettere sulle possibilità critiche della sociologia. Lo stesso Ferrarotti fondava nel 1967 la rivista La Critica Sociologica e pubblicava a Bari, nel 1972, un libretto con De Donato, Una sociologia alternativa: dalla sociologia come tecnica del conformismo alla sociologia critica. La critica diventava una parola chiave.

Lei ha svolto attività politica nei movimenti, nella società civile o nei partiti?

Io a partire dal 1967 sono entrato nel Partito Repubblicano Italiano. Erano anni in cui ammiravo Ugo La Malfa. Io venivo dalla tradizione liberale comune anche al Partito Repubblicano, che però aveva una componente critica che i liberali, allora schierati a destra, non avevano più. Mi ricordo che a gestire il passaggio del nostro gruppo di liberali al Partito Repubblicano fu Giorgio Bassani. C’erano intellettuali del calibro di Leo Valiani con cui si discuteva continuamente, l’atmosfera era assolutamente stimolante. Sì, facevo molta attività politica ma la tenevo stretta alla mia dimensione sociologica e anche alla dimensione giornalistica, che ho sempre sentito mia. Io ho fatto quasi sessanta anni di iscrizione all’Ordine dei Giornalisti. Ritenevo che fosse tutto intrecciato.

Si è avvicinato a Mills anche per questa componente critica e riformista, di ispirazione socialista, ma unita a una forte componente liberale?

Sì, quella dei liberal americani. Mills aveva individuato il problema, che poi ho ritrovato nei miei studi sulla città, del rapporto tra l’esperienza individuale e il sistema collettivo. Il rapporto, diciamo così, individuo-società. E su questo rapporto si sviluppava la critica, l’immaginazione. L’immaginazione è fondamentale. Questo per me è stato un leitmotiv tornato in tanti miei libri sulla città. Anche quando ho scritto sulle epidemie (L’immaginario e le epidemie, 2020), l’ho fatto a partire dall’immaginario, perché noi viviamo il mondo attraverso l’immaginario. Pure il mio ultimo libro si chiama Le città: immagini e immaginari.

L’immaginazione sociologica è ancora un grande classico? Conserva una certa attualità oppure c’è qualcosa che è superato in quel libro, in quell’impostazione?

Non lo so. I classici hanno uno svantaggio e un vantaggio. Lo svantaggio è che ormai sono nel passato; il vantaggio è che lo hanno fatto, il passato. Probabilmente se uscisse oggi, un libro come L’immaginazione sociologica piacerebbe ancora, infatti era scritto benissimo, ma non stravolgerebbe il mondo. Certo, è tra quei libri che hanno fatto la storia della nostra disciplina e del pensiero contemporaneo, ma oggi, chi lo scriverebbe più? Questo destino appartiene a tanti libri. Appartiene anche ai libri di Lefebvre, di Ferrarotti, di Alain Touraine e di Edgar Morin. Con Morin siamo amici, l’ho incontrato diverse volte, lo invitai al convegno di Amalfi. Ricordo che lo convinsi ad aprire con la sua relazione il primo convegno della European Sociological Association (Vienna, 26-29 agosto 1992), di cui ero nel comitato organizzatore. Ricordo anche con quanta fatica lavorammo, eravamo ad Amsterdam, alla redazione degli statuti dell’ESA. Infatti, per le associazioni scientifiche una delle grandi difficoltà è sempre di tradurre i principi in norme, ed è stato così anche per l’AIS. Occorre mediare su alcuni principi prima che scoppino i conflitti.

Un’ultima domanda su Mills. Secondo lei, ha avuto un’influenza importante sulla sociologia italiana?

No, non ne ha avuta molta. La sociologia italiana è stata al centro di tante influenze. Innanzitutto, quella nordamericana è stata molto forte, evidentemente perché si andava a studiare nelle università americane e lì si incontravano diversi maestri. Per esempio, io andai a studiare al MIT, e a Boston c’era in quel periodo Pizzorno che insegnava ad Harvard. Chi ha avuto una grande influenza, oggi sottovalutata, sulla sociologia italiana è Robert K. Merton. Parsons ebbe un’influenza minore perché era stato massacrato da Mills, molto letto in Italia.

C’è stata anche una rilevante influenza francese, pensiamo a Touraine, per fare un esempio. E poi c’è stata un’influenza tedesca, e citerei quella molto pesante dei francofortesi, di Dahrendorf e Habermas, che io ho conosciuto inizialmente attraverso la mediazione degli urbanisti americani. Minore, secondo me, è stata l’influenza dei sociologi dell’Est Europa, a parte Lukács.

Tenete presente che una caratteristica della mia generazione è che viaggiavamo molto. Perché in Italia non c’era ancora tra i sociologi quello spessore che avevano, per esempio, i filosofi. Insisto su questo aspetto perché i sociologi di oggi lo hanno dimenticato. Fino al 1944 non c’era un solo professore di sociologia in Italia! Questo grazie alle botte di Gentile, alle botte di Croce, che definiva la sociologia «l’inferma scienza». Sì, c’erano stati Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, ma si fermava tutto a loro. E Camillo Pellizzi, che prima aveva insegnato Storia e dottrina del fascismo, solo nel 1944 riuscì ad avere la cattedra di Sociologia nella facoltà di Scienze Politiche a Firenze. L’Istituto Cesare Alfieri di Firenze ha avuto il suo primo professore di ruolo di sociologia dopo il pensionamento di Pellizzi, nel 1966, ed era Luciano Cavalli, che arrivava da Genova e che avrà poi brillanti allievi come Bettin Lattes, Giovannini, Marsiglia.

Abbiamo già accennato a Henri Lefebvre. Quale ruolo ha avuto nel suo percorso intellettuale e nel panorama della sociologia italiana?

Lefebvre ha avuto un ruolo importantissimo per me, ma non credo l’abbia avuto sugli studi italiani. I sociologi del territorio italiano guardavano ad altro, erano più interessati alla scuola di Chicago. Lefebvre è stato rispettato per i suoi saggi, è stato un autore molto letto perché è arrivato nella cultura collettiva attraverso il Sessantotto parigino, ovvero «l’immaginazione al potere». Quello è stato il grande medium di Lefebvre. Vorrei sottolineare che lui insegnava a Nanterre quando allora lì c’erano i baraccati. Un suo allievo a Nanterre era Manuel Castells, che ha sempre avuto un rapporto irrisolto con Lefebvre. Il Sessantotto francese ha significato il potere alla strada e l’immaginazione al potere. Però, quando poi è arrivato in Italia, quel Sessantotto è stato rapidamente spogliato della sua connotazione francese.

In che senso?

In Italia, è diventato il Sessantotto marxista. Il concetto di immaginazione nel Sessantotto italiano non c’è stato, solo alcuni gruppi lo hanno conservato, come il movimento femminista. Mi ricordo di non aver mai visto la polizia caricare con tanta rabbia e violenza dei manifestanti come quella volta che c’erano le donne davanti all’ambasciata di Francia a Roma, era il 31 maggio del 1968. In Italia, chi ha parlato di immaginario in quegli anni? Pochissimi. C’erano gruppi di artisti, c’erano le femministe. Ma il PCI, se ci pensiamo, era un partito secondo il quale la pittura era ancora quella di Guttuso. Anche dopo, il PC di Berlinguer era un partito «concreto». Che si potesse vincere il potere con l’immaginazione, questo era impensabile, almeno questa è la mia opinione. Il conflitto sociale era tutto politicizzato, lo scontro era inteso all’interno di un rapporto di forza con il potere.

Questo è accaduto in verità anche in altri paesi, e persino in Francia, dove però il tema dell’imaginaire ha continuato per essere al centro, negli scritti di scrittori ma anche di molti sociologi. Questa è una caratteristica che riconosco alla cultura francese. Per esempio, la lingua francese ha mantenuto nell’uso, a differenza dell’italiano, la distinzione che c’è in latino tra urbs e civitas, tra ville e cité, la prima la città fisica, la seconda la città della gente e della comunità. Lo studio della città è il rapporto tra questi due poli.

Ecco, arriviamo così a uno dei suoi libri più importanti, La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea, che analizzava le trasformazioni urbane e sociali della globalizzazione. Rileggendo quel libro, mi ha colpito l’ampio ricorso che lei fa a fonti letterarie e visuali. Forse, è il libro in cui, più che altrove, lei ha tratto ispirazione da Walter Benjamin?

Io ho amato Walter Benjamin, l’ho adorato. Cito sempre quel suo articoletto, poche pagine, scritto esattamente cento anni fa, nel 1924, su Napoli. Benjamin era a Capri con la sua compagna Asja Lacis, una rivoluzionaria comunista, per consolarsi della bocciatura agli esami di libera docenza. Si prese qualche giorno di respiro e andò in gita a Napoli, tornò dopo pochi giorni e scrisse questo saggio sulla città porosa. Aveva capito tutto! Ecco perché adoro Benjamin.

Vedete, la mia risorsa, e senz’altro il mio limite, è che io sono un po’ sociologo, un po’ cantastorie, un po’ storico, un po’ letterato. Sono tutto questo perché ho attraversato molte esperienze. C’è una componente fortissima in me di autodidatta. Come ho detto, Ferrarotti è stato il mio maestro, ma era distante, ci sentivamo, ogni tanto chiacchieravamo, discutevamo degli ultimi libri, ma all’università di maestri veri io non ne ho mai avuti.

Io ho studiato Giurisprudenza, come ho detto, perché mio padre era avvocato. Ho fatto l’esame di procuratore, ho fatto anche qualche causa ma ero un avvocato assolutamente modesto… non era il mio mestiere. Ho cominciato allora il mestiere del sociologo, sempre con questa propensione a mettere in relazione i fenomeni. Io penso che per un sociologo questo sia importante, perché ciò ti consente di vedere il mondo anche da un punto di vista diverso dal tuo. Il rischio per molti sociologi è che hanno un solo punto di vista, magari metodologicamente corretto, bibliograficamente supportato, ma è solo un punto di vista! Questo è il vantaggio di occuparsi di città, perché chi si occupa di città non può avere un solo punto di vista.

In proposito, un autore che ho cominciato ad amare tardi, ma che ho amato molto, è Michel de Certeau. Un aspetto che molti non conoscono di questo autore, un gesuita, è che lui prima di scrivere di città si occupava di mistici medievali. Ma perché studiare i mistici? Perché i mistici sapevano che Dio si nasconde, il Deus absconditus appunto, ma c’è sempre anche dove non si vede. De Certeau applicherà questo concetto alla ricerca sulla società, che c’è anche dove non la vedi. Per me questa idea è fulminante. Pensate a ciò che De Certeau scrive su Dedalo e Icaro: il sociologo come Icaro vola, vuole comprendere il mondo dall’alto attraverso i suoi consolidati strumenti scientifici, ma se non scende in strada come fa a dar conto della vita, a cogliere i punti di vista diversi dal suo? Certo, nel momento in cui tu sei per strada, la società non la vedi più, la vivi attraverso l’immaginario.

Ci si può anche perdere, nel labirinto della società…

Certo, ti puoi anche perdere, e perché no? Il labirinto è l’emblema della società moderna e la bellezza del labirinto è che tu devi scoprirlo. A me quello che spaventa di alcuni colleghi è la sicurezza con cui definiscono il mondo, perché la società è più complicata di quel che vedi. E la conseguenza a cui conduce questo approccio è che il futuro non è né scontato né prevedibile.

Tornando alla condizione della città postmoderna, l’immagine del labirinto richiama alla mente i problemi della sicurezza urbana e della paura della criminalità, su cui lei ha lavorato a partire dagli anni Duemila.

La città è sogno e divertimento, ma anche incubo e paura. Una città su misura è solo «la città del sole» di Tommaso Campanella. Oggi il tentativo di vivere in una città su misura è quello delle gated communities, del quartiere iper-sorvegliato in cui il diverso entra solo per lavare i piatti o per terra e poi va via. La città reale, invece, può essere qualcos’altro appena giri l’angolo. Anzi, la violenza è anche dentro la casa, pensiamo ai femminicidi e alle violenze domestiche. Non è possibile espellere la paura, la violenza, il terrore dalla vita quotidiana, non si può realizzare un controllo totale. Questo è uno dei temi di un film che ho rivisto recentemente e felicemente, Metropolis, che è ambientato nel 2026. Ebbene, in Metropolis è rappresentata l’ambivalenza: c’è la donna vera e la donna falsa, c’è la paura e c’è il sogno, c’è la città in alto, quella dell’élite e del grande capitale, e poi c’è la città in basso, degli operai e del fordismo. La paura fa parte della città, la diversità fa parte della città, in breve l’immaginario è la città. Anche la recente pandemia, l’abbiamo vissuta attraverso l’immaginario.

L’immaginario è anche quello delle narrazioni, che lei usa per comprendere riflessivamente la città, i suoi sviluppi, i suoi conflitti, persino i suoi odori. Quando lei si approccia alle narrazioni conserva sempre un taglio storico, come in fondo suggeriva di fare Mills ne L’immaginazione sociologica.

La storia è fondamentale. Se vai in cima al Campidoglio e guardi Roma dal balcone che dà sui Fori Imperiali, vedi tutte le epoche dell’architettura: romana, romanica, gotica, rinascimentale, sino alla fascista, le vedi tutte. Quella visione ti dà il senso di ciò che è esistito. Non si comprende la città se non si conosce quel che è successo nel passato. Per esempio, a un certo punto, per la prima volta in Italia nel Rinascimento e poi con l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese, la città viene pensata e progettata prima di essere costruita. La città viene immaginata! Si immagina quel che potrà accadere nel futuro. Ma non ci si può scommettere. Se un giorno avrò ancora la forza per scrivere un libro, vorrei scrivere «l’urbanistica passo passo». Noi siamo convinti che un piano regolatore vada bene per sempre, ma quando mai? Questa è una delle funzioni della sociologia: strumento di verifica che sia immaginazione e controllo.

Non è solo una metafora quella dell’urbanista passo passo. È il flâneur

Sì. E qual è la caratteristica del vero flâneur? È quella di vedere la città attraverso la sua esperienza stradale. Lui non vede solo la strada, vede tutta la città. Walter Benjamin vede tutta la città. Ma non è solo lui, ci sono tanti romanzi che consentono di andare oltre, di immaginare la città. Nell’immaginazione ci sono realtà, esperienza, desiderio, la molteplicità dei punti di vista. Il sociologo deve inseguire i punti di vista. Per esempio, ho scoperto che H.G. Wells, lo scrittore di fantascienza, era un sociologo: fondò la società inglese di sociologia, chiese un insegnamento e mille sterline per poter scrivere tranquillamente un libro di sociologia.

Adesso sto cercando di fare un’altra cosa, per darmi un motivo... per vivere. Ora, vorrei ricostruire i viaggi del Grand Tour nel Mezzogiorno. Rivedere molte nostre città e territori attraverso le descrizioni del Grand Tour. Perché, quando il viaggiatore del Grand Tour o il turista di oggi raccontano le nostre città lo fanno attraverso il loro proprio immaginario.

Anche durante la pandemia abbiamo immaginato una città diversa, il che vuol dire anche una società diversa. Ma questo non è stato.

Attualmente, è una mia sensazione, stiamo vivendo uno sforzo di compensazione per quello che non abbiamo avuto. Cerchiamo di compensare con altre cose. Poche volte credo che abbiamo attraversato un periodo di questo tipo, forse l’abbiamo attraversato negli anni Cinquanta, che sono stati anni di speranza. La speranza è una spinta fortissima. Anche oggi stiamo coniugando tutto al futuro: pensiamo al PNRR, «faremo in questo modo, compenseremo in questa maniera», sperando che succeda. In questo periodo di grande compensazione, per creare consenso conta l’immaginazione politica. Se tu non fai sognare la gente, non la fai immaginare, se non agisci sull’immaginario delle persone, non vai da nessuna parte. Questa è veramente la mia convinzione.

Per concludere, vorrebbe ricordare con noi gli anni della sua presidenza dell’AIS, dal 2001 al 2004?

Devo dire che abbiamo attraversato dei momenti difficili per via di alcuni conflitti interni, ma abbiamo realizzato anche tante iniziative importanti. In quegli anni la sociologia cresceva perché cresceva l’università italiana, complessivamente. Non c’erano ancora le ferite causate all’università dalle leggi di questi ultimi anni. E poi, era ancora possibile la mobilità dei docenti, mentre oggi non ti puoi più spostare perché costeresti molto in termini di budget. Questa è una ferita a morte per le università meridionali. Quanti altri professori di primissimo livello potrebbero avere le università meridionali se fosse promossa una maggiore mobilità?

In fondo, l’università è fatta di ambienti. Ricordo una descrizione bellissima dell’università che girava ad Harvard: la formazione te la danno, magari sbaglio un po’ le cifre, per il 40% i professori, per il 20% i libri, e per il 40% i tuoi colleghi di corso. È vero! È l’ambiente che ti stimola, ti trasferisce informazioni. Una cosa di cui il sociologo ha bisogno, ma qualsiasi studioso in realtà, è stare con gli altri. E se puoi stare con altri di altre discipline è ancora meglio.

Un’ultima domanda. Che ruolo può avere oggi l’Associazione Italiana di Sociologia? Che consigli si sentirebbe di dare sulla base della sua esperienza?

Io credo che ci sia un problema di fondo. Occorre interrogarsi sul perché la sociologia ha perso tanto prestigio. Perché è «un’inferma scienza» oppure perché da molti è considerata una scienza poco utile? A quali problemi la sociologia si è dimenticata di dare delle risposte? So bene che, dal punto di vista accademico, si conserva un buon livello di ricerca e specializzazione, si fanno tanti convegni, si pubblica moltissimo. Però, c’è un problema generale che l’AIS dovrebbe porsi: perché abbiamo perso prestigio, immagine e ruolo? Pensiamo anche al valore della laurea in sociologia: per un periodo è stata il segno della critica sociale, poi è diventata un simbolo culturale, poi anche una possibilità occupazionale, nelle amministrazioni pubbliche. Ma oggi, per sociologo, cosa si intende?

Ma non crede che questo dipenda anche da un cambiamento della domanda sociale?

Certo, la domanda sociale è cambiata. Ma noi in un certo periodo siamo riusciti a intercettare la risposta. Era un periodo anche facile, l’Italia era in sviluppo, doveva darsi gli strumenti per affrontare il mondo nuovo, la concorrenza globale, la crisi. Ma oggi? Io alle volte mi vergogno nel vedere apparire in televisione certi sociologi pronti a sentenziare su tutto. L’AIS, secondo me, ha questo compito, di interrogarsi e dare risposte. E anche dare indicazioni di cambiamento, se possibile. E non è detto che sia possibile. Infatti, e penso che stia accadendo questo in Italia, alla perdita di prestigio, di immagine, di ruolo, consegue molto spesso una perdita di identità. Il rischio è questo. Perciò, secondo me, una strada è quella di promuovere una specializzazione disciplinare. Altrimenti la figura del sociologo rischia di essere molto generica. E di confondersi con quella di un generico maître à penser.

Come aveva avvertito nell’introduzione al libro Anni in salita. Speranze e paure degli italiani, la sociologia rischia di cadere o nel «sondaggismo astratto» delle indagini demoscopiche o nella «grande banalizzazione» dei talk show o dei commentatori tuttofare dei quotidiani.

Già, parafrasando quel che scriveva Wright Mills.

 

  • Articolo
  • pp:265-276
  • DOI: 10.1485/2281-2652-202424-15
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