AIS

2013/1

Intervista a Franco Crespi (Interview with Franco Crespi), di Lello Savonardo


Interview with Franco Crespi

In this interview, Franco Crespi – one of the most influential and prestigious Italian sociologists – covers the main stages of his scientific career, focusing on some of the most significant themes that characterize the contemporary debates in social sciences. Emeritus Professor of Sociology at the University of Perugia, Franco Crespi was one of the founders of the Associazione Italiana di Sociologia (AIS), of which he is an honorary member, and member of the Research Committee «Sociological Theory» of the International Sociological Association (ISA). Among his numerous awards, in 1998 he received the Gold Medal and the first class diploma of the Benemeriti della scienza e della cultura of President of the Italian Republic; he also has to his credit numerous scientific experiments and research at the national and international level. He has published numerous books on topics related to the theory of social action and change, the sociology of knowledge and culture, and religion and symbolic mediation. His books always provide a meeting place between sociology and philosophy, where awareness of the epistemological assumptions of the former is a constant element and the theories of the latter are always discussed.

Nella presente intervista, Franco Crespi, tra i più autorevoli e prestigiosi sociologi italiani, ripercorre le principali tappe della sua carriera scientifica, soffermandosi su alcuni dei temi più rilevanti che caratterizzano il dibattito contemporaneo nelle scienze sociali.

Nato a Crespi d’Adda (MI), il villaggio industriale creato da suo bisnonno Cristoforo e ora dichiarato dall’UNESCO di interesse per l’umanità, Franco Crespi si è laureato nel 1954 in Giurisprudenza presso l’Università La Sapienza di Roma. È Professore emerito di Sociologia all’Università degli Studi di Perugia, dove è stato, dal 1972 al 1999, Direttore dell’Istituto di Studi Sociali e, dal 1986 al 1992, Preside della Facoltà di Scienze Politiche. È stato tra i fondatori dell’Associazione Italiana di Sociologia (AIS), di cui è socio onorario e membro del Research Committee «Sociological Theory» dell’International Sociological Association (ISA). Nel 1961 viene nominato Direttore dell’Istituto di Sociologia dell’Università internazionale di Studi Sociali di Roma e gli viene conferito l’incarico di docenza di Sociologia nella stessa Università, incarico che terrà fino al 1974. Nel 1962 fonda la Scuola di Specializzazione in Sociologia presso lo stesso Ateneo. Nel 1963 con altri studiosi di Scienze Politiche e Sociali, fonda la rivista quadrimestrale Rivista di Sociologia, di cui sarà Direttore fino al 1977.

Attualmente dirige per la casa editrice Laterza la serie «Teoria Sociale» nella collana «Libri del Tempo» ed è Direttore della rivista Quaderni di Teoria Sociale. È stato ed è attualmente consigliere di redazione e membro del Comitato scientifico di molte altre riviste nazionali ed internazionali, tra cui: Rassegna Italiana di Sociologia (fino al 2006), Sociétés, Associations, Sociologia, La Società degli Individui, A & P - Anthropology & Philosophy, Cosmopolis, Paradigmi, Sociologia Italiana-AIS Journal of Sociology.

Tra i suoi numerosi riconoscimenti, nel 1998, ha ricevuto la medaglia d’oro e il diploma di prima classe per i benemeriti della scienza e della cultura del Presidente della Repubblica.

Al suo attivo vanta molteplici esperienze scientifiche e di ricerca sul piano nazionale ed internazionale e collaborazioni con studiosi come Pierre Bourdieu e Serge Moscovici. Con quest’ultimo, nel periodo 1995-2000, ha diretto un gruppo di ricerca internazionale sul tema «Identità e solidarietà sociale», presso la Maison des Sciences de l’Homme di Parigi, dove, nel novembre 2000, è stato nominato Direttore del gruppo di ricerca su: «Le rappresentazioni sociali del tempo».

Dal 1964 ha pubblicato (per le principali case editrici nazionali: Feltrinelli, Laterza, il Mulino, Donzelli ecc.) circa cinquanta volumi, di cui alcuni tradotti in francese, inglese e spagnolo su temi relativi alla teoria dell’agire sociale e del mutamento, alla sociologia della conoscenza e della cultura, alla religione e alla mediazione simbolica. I libri di Franco Crespi sono sempre un luogo di incontro tra sociologia e filosofia, dove la consapevolezza sui presupposti epistemologici della prima rappresenta un elemento costante e le teorie della seconda sono sempre presenti. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo:Azione sociale e potere(il Mulino, 1989),Evento e struttura. Per una teoria del mutamento sociale (il Mulino, 1993),Le vie della sociologia(il Mulino, 1994),Imparare ad esistere (Donzelli, 1994), Manuale di sociologia della cultura (Laterza, 1996),Introduzione alla sociologia della conoscenza(con Fornari, Donzelli, 1998),Teoria dell’agire sociale (il Mulino, 1999),Solidarietà in questione (con Moscovici, Meltemi, 2001), Introduzione alla sociologia (il Mulino, 2002),Il pensiero sociologico (il Mulino, 2002), Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea(Laterza, 2004), Sociologia del linguaggio(Laterza, 2005),Il male e la ricerca del bene(Meltemi, 2006),Contro l’aldilà (il Mulino, 2008), Esistenza-come-realtà (Orthotes, 2013).

Ripercorriamo gli anni della Sua formazione culturale e le principali tappe scientifiche. Come e perché ha scelto di dedicarsi alla Sociologia dopo una laurea in Giurisprudenza? Quali sono state le curiosità intellettuali e le opportunità formative che l’hanno condotta verso la disciplina e che ruolo ha avuto la Filosofia nelle Sue riflessioni sociologiche e nella Sua produzione scientifica?

A diciotto anni avevo intenzione di iscrivermi alla Facoltà di Lettere e Filosofia, ma mio padre, che era un industriale, fu contrario e mi lasciai convincere a iscrivermi a Giurisprudenza, presso La Sapienza a Roma. Fin dal liceo, avevo cominciato a studiare libri di filosofia e di psicoanalisi e, durante il periodo universitario, ho continuato in quei miei studi preferiti. Anche se ho conseguito la laurea in diritto, ho dedicato assai poco impegno alla mia vita universitaria: non frequentavo quasi mai le lezioni e studiavo quel tanto che mi permetteva di passare gli esami. Contemporaneamente ai corsi universitari, mi ero tuttavia iscritto anche presso la Scuola di Servizio sociale ENSISS, era una delle prime Scuole del genere aperte in Italia all’inizio degli anni ’50. Oltre alla filosofia, avevo infatti già un grande interesse per i problemi sociali e la frequentazione di quella scuola mi ha introdotto ai metodi della ricerca e a una prima conoscenza, anche se abbastanza approssimativa, dei vari problemi del lavoro, della povertà ecc. Tuttavia, in quegli anni, per quanto ciò possa oggi apparire strano, non avevo certo mai sentito parlare di sociologia. È soltanto diversi anni dopo, nel ’58, quando ero ormai laureato da almeno quattro anni, che, su invito del Senatore Sturzo, mi sono iscritto al Corso di specializzazione in Sociologia organizzato in quell’anno, per la prima volta, dall’Istituto Luigi Sturzo di Roma, conseguendo il relativo Diploma nel giugno del ’59. In quello stesso periodo, avevo iniziato una collaborazione con il quotidiano Il Messaggero, che pubblicò qualche mio articolo di tipo vagamente sociologico.

In ogni caso, gli studi di filosofia, che avevo condotto da autodidatta, credo abbiano avuto un ruolo determinante nella mia formazione.

Quali sono le persone che sono state importanti per la Sua formazione culturale e quali gli autori che ritiene siano stati più significativi per i Suoi studi? Ci può indicare almeno tre libri che a Suo avviso non dovrebbero assolutamente mancare nel bagaglio di conoscenze di chi oggi si occupa di scienze sociali?

Purtroppo non ho incontrato nessuna persona che abbia avuto un ruolo importante nella mia iniziale formazione culturale. Una volta che avevo già cominciato la mia carriera universitaria in Sociologia, sono stato grato in particolare a Franco Ferrarotti per il sostegno che mi ha dato sin dall’inizio, nominandomi suo assistente volontario e presentando, in modo più che lusinghiero, alla libreria Paesi Nuovi di Roma, la mia prima ricerca «Adattamento e integrazione», del 1964. Sono anche grato ad Achille Ardigò, che mi è sempre stato favorevole (almeno finché non ho assunto posizioni molto critiche nei confronti della Chiesa cattolica), ma posso dire che nessuno dei due sia stato per me un vero Maestro.

I filosofi che, all’inizio, hanno avuto su di me la maggiore influenza sono senza dubbio Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger, Sartre, Gadamer, Ricoeur e poi Hegel e Dilthey, e, in genere, la fenomenologia di Husserl, grazie anche ai contributi dati per la conoscenza del suo pensiero da Enzo Paci. Molto importante è stato per me anche Freud.

Tra i sociologi che hanno avuto una grande influenza su di me, figurano ovviamente i classici: soprattutto Marx, Weber, Simmel e Durkheim, anche se con quest’ultimo non sono mai andato molto d’accordo. E, poi, molto importante è stato Adorno. Mi sono occupato in chiave critica soprattutto di Vilfredo Pareto, Talcott Parsons e, successivamente, di Lévi Strauss, Jürgen Habermas, Erving Goffman, Niklas Luhman, Michel Foucault.

Difficile scegliere tre libri che non possono assolutamente mancare. Direi, anzitutto, che è fondamentale avere una conoscenza approfondita della storia del pensiero filosofico e politico-sociale della modernità. Nei miei primi tempi, mi è stato, ad esempio, molto utile il libro di Raymond Aron su Le tappe del pensiero sociologico, ma ormai è un libro assai superato.

A parte la storia del pensiero, se dovessi scegliere tre libri direi: Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Wright Mills, L’immaginazione sociologica. Credo, infatti, che la conoscenza di Marx sia ancora importante come riferimento di base e che sia tornato di attualità per comprendere la crisi economica in atto. Il libro di Horkheimer e Adorno resta un riferimento essenziale per la critica sociale (ma consiglierei anche di leggere la Dialettica negativa di Adorno, indispensabile per comprendere il nostro rapporto con la «verità» e, in genere, le forme di determinazione culturali). Il libro di Wright Mills, infine, mi sembra liberatorio e di grande incoraggiamento alla creatività per quanti vogliono occuparsi di dinamiche sociali.

Nel 1961 è stato nominato Direttore dell’Istituto di Sociologia dell’Universitài internazionale di Studi Sociali di Roma, dove Le è stato conferito l’incarico di docenza di Sociologia nella Facoltà della stessa Università. Come ricorda i Suoi primi passi in ambito accademico e quali consigli e riflessioni consegnerebbe a un giovane che si volesse dedicare, oggi, alla ricerca scientifica e all’attività accademica, in particolare nel campo delle scienze sociali?

Non ero molto giovane quando ho iniziato la mia carriera universitaria. Per le circostanze che ho esposto prima e anche perché per qualche anno ho lavorato alla Direzione di Roma della FIAT, dove mi occupavo dei problemi sociali legati all’azienda. In realtà, la mia carriera accademica è iniziata quando avevo già trent’anni. È vero che ho avuto la fortuna di cominciare la mia attività di studioso alla LUISS, prima ancora che fosse riconosciuta come Libera Università. Ho, infatti, anche collaborato alle lunghe pratiche per ottenere tale riconoscimento.

Il consiglio che darei a un giovane che si voglia dedicare a questo tipo di studi, tenuto conto delle gravi difficoltà che oggi i giovani incontrano per ottenere un posto nell’Università, è anzitutto di intraprendere tale carriera solo se si è profondamente motivati dall’interesse per i fenomeni sociali. La principale ricompensa deve essere trovata nel piacere di lavorare in questo campo, altrimenti non ne vale la pena.

In secondo luogo, raccomanderei di non specializzarsi troppo presto in un singolo campo di applicazione della Sociologia. Quest’ultima, a mio avviso, richiede che lo studioso mantenga un orizzonte sufficientemente ampio per valutare i singoli problemi all’interno dell’insieme della realtà sociale nel quale emergono. Un’analisi sociale che non sia in grado di sviluppare una prospettiva critica generale, cogliendo le cause strutturali e i loro riflessi sui comportamenti degli attori sociali, è destinata a restare vana. Rispetto a quelli che, come me, hanno iniziato a lavorare in Sociologia verso la fine degli anni ’50, i giovani d’oggi, non solo grazie a Internet, hanno a disposizione una documentazione infinita, sia di tipo teorico che di ricerca, una documentazione che era inesistente in quei tempi. Il problema, oggi, è di sapersi orientare in questo vasto mare e, per fare ciò, occorre aver ben chiarito, attraverso una riflessione personale, quali sono i presupposti teorici di fondo che orienteranno la ricerca di ciascuno.

Un altro consiglio importante (ma i consigli non sono sempre inutili?) credo potrebbe essere quello di non lasciarsi coinvolgere nelle beghe competitive che, purtroppo, infestano l’ambiente universitario. Come in tutti gli ambienti professionali, vi sono sempre (parlo soprattutto in base all’esperienza da me fatta come preside di facoltà) persone per qualche ragione «frustrate», che cercano una compensazione nel creare difficoltà ai loro colleghi. Per un sereno lavoro di studioso, occorre tenersi per quanto possibile lontani da questi conflitti, che causano una gran perdita di tempo e obnubilano le capacità intellettuali.

Uno dei temi più controversi al centro del dibattito pubblico sull’Università è la questione della valutazione della «qualità» scientifica. In che modo, secondo Lei, si può coniugare l’esigenza di criteri di valutazione oggettivi e trasparenti con il rispetto della specificità epistemologica delle scienze umane e sociali?

Il modo in cui è stata recentemente affrontata la questione della valutazione della qualità scientifica mi sembra abbia creato e stia creando non pochi danni un po’ in tutte le parti del mondo (vedi, in particolare, gli USA), soprattutto per quanto si riferisce alle scienze umanistiche e a quelle sociologiche. La giusta esigenza di serietà nella valutazione dei contributi scientifici è stata appiattita sui criteri prevalenti nelle scienze matematico-naturali, dando una netta prevalenza alle ricerche di tipo quantitativo: la sociologia tende, in tal modo, a essere equiparata alla statistica. L’Università non può essere la sede di presunte valutazioni oggettive e trasparenti, legate a criteri dettati soprattutto dall’esigenza di riduzione delle spese. Quando l’efficienza viene valutata secondo criteri di mero rendimento economico, si uccidono la qualità e la creatività della ricerca. L’Università dovrebbe essere il luogo dell’immaginazione e dell’innovazione, di procedimenti per tentativi ed errori, che lascino liberi spazi alla fantasia. Senza fantasia e senza serendipity, neppure le nuove scoperte scientifiche nel campo della fisica e della matematica avrebbero potuto aver luogo. Nelle scienze sociali, la valutazione deve necessariamente essere qualitativa e non può che essere lasciata al giudizio e alla responsabilità dei membri della comunità scientifica pertinente. Ad esempio, negli ultimi tempi, i risultati più interessanti nel campo della ricerca empirica sono stati rappresentati da numerose indagini di tipo etnologico e qualitativo, applicate a casi particolari, gruppi, organizzazioni, spazi di incontri informali ecc.

Attraverso tali ricerche si mettono bene in evidenza i processi attraverso i quali si creano la realtà sociale, i significati vissuti dagli attori sociali a livello della vita quotidiana e via dicendo.

In ogni caso, come prima accennavo, la tendenza a voler valutare tutto secondo criteri di «efficienza» produttiva immediata e la mancanza di un orizzonte teorico di grande respiro risultano deleteri per le scienze sociali.

Nel rispondere a quest’ultima domanda, ha parlato di «creatività», «immaginazione» e «innovazione», concetti chiave nei processi di trasformazione sociale e culturale. Quali sono le sue riflessioni in merito e in che modo uno studioso di scienze sociali deve tenerne conto nello studio del mutamento?

Nella mia teoria dell’agire sociale ho cercato di porre in evidenza, da un lato, i condizionamenti materiali e socio-strutturali che influenzano il comportamento umano. I modelli culturali, le definizioni di ruolo, i meccanismi di controllo sociale, spesso, inducono forme di accentuato conformismo, soprattutto se si tiene conto delle fondamentali insicurezze di ogni essere umano circa la sua identità, il suo desiderio di essere riconosciuto dagli altri membri del contesto sociale nel quale vive, di essere accettato a pieno titolo come appartenente al gruppo, alla comunità, come cittadino integrato nella società più ampia ecc. Dall’altro lato, fondandomi sul fatto che ogni singolo individuo, essendo dotato di autocoscienza, ovvero della capacità di riflettere e di elaborare la sua particolare esperienza di vita, è non solo animato dal desiderio di essere simile agli altri, ma anche di essere riconosciuto nella propria singolarità. Questo spiega la tendenza, posta in evidenza da Erving Goffman, a mantenere sempre una distanza dal ruolo. La coscienza è alla radice di una dinamica ambivalente tra necessità di identificarsi e l’esigenza altrettanto vitale di differenziarsi. Rispetto alla complessità dell’esperienza vissuta e dell’agire, i modelli socialmente codificati, le forme di determinazione culturale, indispensabili, come hanno mostrato al seguito di Max Weber numerosi sociologi, per garantire le condizioni della prevedibilità dei comportamenti sociali e, quindi, la possibilità di coordinare l’agire dei diversi attori sociali, sono sempre, proprio per il fatto di essere determinate, fatalmente riduttive di quella complessità. Da tale carattere riduttivo nasce la costante insoddisfazione rispetto ai modelli consolidati e agli ordini costituiti, che, in ultima analisi, si rivelano sempre inadeguati a far fronte alle nuove esigenze che sorgono dai cambiamenti dell’ambiente naturale e da quelli posti, di volta in volta, in essere dallo stesso agire degli attori sociali. Questo spiega anche il fatto che ogni nuova generazione tende a contestare i modelli culturali della generazione precedente.

Su queste basi, legate all’autocoscienza e alla sua capacità di negare ogni oggettivazione, si innestano i processi di innovazione, le tendenze più o meno creative, più o meno ricche di immaginazione, cui assistiamo costantemente nel corso della storia umana. Il grado di innovazione, di effettiva immaginazione creativa, che sono costitutive dell’agire umano, possono, ovviamente, variare a seconda delle circostanze, delle risorse disponibili e soprattutto del grado di flessibilità dei sistemi sociali. I sistemi rigidi di tipo dogmatico autoritario, fondati sul tentativo di assolutizzare le forme ideologiche, di trasformare indebitamente la cultura in natura, ostacolano tali capacità innovative. Tuttavia, come mostra la storia dell’umanità, i regimi autoritari danno, prima o poi, quasi sempre luogo a esplosioni di tipo rivoluzionario. Per questo è essenziale che la teoria sociologica tenga sempre conto dell’ambivalenza fondamentale del rapporto che intercorre tra agire e cultura. Le teorie che non tengono conto della costitutiva socialità dell’individuo umano, dell’ambivalenza posta così bene in evidenza da Simmel tra socialità e a-socialità dell’individuo, tendono, come in Durkheim, in Parsons e altri (oggi, in particolare, penso a Seligman e alla sua scuola portata all’esaltazione dei riti), a considerare necessaria la coercizione, la manipolazione delle coscienze, fino alla riduzione degli attori sociali a cultural dopes, per usare la nota espressione di Garfinkel, al fine di assicurare l’integrazione degli individui negli ordini sociali costituiti. Per tali autori il cambiamento è sempre tendenzialmente visto come un rischio di disordine, anziché come un momento vitale della dinamica sociale.

Ritornando al rapporto tra Filosofia e Sociologia, l’approfondimento del concetto di «agire sociale», centrale nella Sua produzione scientifica, risulta essere la chiave per un efficace dialogo tra le due discipline. In particolare, rispetto al rapporto tra agire sociale e cultura, che Lei ha appena citato, Pierre Bourdieu (1972), senza riuscirci fino in fondo, tenta di superare l’approccio teorico del determinismo strutturalista di tipo marxiano, attraverso il concetto di habitus e l’idea di struttura «strutturata e strutturante». A tal proposito, Anthony Giddens (1984), attraverso la teoria della strutturazione, sembra esprimere una posizione più equilibrata in relazione all’autonomia dell’azione rispetto alla cultura. Qual è la Sua personale riflessione in merito?

Anzitutto, credo che sia evidente, in base a quello che ho detto prima, che lo scambio tra Filosofia e Sociologia è imprescindibile. Anche quando viene negato con la pretesa di un puro empirismo di stampo neopositivista, una Filosofia di tipo antropologico appare sempre implicita (ad esempio riducendo il soggetto a puro prodotto sociale, attribuendo alle strutture e al sistema della cultura un ruolo determinante ecc.). Se non si tiene conto della costitutiva intersoggettività che è alla base della formazione degli individui, della dimensione dell’autocoscienza che li caratterizza come esseri umani e della conseguente richiesta di riconoscimento, quale motivazione di fondo all’origine di ogni loro agire, non si riesce a comprendere più nulla di ciò che anima veramente la dinamica sociale, la sua particolare dialettica. Bourdieu e Giddens hanno entrambi correttamente percepito l’esigenza di evitare l’involuzione presente sia nell’individualismo metodologico, sia nel cosiddetto olismo, la teoria sistemica di tipo rigidamente funzionalista, o nello strutturalismo di tipo deterministico. Bourdieu, tuttavia, non mi sembra sia del tutto riuscito nel suo intento. Malgrado l’indubbia fecondità metodologica dei suoi concetti di habitus e di campo, di fatto, se si esaminano attentamente le sue ricerche empiriche, si deve constatare che egli tende ad attribuire una preminenza alla struttura di classe ed ai condizionamenti ambientali (naturali e culturali), rispetto ai comportamenti sociali e alle scelte individuali. Giddens ha sicuramente portato un ottimo contributo nella direzione di un maggiore equilibrio tra agire e struttura, anche se, a mio avviso, non ha mai sufficientemente esplicitato i presupposti della sua teoria, che per questa ragione resta più a un livello descrittivo che esplicativo.

Uno degli elementi centrali della Sua riflessione teorica è il concetto di simbolico. In Esistenza e simbolico (1978), in Mediazione simbolica e società (1982) e nel più recente Sociologia del linguaggio (2005), il tema viene declinato attraverso diverse dimensioni. Ci può chiarire la relazione tra simbolico, potere e cultura secondo il Suo punto di vista?

Non mi sembra qui il caso di illustrare in dettaglio ciò che ho cercato di fare con la mia teoria della mediazione simbolica. In parte, vi ho già accennato prima, riguardo ai presupposti derivanti dal carattere necessario e, al tempo stesso, riduttivo delle forme di determinazione culturale. Mi limiterei a dire che il mio libro Sociologia del linguaggio ha forse ulteriormente precisato quanto avevo scritto in precedenza a proposito della mediazione simbolica. Quanto al rapporto tra ordine simbolico (o più genericamente cultura) e potere, credo che la mia posizione risulti soprattutto nelle numerose analisi (e denunce) dei processi di assolutizzazione. Coerentemente con il principio dell’ambivalenza tra identificazione e differenziazione derivante dalla dimensione riflessiva della coscienza e con quanto ho sottolineato in vari miei testi riguardo al carattere inconciliabile della situazione esistenziale e sociale, mostrando che esse sono prive di soluzioni definitive a causa della costante tensione tra il desiderio di un pieno compimento e il carattere finito dell’esistere, ho definito il potere come capacità, sia a livello individuale sia a quello collettivo, di gestire le contraddizioni insuperabili della nostra condizione. Il potere appare come una funzione indispensabile nella dinamica delle interrelazioni sociali come in quella delle pubbliche istituzioni: la carenza di potere crea necessariamente il caos, ma l’eccesso di potere, espresso nel dominio e nella repressione, si rivela altrettanto distruttivo della coesione sociale. Il modello ideale di potere è quello che tiene conto sia delle esigenze di determinazione e di prevedibilità, sia di quelle del cambiamento e dell’innovazione. Ovviamente, il modello democratico-partecipativo è quello che più si avvicina a questo tipo di potere.

Ogniqualvolta ci troviamo di fronte a forme più o meno accentuate di assolutizzazione delle forme culturali di tipo ideologico (dogmatismi religiosi, utopie politiche, varie forme di populismo ecc.), il potere degenera in dominio e perde la sua funzione di gestione delle contraddizioni, provocando i gravissimi effetti distruttivi cui abbiamo assistito durante tutto il corso della storia e purtroppo anche recentemente. Come prima accennavo, ogni tentativo di assolutizzare un ordine costituito, creando sistemi rigidi e immutabili, è destinato, in tempi più o meno brevi, al suo fallimento, causando spesso reazioni violente.

Quali sono, a suo parere, le principali sfide e priorità con cui le scienze sociali sono chiamate a fare i conti, oggi, in una società sempre più complessa e costantemente in crisi sul piano sociale, culturale ed economico? Come ritiene che occorra ripensare lo statuto epistemologico della Sociologia per interpretare la «tarda modernità» e quale riflessione si sente di fare sulla «condizione di salute» della Sociologia italiana contemporanea, considerato che lei, tra l’altro, è tra i fondatori dell’Associazione Italiana di Sociologia (AIS), di cui è attualmente socio onorario, oltre ad essere membro del Research Committee «Sociological Theory» dell’International Sociological Association (ISA)?

Penso che, tra le principali sfide a cui è necessario dare un’urgente risposta a livello globale, sia l’esigenza di una profonda revisione dell’economia. La grave crisi finanziaria di questi anni ha messo in evidenza la follia di aver attribuito al mercato una totale autonomia, priva di ogni controllo. Alcune misure sono in corso negli USA e da parte della BCE, ma le banche e i centri finanziari agiscono ancora, il più delle volte, in maniera totalmente irresponsabile. Si tratta di ripensare in modo radicale le priorità delle scelte economiche secondo criteri di giustizia distributiva delle risorse a livello mondiale (vedi le analisi di Nancy Fraser), lottando contro la fame, gli sprechi, l’incapacità di prevedere e di reagire tempestivamente contro le carestie, rimettendo in discussione il dogma della «scarsità» ecc. Ad esempio, in questo contesto, penso che si dovrebbe mettere un freno sia alle spese militari che a quelle per i voli interplanetari, questi ultimi sono un «lusso» che non ci possiamo concedere finché miliardi di persone muoiono di fame e di epidemie. Recentemente, il sociologo Danilo Martuccelli, professore alla Sorbonne, ha scritto un saggio che si intitola: «Critica dell’economia in quanto realtà. Un’urgente messa in questione» (di prossima pubblicazione in un libro a cura mia e di Santambrogio Nuove prospettive di critica sociale. Per un progetto di emancipazione, Perugia, Morlacchi). Sullo stesso argomento, egli sta ora scrivendo un libro. Prendendo lo spunto da quel suo primo testo, ho scritto un breve saggio intitolato Esistenza-come-realtà. Contro il predominio dell’economia, che esce in questi giorni pubblicato dall’editore Orthotes di Napoli. Penso che vi sia un enorme lavoro da fare per le scienze sociali, con la revisione dei nostri presupposti teorici e la ricerca di nuove forme di gestione della realtà economico-sociale e, di conseguenza, aprendo anche prospettive di una nuova capacità politica a livello mondiale. Rientra, ovviamente, in questo ambito il problema di una efficace governance a livello europeo. L’altra grande sfida, collegata con la prima, è quella dell’equilibrio dell’ecosistema. Un’altra sfida ancora è rappresentata dall’incremento dei fanatismi religiosi, dal problema delle mafie e della droga ecc. Le sfide certo non mancano, ma le scienze sociali non sembrano sempre all’altezza della situazione.

Per quanto si riferisce alla Sociologia in Italia, malgrado le grandi difficoltà incontrate in questi anni dagli studiosi, specie da quelli più giovani, per mancanza di fondi e di cattedre, ho l’impressione che vi siano in Italia nuclei di studiosi assai attivi ed efficaci: vi sono, soprattutto, giovani molto motivati e ben preparati attraverso i dottorati, che avrebbero bisogno di incoraggiamento e appoggio. A parte le difficoltà che tutti conosciamo, la crisi delle scienze sociali mi sembra dovuta soprattutto alla carenza di fondamenti teorici adeguati a far fronte alle grandi sfide cui prima facevo riferimento. È dall’aumento della creatività della riflessione e dal rinnovamento dell’esperienza empirica che dovrebbe nascere un nuovo impulso ad affrontare grandi temi.

Occorre ripensare il percorso seguito dalla modernità e trarre le conseguenze della fine delle grandi prospettive illusorie della prima modernità. L’epoca attuale mi sembra uscita definitivamente dalla fase della prima modernità che, nel riferimento a Freud, ho caratterizzato come «fase di onnipotenza infantile». Ripensare i limiti e le contraddizioni costitutive della nostra situazione esistenziale è l’unico modo per rinnovare profondamente i nostri schemi interpretativi e per ritrovare orientamenti individuali e collettivi adeguati alla nuova realtà.

Credo occorra rifondare una nuova cultura laica: in questa direzione, ho scritto il libro Contro l’aldilà (il Mulino, 2008), dove per «aldilà» si intendono sia l’idea di una vita ultraterrena, sia le utopie del progresso e della società perfetta.

In riferimento a quest’ultimo volume citato, secondo Lei, la «malattia dell’aldilà», contro cui prende posizione il libro, è quella che discende dalle pretese di possedere e imporre verità assolute sia di carattere religioso – come le verità predicate da fondamentalismi e integralismi sempre più vigorosi –, sia di carattere mondano, di cui sono esempi le utopie delle società comuniste o i mille anni di felicità annunciati dal nazismo e, oggi, l’esaltazione di identità etniche o nazionali o della logica di mercato. Partendo da queste considerazioni, qual è l’idea di laicità che emerge dalle Sue riflessioni?

In base a quanto ho già detto prima, sono convinto del carattere distruttivo delle diverse forme che pretendono di possedere una Verità assoluta, o anche di quelle che traggono la loro legittimazione da supposte leggi deterministiche, come, ad esempio, nel caso del neoliberismo oggi imperante, le leggi dell’economia di mercato.

L’idea di laicità credo vada fondata, appunto, sul riconoscimento che nessuno può imporre nella sfera pubblica verità di tipo assoluto. Tale totale relativismo non esclude, tuttavia, come ha mostrato Adorno, il riferimento alla verità come qualcosa da perseguire costantemente, anche se non si potrà mai conoscerla una volta per tutte in modo esaustivo. Come, tra gli altri, hanno giustamente sostenuto Karl Otto Apel e Jürgen Habermas, chi nega l’esistenza della verità cade fatalmente in una contraddizione performativa, in quanto tale negazione viene, a sua volta, necessariamente presentata come una verità indiscutibile. Ad ogni modo, il riconoscimento della parzialità delle nostre conoscenze non significa che tutte le interpretazioni si equivalgano: ricerca della verità significa selezionare le interpretazioni che, di volta in volta, sono giudicate più adatte a corrispondere alle esigenze pratiche nelle diverse situazioni contingenti, nella consapevolezza che esse sono valide solo fino a prova contraria, ovvero quando l’esperienza pratica dimostra il loro limite o gli eventuali effetti perversi cui possono dare luogo. L’importante è di mantenersi sempre vigili e capaci di apprendere costantemente dall’esperienza.

Il Suo libro precedente, Il male e la ricerca del bene (2006), nasce da una profonda insoddisfazione riguardo al modo in cui, ancora oggi, vengono individuate le cause dei mali che affliggono l’umanità e, in particolare, dalla convinzione che le stesse teorie teologiche, filosofiche e morali del male che hanno prevalso nella nostra tradizione culturale si siano rivelate, nel complesso, inadeguate. Qual è, secondo la Sua riflessione, l’origine del male e quali i possibili orientamenti per una ricerca del bene?

La mia critica di alcune delle teorie filosofiche, teologiche e morali riguardanti il problema del male è rivolta al fatto che tali teorie colgono per lo più l’origine del male morale unicamente in una presunta responsabilità o colpevolezza dell’essere umano, o nell’esercizio distorto della sua libertà e nella mancanza di razionalità. A parte il cosiddetto male metafisico derivante dal carattere finito dell’esistenza, l’origine del male morale è da me, ancora una volta, attribuita al desiderio di assoluto. Nietzsche, affermando che «il gusto dell’assoluto è il peggiore di tutti i gusti», ha definito l’assoluto come la tendenza a evadere dalla condizione esistenziale, cercando un altro luogo al di sopra di essa. La non accettazione del carattere finito dell’esistenza e della sua insuperabile inconciliabilità, dovuta, come prima accennavo, alla tensione prodotta dal desiderio di un pieno compimento di per sé irraggiungibile, se ha indubbiamente prodotto anche effetti positivi, è la causa principale delle illusioni prodotte dai fanatismi e dalla violenza presenti in tutta la storia dell’umanità. In questo contesto, si tendono ad ignorare le conseguenze negative dell’agire umano (ad esempio la diseguale distribuzione delle risorse, i danni prodotti all’equilibrio ecologico ecc.) e, inoltre, viene favorita la logica della competitività e della sopraffazione dell’altro, dando luogo alle diverse forme di esclusione e di misconoscimento, lesive dell’autonomia individuale e cause di innumerevoli reazioni distruttive. Per dirla in breve, la ricerca del bene è, per me, unita indissolubilmente all’accettazione dei limiti e della precarietà della situazione esistenziale, alla volontà, spesso anche gioiosa, di vivere quest’ultima nel suo senso proprio.

Negli ultimi anni, il dibattito pubblico e scientifico si è concentrato su quella che è stata definita da Luca Ricolfi (2002) come «l’eclissi della politica». La crisi dell’impegno sociale nella sfera pubblica sembra aver accompagnato un prevalere di soluzioni individuali a problemi collettivi. Di recente, però, stanno emergendo segnali di rinnovato impegno civico e protesta sociale, anche da parte di quella che Ilvo Diamanti (1999) aveva definito la «generazione invisibile» e che, ora, prendendo le distanze dalla scena tradizionale della democrazia rappresentativa, sta adottando nuove forme di dissenso e di partecipazione sociale. Si tratta di fenomeni impulsivi di antipolitica, come qualcuno sommariamente li definisce, o possiamo leggerli come forme di ripoliticizzazione della sfera civile, che incarnano nuove e più radicali istanze di democrazia partecipativa, andando oltre le tradizionali forme della politica e assumendo inedite modalità di impegno sociale?

L’eclissi della politica nasce dalla povertà delle risposte date in questi anni dai partiti e dalle altre istituzioni politiche, dal disorientamento nato dalla crisi dei grandi racconti ideologici e dalla mancanza di nuove prospettive che siano sufficientemente articolate per risultare convincenti e produrre consenso.

Vi è certamente un diffuso desiderio di un nuovo impegno: da un lato, le forme di volontariato presenti un po’ dappertutto nel mondo, contro la fame, la miseria, le ingiustizie, i pregiudizi razziali, per la difesa della condizione delle donne e degli omosessuali, contro il degrado ambientale ecc. I nuovi movimenti degli indignados o quelli dell’antipolitica sono sicuramente nuove forme di mobilitazione politica ed espressione di una volontà di partecipazione più diretta alla sfera pubblica. Il problema, tuttavia, è che, almeno per il momento, sembrano mancare organismi partitici e istituzionali in grado di tradurre tali reazioni ed esigenze in progetti politici di tipo democratico. Il rischio in questa situazione, considerato anche l’alto tasso di disoccupazione, è che la protesta venga convogliata e strumentalizzata dalle peggiori forme di populismo.

Qualche anno fa, Lei ha pubblicato insieme a Serge Moscovici il volume Solidarietà in questione. Da una parte, il processo di globalizzazione in atto, dall’altra, l’affermazione di particolarismi e pluralismi – etnici, religiosi, culturali in genere –, unitamente al tramonto di punti di riferimento di carattere più specificamente trascendente, impongono una rilettura dei fondamenti della solidarietà sociale. Quali sono, a suo avviso, le nuove forme di solidarietà nelle società complesse, alla luce dei cambiamenti sociali, economici e culturali degli ultimi anni?

In parte, credo di avere già risposto a questa domanda con quello che dicevo prima. Forme di solidarietà spontanea, come nel caso del volontariato, o anche nei nuovi movimenti di protesta, sono certamente presenti, ma un grande lavoro resta da fare per consolidare tali forze in nuove forme di attività e partecipazione politica. Un approfondimento delle basi della solidarietà penso debba venire da una nuova consapevolezza delle comuni condizioni della situazione esistenziale (come ha sottolineato l’antropologo Marc Augé, le domande che emergono in ogni tipo di società sono sempre le stesse, mentre diverse sono le risposte culturali), tenuto conto del carattere riduttivo delle identità culturali, della dimensione costitutiva dell’intersoggettività e della dinamica del riconoscimento reciproco, nella linea di Axel Honneth, di Lucio Cortella e altri. È il problema al quale mi sono quasi interamente dedicato in questi ultimi anni.

Nella «società dell’incertezza», per dirla alla Bauman (1999), in cui il mutamento accelerato, «il fluire incessante della vita», citando Simmel (1900), e le continue e costanti trasformazioni tecnologiche, sociali e culturali sembrano mettere profondamente in crisi i tradizionali punti di riferimento, nonché le relative categorie interpretative, quali sono, secondo Lei, le forme e le modalità di costruzione sociale delle identità individuali e collettive?

La rapidità e la frequenza delle trasformazioni dovute non solo allo sviluppo delle nuove tecnologie, in particolare di quelle delle comunicazioni via Internet, ma anche alla fine dei grandi racconti ideologici e alle ripetute crisi economiche, hanno prodotto e stanno producendo un diffuso e profondo disorientamento riguardo alle identità individuali e collettive, le cui conseguenze non sono facilmente prevedibili. Il rischio principale mi sembra sia quello che, per reazione, come sta succedendo da più parti, si regredisca, a livello individuale, verso forme immunitarie caratterizzate dalla chiusura nel privato e, a livello collettivo, verso identità di tipo comunitario ed etnico-religioso che dissolvono ogni possibilità di solidarietà generale e il rispetto del pluralismo e del diritto alla differenza. Segnali positivi sembrano, d’altra parte, rappresentati dai diversi movimenti di volontariato e di contestazione, in grado di produrre nuove forme di aggregazione sociale, cui prima mi riferivo.

A proposito delle identità individuali, è interessante quanto osservato da Ulrich Beck circa il fatto che oggi il processo di individualizzazione non sembra andare disgiunto dalla consapevolezza che «si deve inventare la propria intersoggettività per essere un individuo. Non è una società di Robinson Crosué nella quale ciascuno pensa solo a sé. È il contrario. È nell’esperienza quotidiana che troveremo una nuova etica che connette la libertà personale con il coinvolgimento con gli altri e questo persino su una base transnazionale» (Beck-Gernsheim Individualization, London, 2003). Nella stessa direzione, anche Danilo Martuccelli, sulla base di una sua ampia ricerca (La société singolariste, Paris, 2010), ha rilevato che l’attuale esperienza della propria singolarità, nel momento stesso in cui rivendica la sua differenza, è anche profondamente socializzata: «l’individuo tende a percepire se stesso come prodotto e come sostenuto da uno zoccolo sociale particolare senza il quale egli non può neppure concepire se stesso». Questi dati indicano che esistono concrete possibilità di trovare nuove forme di definizione delle identità individuali e collettive che vanno senza dubbio incoraggiate.

  • Articolo
  • pp:183-196
  • DOI: 10.1485/AIS_1_2013/INTERVISTA
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