1. Giovani laureati in Scienze Sociali nel mercato del lavoro
Nel 2010 i giovani laureati in scienze sociali, residenti nelle regioni del Nord Italia[1], avevano un tasso di occupazione del 69,6% contro il 73,1% della media dei laureati. Il tasso di disoccupazione, in crescita negli ultimi tre anni, aveva raggiunto l’8,9% contro il 7,6% del totale dei laureati.
Una percentuale leggermente inferiore alla media aveva un contratto a tempo indeterminato (73% contro 74%); superavano la media i lavoratori e le lavoratrici part-time (21% contro 14%) e i collaboratori a progetto (8,4% contro 6,1%). Solo il 65,5% svolgeva una professione ad alta specializzazione o tecnica, contro il 73,7% della media dei laureati in quella fascia di età. Numerosi (29,4%) gli impiegati generici. Se si esclude quel 3,2% (percentuale quasi doppia di quella della media dei laureati) che si trovava in una posizione imprenditoriale o dirigenziale e che guadagnava più di 2000 euro al mese, tutti gli altri, specializzati e non, guadagnavano poco più di 1000 euro.
Tra questi giovani laureati di cui ho sommariamente descritto la posizione nel mercato del lavoro, ci sono, insieme ai laureati in psicologia, scienze politiche, cooperazione internazionale, antropologia, beni culturali, anche i laureati in Sociologia.
Tutto si può dire meno che il mercato del lavoro della parte più ricca e sviluppata del paese riservi a questi laureati buone e abbondanti opportunità di lavoro. E i dati del 2011 e del 2012, con tutta probabilità, registreranno un peggioramento ulteriore della situazione. Non è difficile dare una spiegazione convincente di questa difficile situazione del mercato del lavoro sul versante della domanda. Basta dare uno sguardo alle professioni che i laureati in scienze sociali svolgono e ai settori in cui sono prevalentemente occupati.
Poco meno del 50% dei laureati si concentra in tre aree professionali: educazione e ricerca (15% circa), professioni sociali (12,6%), consulenza, organizzazione aziendale, informatica (17,9). I settori di occupazione rispecchiano questa composizione professionale: solo l’11% lavora nell’industria; il 29,5% è occupato nei settori educativo e sanitario; il 6,7% lavora nella Pubblica Amministrazione; il 30% è nel settore dei servizi alle imprese. Del tutto marginale l’occupazione in altri settori economici.
Dunque, la scarsità della domanda di lavoro per le professioni sociali si spiega in larga misura con il fatto che l’Italia è un paese sottoterziarizzato perché le imprese medio-grandi che potrebbero chiedere servizi avanzati sono troppo poche e le piccole non dispongono di una rete di servizi appropriati, perché i servizi di welfare non hanno mai raggiunto la dimensione e la complessità organizzativa raggiunta in altri paesi, perché i settori della formazione e della ricerca erano in difficoltà già prima che la grande crisi arrivasse. E questa crisi, le cui conseguenze occupazionali cominciavano ad essere evidenti fin dal 2010, non ha fatto altro che aggravare la situazione. Le imprese hanno ridotto la loro domanda di servizi, la pubblica amministrazione ha bloccato le assunzioni e sono emerse le prime gravi conseguenze occupazionali indirette della drastica contrazione della spesa pubblica. Le organizzazioni del terzo settore che hanno retto bene il primo urto della crisi ora soffrono dei ritardati pagamenti da parte delle amministrazioni pubbliche per cui lavorano e vedono a rischio gli appalti futuri.
Ma ci sono alcune caratteristiche della composizione dell’occupazione che segnalano problemi non trascurabili anche sul versante dell’offerta. I laureati in scienze sociali, compresi i laureati in Sociologia, quando non svolgono attività del tutto incoerenti con il proprio titolo di studio, esercitano un’ampia gamma di professioni che condividono un significativo nucleo di competenze comuni: conoscenza dei principali settori delle scienze sociali con approfondimenti nell’uno o nell’altro campo a seconda del corso di laurea frequentato, buona padronanza di metodi e tecniche di ricerca empirica qualitativa e quantitativa, capacità di progettazione, flessibilità, orientamento alla relazione, pensiero concettuale. Non è un caso che si trovino a competere per le stesse posizioni laureati in Scienze Politiche, in Sociologia, in Antropologia, in Scienze Internazionali, in Psicologia ecc. e che i datori di lavoro facciano poca differenza tra l’una e l’altra specializzazione, e addirittura tra laureati triennali e magistrali, quando si tratta di reclutare una persona per l’ufficio del personale, piuttosto che per l’area progettazione, o per il marketing. Negli anni seguiti all’avvio del processo di Bologna, l’università italiana, e le facoltà umanistiche in particolare, hanno dato vita a un numero straordinariamente elevato di corsi di laurea triennali e magistrali, segmentando l’offerta di lavoro in una direzione che poco o nulla aveva a che fare con le richieste di innovazione provenienti dal mondo del lavoro[2]. È così fiorita una ricca nomenclatura di corsi di laurea e di nuove professioni che hanno reso più confusa l’offerta di competenze in uscita dall’università e che hanno talvolta incoraggiato i giovani ad intraprendere percorsi di studio apparentemente molto promettenti ma dagli esiti occupazionali effettivi quanto mai incerti. Secondo la banca dati del MIUR, nell’anno accademico 2010-2011 si sono laureati nell’area delle scienze sociali più di 30.000 giovani divisi in ben 25 classi di lauree triennali e magistrali.
L’area delle professioni sociali soffre dunque di uno squilibrio qualitativo e quantitativo tra domanda e offerta di lavoro che ben esemplifica il paradosso del mercato del lavoro dei laureati in Italia: un numero di laureati relativamente basso se comparato con quello di altri paesi europei ma troppo alto se messo in relazione con la dinamica della domanda di lavoro.
È da questo scenario che occorre partire se si vuole tentare una diagnosi realistica sul ruolo della Sociologia nell’università italiana e sul destino professionale dei laureati.
2. L’«inferma scienza» e il futuro professionale dei laureati in Sociologia
La Sociologia condivide con altre scienze sociali un processo di istituzionalizzazione tardivo e, più che per altre discipline, questo processo è avvenuto in maniera tumultuosa e discontinua in epoche diverse. Un primo balzo è avvenuto a ridosso dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta quando la Sociologia, che aveva nell’università italiana una posizione assolutamente marginale, divenne punto di riferimento dei movimenti e si propose come strumento scientifico di critica sociale, promettendo più di quanto non fosse in grado di dare in termini di conoscenza della società italiana. Di fatto, la molteplicità di statuti epistemologici che da sempre la caratterizzano, ma che in quegli anni generò aspri conflitti ideologici che ne segnarono la storia futura, e la sua diffusione rapida e non governata da una comunità scientifica capace di darsi regole condivise, ne hanno segnato il processo di istituzionalizzazione tanto da indurre un gruppo di studiosi e studiose che in quell’esperienza si stavano formando a usare già allora l’espressione che diede il titolo a un libro molto discusso: «l’inferma scienza» (Balbo, Chiaretti, Massironi 1975).
Il secondo balzo è avvenuto in concomitanza con una delle tante riforme dell’università italiana, realizzata con la legge n. 382 del 1980, quella che stabilizzò un organico cresciuto senza regole per far fronte all’aumento della popolazione studentesca che era avvenuto a partire dalla fine degli anni Sessanta. Via via che cresceva il numero dei sociologi presenti nelle università italiane, gli insegnamenti si strutturavano in indirizzi, poi in corsi di laurea, poi in facoltà. Il processo di istituzionalizzazione venne così a compimento senza che avesse preso forma e sostanza una «Sociologia professionale», per dirla con le parole di Burawoy (2005), ovvero senza che si fosse consolidata una comunità scientifica capace di rendere possibile un confronto serrato tra statuti epistemologici, scelte metodologiche, orientamenti teorici. Tutto ciò che può fare di una disciplina accademica una forma di sapere capace di interrogarsi sui suoi criteri di verità, sulle proprie regole deontologiche, sul proprio modo di chiedere e ottenere legittimazione pubblica. Non una comunità scientifica, dunque, ma un insieme di catene gerarchiche organizzate in fazioni, l’una contro l’altra armate[3], costituiscono ancora oggi il contesto relazionale in cui operano i sociologi accademici in Italia.
Per lunghi anni la relativa facilità con cui è stato possibile intraprendere una carriera accademica e la presenza di un mercato del lavoro pubblico e privato pronto ad accogliere laureati non hanno posto all’ordine del giorno il problema degli sbocchi professionali dei laureati in Sociologia, almeno nelle regioni del centro nord. I sociologi accademici, marginali o assenti in Facoltà come Ingegneria, Economia, Scienze della formazione, Psicologia, Lettere e Filosofia, si sono arroccati nelle Facoltà di Scienze Politiche e hanno dato vita a Facoltà di Sociologia o di Scienze, paghi di trovarvi ampi spazi di riproduzione della disciplina.
I nodi vengono al pettine ora, quando i tagli drammatici alla spesa per la ricerca e l’istruzione e la crisi che attraversa tutti i settori dell’economia pongono i sociologi italiani di fronte a scelte drammatiche.
Non era intento di Burawoy e del suo schema delle funzioni della Sociologia (2005) porsi il problema di cui stiamo discutendo, ma quel suo schema può aiutarci a fare un passo avanti nel ragionamento. Chiedersi come lavorano i sociologi, quali sono i loro metodi e i loro obiettivi, come si confrontano con i loro pubblici significa anche mettersi in grado di rispondere ai giovani che ci chiedono perché dovrebbero studiare la Sociologia e ai datori di lavoro che dovrebbero avvalersi delle loro prestazioni. Nel ragionamento di Burawoy, la Sociologia professionale – potremmo dire accademica, se non temessimo di sminuirne il valore – è il nucleo intorno al quale ruotano le altre funzioni. La Sociologia critica, la Sociologia applicata (policy sociology), e la Sociologia pubblica trovano il loro ancoraggio nel programma di ricerca della Sociologia professionale, nei suoi metodi, nelle sue teorie, negli interrogativi su cui fonda il proprio percorso di ricerca, nella sua deontologia. Vale per la Sociologia critica, sia quando essa svolge il suo ruolo riflessivo verso l’interno della disciplina, sia quando si propone come sapere critico nei confronti dei processi sociali in cui tutti quanti, chierici e laici, siamo immersi. Se non c’è condivisione e legittimazione dei «fondamentali», sia pur provenienti da diversi statuti epistemologici, la critica diventa rapidamente ideologia senza fondamento e invettiva senza legittimazione.
Vale per la Sociologia applicata se il rapporto con la committenza non è un rapporto ancillare ma una prestazione professionale sicura dei suoi fondamenti e dei suoi strumenti.
Vale per la Sociologia pubblica se non si vuol giocare a fare gli imbonitori o i giullari, facilmente sostituibili con altri imbonitori e giullari più graditi ai potenti o più capaci di affabulazione.
Tutto questo ha a che fare con i mestieri che i laureati in Sociologia possono fare fuori dall’università come facilitatori in processi di sviluppo locale, come esperti nella progettazione e gestione di banche dati, come formatori, come professional nelle aziende, come responsabili di uffici studi, e molto altro ancora.
Non si è affermata nel nostro mercato del lavoro la professione del sociologo sans phrase, come esiste la professione dello psicologo o dell’economista. Non c’è un albo a tutelarla. Ma ci sono molti ambiti professionali in cui è indispensabile saper porsi interrogativi di ricerca, saper progettare processi cognitivi utili per risolvere problemi, scegliere criticamente metodologie e tecniche di analisi, valutare politiche pubbliche ecc. Se il sapere che si produce attraverso la ricerca professionale e che viene trasmesso nei corsi di studio non è sottoposto al vaglio di una comunità scientifica capace di darsi statuti condivisi, di esercitare un adeguato controllo sociale sui suoi componenti e di comunicare il senso sociale del proprio lavoro, la sua utilità, è difficile che chi si presenta sul mercato del lavoro con una laurea in Sociologia, soprattutto in tempi difficili come questi, possa disporre di credenziali adeguate a sostenere la competizione.
Quanti sanno quali sono le competenze che ci si può aspettare da un laureato in Sociologia? Pochi. E tra questi, alcuni scoprono che cosa sa fare un sociologo dopo che lo hanno assunto perché lo hanno trovato brillante, come avrebbe potuto esserlo un laureato in filosofia, o in lettere classiche, o in qualche altra disciplina. Assunto non perché sa fare qualcosa ma perché dimostra di essere in grado di imparare.
E non si tratta di un problema di comunicazione. Una disciplina accademica senza regole, una folta schiera di sociologi di professione che non sono mai diventati una comunità scientifica, può elaborare un discorso pubblico, una capacità critica, un insieme di pratiche professionali riconoscibili, trasmissibili, comunicabili? Può una cronica «inferma scienza» trasmettere, valorizzare e comunicare il valore economico e sociale di competenze sociologiche che potrebbero irrobustire il potere analitico e trasformativo di molte professioni? Quanti nostri laureati escono dall’università avendo acquisito un embrione di identità professionale che li aiuti ad affrontare una competizione sempre più dura nel mercato del lavoro?
Suscita qualche interrogativo il fatto che quando si riapre il dibattito sullo stato di salute della disciplina questi interrogativi non siano quasi mai al centro della riflessione. Eppure i nostri interlocutori non sono soltanto i nostri colleghi o quei pochi studenti di dottorato a cui, peraltro, non siamo più in grado di offrire prospettive ragionevoli di carriera. Gli studenti non sono soltanto il pubblico disattento delle nostre lezioni. Sono anche coloro i quali sempre più, negli anni a venire, decideranno, con la loro scelta di iscriversi o non iscriversi ai nostri corsi e con il loro successo o insuccesso professionale, del futuro dei nostri corsi e del nostro lavoro.
3. I sociologi e la «terza missione» delle università
C’è una via di uscita a questa situazione di impasse? La si può forse cercare riflettendo su un importante cambiamento in atto negli atenei che li vede progressivamente allontanarsi dalla matrice humboltiana in cui si sono forgiati.
Chi di noi si occupa di sviluppo locale, di innovazione, di politiche del lavoro frequenta da anni una letteratura che declina il ruolo dell’università in questi processi secondo il modello della «terza missione». È ormai convinzione diffusa, infatti, che il rapporto tra ricerca e innovazione, tra formazione di capitale umano e sua valorizzazione nei processi di sviluppo è diventato in maniera generalizzata un rapporto di tipo sistemico. Non è sufficiente che l’università si occupi di ricerca e di didattica lasciando al mercato e allo stato il compito di trovare le connessioni operative perché i risultati della ricerca e della formazione si trasformino in energia capace di generare processi di sviluppo e innovazione. Le connessioni vanno costruite insieme tra università, imprese, enti locali, cittadini, organizzazioni del terzo settore, all’interno di processi cooperativi.
Nel fornire solide basi teoriche a questa impostazione convergono la teoria porteriana dei cluster (Porter 1990), la teoria marshalliana dei distretti (Pyke et al. 1990), l’approccio del milieu innovateur (Camagni 1991) che vede nel networking informale non solo il luogo in cui possono realizzarsi i processi di apprendimento ma anche lo strumento per fronteggiare l’incertezza e favorire processi decisionali a rischio, quali sono quelli orientati all’innovazione. E ancora, vanno nella stessa direzione costrutti teorici come quello della learning region (Storper 1997; Morgan, 1997) che enfatizza il ruolo delle relazioni fiduciarie tra imprese, persone, istituzioni nel favorire processi di apprendimento e quello dei local innovation systems (Cooke, Heidenreich and Braczyk 2004; Howells 1999) secondo il quale la generazione, lo scambio e l’utilizzo delle conoscenze possono aver luogo soltanto all’interno di sistemi di interazione complessi.
Il problema dello skill mismatch che assilla le nostre università e che produce spreco di risorse umane soprattutto in percorsi di studio come quelli in cui lavoriamo, e in cui non esiste una tradizione consolidata di rapporti tra domanda e offerta, può forse trovare risposte all’interno di questi modelli di interazione. Se si tratta di formare competenze che innervino professioni che hanno come minimo comun denominatore il fatto di essere coinvolte in processi di ingegneria sociale, di mediazione tra organizzazioni, di gestione di persone, il problema dell’analisi dei fabbisogni da cui far dipendere la programmazione degli accessi all’università e la definizione dei piani di studio non si pone in termini di misurazione di grandezze conosciute ma piuttosto in termini di costruzione di interazioni a due vie tra chi fa ricerca, chi progetta e realizza le politiche, chi gestisce processi organizzativi. È la ricerca applicata, la policy sociology di Burawoy, il terreno proprio in cui i sociologi possono cimentarsi per costruire un sapere sociologico capace di diventare sapere professionale per i giovani che entrano nel mercato del lavoro. Se ci si interroga su quali sono i fondamenti teorici della disciplina, i suoi strumenti metodologici e le tecniche utilizzabili per analizzare, progettare, facilitare processi di innovazione e di sviluppo, si pongono le premesse di una legittimazione del sapere sociologico, dell’affermazione di un suo ruolo critico e pubblico che possono sostenere anche l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani. E questa interrogazione serrata che i sociologi non sono riusciti finora a sviluppare tra le mura rassicuranti dell’università humboltiana può forse trovare nuovi luoghi in un’interazione diretta con gli attori sociali che animano i processi di sviluppo locale, facendosi contaminare dalle domande cognitive che scaturiscono dall’agire sociale. Potrebbe anche accadere che in quei luoghi di confine in cui si stanno ridisegnando i rapporti tra ricerca di base e ricerca applicata, tra ricerca e innovazione sociale, ritrovino senso le diverse funzioni della Sociologia e, tra queste, anche quella di accompagnare i giovani nel mondo del lavoro sostenuti da un sapere socialmente riconosciuto.
Riferimenti bibliografici
Balbo, L., Chiaretti, G. e Massironi, G. (1975), L’inferma scienza. Tre saggi sul processo di istituzionalizzazione della Sociologia in Italia, Bologna, il Mulino.
Burawoy, M. (2005), «2004 American Sociological Association Presidential Address: For Public Sociology», American Sociological Review, 70, 1, pp. 4-28 (trad. it. Sociologica, 1/2007, pp. 1-44, doi: 10.2383/24188).
Camagni, R. (ed) (1991), Innovation Networks: Spatial Perspectives, London, Belhaven.
Cooke, P., Heidenreich, M. and H., Braczyk (2004), Regional Innovation Systems. The Role of Governance in a Globalized World, London, Routledge.
Howells, J. (1999), «Regional Systems of Innovation?», in Archibugi, D., Howells J. and Michie, J. (eds), Innovation Policy in a Global Economy, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 67-93.
Luciano, A., Di Monaco, R., Negro, M., Pilutti, S. e Santi, R. (2012), Orientarsi nel mercato del lavoro 2012, www.atlantedelleprofessioni.it.
Morgan, K. (1997), «The Learning Region: Institutions, Innovation and Regional Renewal», Regional Studies, Vol. 31, 1997, pp. 491-503.
Porter, M. (1990), The Competitive Advantage of Nations, New York, Free Press.
Pyke, F., Becattini, G. and Segenberger, W. (eds) (1997), Industrial Districts and Inter-firm Co-operation in Italy, Geneva, International Institute for Labour Studies.
Regini, M. (a cura di), (2009), Malata e denigrata. L’università italiana a confronto con l’Europa, Roma, Donzelli.
Santoro, M. (2007), «Per una Sociologia professionale e riflessiva», Sociologica n. 1, pp. 1-19, doi: 10.2383/24199.
Storper, M. (1997), The Regional World, Territorial Development in a Global Economy, New York, Guilford Press.