AIS

2013/1

Formazione metodologica e professionalizzazione della Sociologia (Methodological training and the professionalization of sociology), di Maria Stella Agnoli


L’articolo affronta, per linee generali e limitatamente al caso italiano, alcune questioni relative alla specificità e alla valenza dell’insegnamento nella metodologia e nelle tecniche della ricerca sociale nel quadro più generale della formazione sociologica, e le relative ricadute sul piano dei processi di professionalizzazione della disciplina

La riflessione svolta si focalizza sui seguenti elementi analitici: il ruolo assegnato alla formazione metodologica e di ricerca empirica nell’ambito dei progetti istituzionali che hanno configurato i diversi livelli della formazione universitaria nel settore della Sociologia; l’effettiva offerta di insegnamenti metodologici e tecnico-operativi erogata nei corsi universitari attivati nelle classi sociologiche; le connessioni emerse, da attività di ricerca empirica, tra tipo di formazione universitaria e professionalizzazione della Sociologia.

Methodological Training and the Professionalization of Sociology

With regard to the Italian context, the article discusses in broad outline various issues concerning the specific nature and importance of teaching methodology and the techniques of social research within the general framework of sociology education, and the repercussions of such teaching for the professionalization of the discipline. We consider the following analytical elements: the role assigned to the teaching of methodology and empirical research in the institutional plans for the different levels of university education in the field of sociology; the actual range of methodological and technical-operational subjects offered in university-level sociology classes; the connections between different types of university education and the professionalization of sociology that have emerged from empirical research.

Introduzione

Nel quadro del complesso sistema delle relazioni che, attualmente e in prospettiva, è possibile individuare e analizzare tra Sociologia, professioni e mondo del lavoro, mi soffermerò sul ruolo rivestito dalla formazione sociologica, per la sua parte, all’interno di tale sistema. In particolare, focalizzerò l’attenzione su una componente specifica di essa, quella metodologica, accennando alle relative ricadute sul piano dei processi di professionalizzazione della disciplina e delle prospettive di inserimento professionale di laureati e dottori di ricerca che conseguono il titolo in questo settore formativo, quali sono prefigurate nell’offerta didattica istituzionale e quali emergono dalle conoscenze acquisite in tanti anni di studio e ricerca sistematica.

La riflessione si concentrerà sui seguenti elementi analitici:

a. il ruolo assegnato alla metodologia e alle strategie di ricerca sociale nell’ambito dei progetti istituzionali di formazione sociologica in Italia, nei tre cicli universitari, in vista degli apprendimenti attesi e degli sbocchi professionali previsti;

b. il volume e le caratteristiche dell’effettiva offerta di formazione metodologica e tecnico-operativa erogata nell’ambito dell’attuazione dei suddetti progetti, per come è stato possibile rilevarli nei regolamenti didattici dei corsi universitari attivati nelle classi sociologiche;

c. i risultati di alcune indagini realizzate su campioni di laureati in Sociologia, con particolare riguardo per quelli che vertono sulle connessioni emerse tra tipo di formazione e tipo di inserimento professionale.

A premessa e introduzione del primo elemento in esame, intendo esplicitare la mia adesione a «una certa idea»[1] della Sociologia come scienza empirica fondata sulla relazione coniugata tra teoria sociale, metodologia e ricerca: tale concezione impronta la disamina che segue e ne costituisce la chiave di lettura. Si tratta del tipo di Sociologia che Raymond Boudon, nella conferenza inaugurale svolta nel 2001 presso la European Academy of Sociology (Boudon 2002), ha designato come cognitiva o scientifica, nell’ambito dei quattro «generi ideal-tipici», principali e stabili, di programmi che si sono affermati sotto l’etichetta Sociologia nel corso dello sviluppo della disciplina[2]. Secondo lo stesso Boudon, proprio la presenza minoritaria di questo genere nella produzione sociologica contemporanea potrebbe spiegare «l’impressione che molti sociologi hanno di una disciplina in stato di decomposizione» (ibidem).

Intervenendo a sua volta sullo stato di crisi della Sociologia – a livello mondiale, in termini di immagine, di reputazione, di riconoscimento pubblico della sua utilità, di sviluppo – John Goldthorpe ha concordato con Boudon in merito alla necessità di un rilancio della Sociologia scientifica e, dal suo punto di vista, di una sua stretta integrazione con la Sociologia camerale (Goldthorpe 2004). Tra i fattori a suo avviso responsabili dello stato di disordine generale e della tendenza a un costante peggioramento della disciplina, Goldthorpe ha segnalato anzitutto la mancanza di integrazione fra teoria e ricerca – ciò che aveva già definito lo «scandalo della Sociologia» (Goldthorpe 1997) – e lo scarso sforzo fatto dai sociologi per rispondervi (Goldthorpe 2000). Ha segnalato inoltre come tutto ciò non sia percepito affatto come uno scandalo, denunciando contemporaneamente il fallimento collettivo dei sociologi «nel decidere che tipo di disciplina sia esattamente la Sociologia o, per lo meno, cosa dovrebbe cercare di essere» (Goldthorpe 2000, p. 30).

A tale diagnosi, ben più ricca e articolata di come qui sintetizzata, Goldthorpe ha fatto seguire una «proposta terapeutica» articolata in una serie di elementi, che in questa sede tralascio per soffermarmi solo su quello che ha un’immediata pertinenza con il tema qui in discussione. Si tratta della necessità di identificare un nucleo disciplinare forte della Sociologia che deve essere comunque conservato se si vuole che la disciplina continui ad esistere, unitamente alla convinzione che questo nucleo dovrebbe essere rintracciato, a livello istituzionale, nei programmi formativi e all’interno dei dipartimenti sociologici, anche essi ormai in crisi per reputazione, numero di studenti iscritti, fondi assegnati (ibidem, pp. 37-38).

Se si condivide «l’idea» della Sociologia come scienza empirica, ne discende che il suo nucleo forte debba essere costituito, organicamente, da componenti teoriche, metodologiche e operative, in relazione coniugata tra loro. È allora evidente la centralità che assume, nei programmi istituzionali di formazione sociologica, accanto ad una robusta e imprescindibile base di teoria sociale, una parimenti robusta formazione metodologica e di esperienza pratica nell’attività di ricerca, che ne costituisce un tratto distintivo. Su quest’ultima si focalizzerà l’analisi che segue.

1. Il disegno normativo della formazione sociologica

Se guardiamo al caso italiano ed esaminiamo cosa sia previsto relativamente alla formazione sociologica nell’attuale ordinamento universitario (DM 270/2004) con riferimento alle classi di laurea del settore, troviamo pienamente recepita questa istanza. In effetti, nella declaratoria delle classi di laurea triennali e magistrali di formazione sociologica è esplicitato a chiare lettere che tra gli obiettivi formativi qualificanti[3] figurano, per il primo livello (L-40 Sociologia), «possedere una buona padronanza del metodo della ricerca sociologica e di parte almeno delle tecniche proprie dei diversi settori di applicazione, in particolare con competenze pratiche ed operative, relative alla misura, al rilevamento e al trattamento di dati pertinenti l’analisi sociale». Parimenti, con riferimento alle lauree magistrali, si sottolinea che i laureati della classe (LM-88 Sociologia e ricerca sociale) devono possedere, tra l’altro, «competenze metodologiche avanzate relative alla misura, al rilevamento e al trattamento dei dati pertinenti la ricerca sociale, e più in generale all’analisi del funzionamento delle società complesse in generale e in particolare in uno specifico settore di applicazione» (corsivo aggiunto). A tali fini si specifica anche, nei rispettivi decreti istitutivi, che i curricula destinati alla formazione sociologica devono prevedere «in ogni caso», in entrambi i livelli, attività finalizzate ad acquisire, tra l’altro, «i metodi propri della Sociologia nel suo complesso […]». In riferimento a profili formativi così corredati, negli stessi decreti si individuano, tra gli sbocchi professionali prospettati, per i corsi di laurea «attività professionali di esperti di metodi e tecniche della ricerca sociale», e per i corsi di laurea magistrale «attività professionali di consulenza specialistica nella ricerca sociale» (cfr. DDMM 16/3/2007).

2. L’offerta universitaria di formazione metodologica

E veniamo dunque al secondo elemento di riflessione, che concerne il volume e le caratteristiche dell’effettiva offerta di insegnamenti metodologici e tecnico-operativi finalizzati al conseguimento dei suddetti obiettivi formativi qualificanti, quali sono stati registrati nell’università pubblica italiana, ai vari livelli della formazione superiore.

Ebbene: l’analisi condotta qualche anno fa in relazione alle lauree triennali (Agnoli 2009)[4] e a quelle specialistiche/magistrali (Fasanella 2009)[5], in occasione di un convegno sull’insegnamento della metodologia delle scienze sociali[6], dava conto dei seguenti risultati.

A) Nelle lauree triennali:

· sul piano quantitativo, l’offerta di formazione metodologica risultava assai eterogenea e variabile per numero di insegnamenti/moduli didattici a ciò dedicati, nonché per numero di crediti formativi assegnati nei curricoli a tali insegnamenti. Riguardo ai crediti, si è infatti registrato un campo di variazione compreso tra 4 e 12, per gli insegnamenti obbligatori, e variante da 3 a 9 per quelli opzionali. Nel complesso, la formazione metodologica comune ai laureati della classe registrava un’incidenza sul totale dei crediti necessari per conseguire la laurea (180) variante dal 3,3% al 13%. Solo in alcuni corsi di laurea, tale incidenza aumentava in ragione dell’innesto sul percorso comune di alcuni indirizzi che integravano la formazione metodologica di base[7] (Agnoli 2009, pp. 37-39);

· sul piano qualitativo, inerente i contenuti dei programmi degli insegnamenti metodologici analizzati in base a quanto riportato nelle relative schede illustrative, per come desumibili dai siti delle rispettive strutture accademiche di afferenza, si è rilevata la rarità dei casi in cui la formazione metodologica riusciva a coprire l’intero ciclo della ricerca sociale empirica, dalla progettazione all’analisi dei dati;

· sul piano degli approcci o strategie di indagine, si è evidenziato il netto sbilanciamento della formazione metodologica, a seconda delle sedi, sul fronte della ricerca standard ovvero su quello della ricerca non standard, nella rinuncia quindi, da parte di numerose strutture formative, a valorizzare appieno la varietà delle strategie e degli approcci cognitivi e operativi che si sono affermati nel campo della ricerca sociale empirica, nella prospettiva della pari dignità e della reciproca integrazione (Agnoli 2009, pp. 39-50).

B) Nelle lauree specialistiche/magistrali:

· sempre sul piano dell’offerta di insegnamenti nella metodologia della ricerca sociale, si è rilevata una netta distinzione – si badi bene, a parità di obiettivi formativi qualificanti della classe – tra percorsi di studio nella cui denominazione figurava un richiamo esplicito alla ricerca sociale[8], e corsi della medesima classe nella cui intestazione, al contrario, non compariva alcun riferimento al riguardo[9]. Nei primi, l’insegnamento metodologico registrava un campo di variazione – in termini di cfu dedicati – amplissimo, compreso tra 8 cfu e oltre 50 cfu; negli altri, alla formazione metodologica risultava assegnato un numero assai basso di crediti, compreso tra 3 e 12, superiore a 12 solo in pochi casi (Fasanella 2009, pp. 171-177).

Anche con riferimento ai contenuti degli insegnamenti metodologici nelle lauree di secondo livello, pur non essendo stata condotta un’analisi puntuale dei programmi dei singoli corsi, era risultata desumibile una considerevole varietà, a partire dalle stesse denominazioni dei moduli didattici attivati (Giuliano 2009).

In conclusione, gli studi mettevano in luce una diffusa debolezza della formazione metodologica nei corsi di laurea sia triennali che specialistici/magistrali di classe sociologica, in numerosi casi in netta divaricazione con gli obiettivi formativi qualificanti delle stesse classi di riferimento, a dimostrazione di «una certa idea» della Sociologia ben lontana dal modello della scienza empirica, per di più in un panorama troppo diversificato per riconoscere in quell’offerta nuclei comuni, qualificanti e distintivi di formazione sociologica[10]. Non si può ovviamente escludere che un tale tipo di formazione fosse incorporato nelle effettive pratiche di insegnamento di moduli didattici diversamente intestati, ma le informazioni disponibili non erano adeguate al controllo di tale eventualità. In occasione del medesimo convegno, non è stata affrontata un’analisi parimenti sistematica dei programmi di formazione dottorale, ma ci si è limitati alla presentazione e all’illustrazione di alcuni soltanto di essi, tutti caratterizzati da un definito impegno formativo nella metodologia e nelle strategie di ricerca sociale.

Ai corsi sociologici di dottorato di ricerca, a come sono strutturati sul piano del disegno formativo e della programmazione delle relative attività formative, a come si stiano preparando ad affrontare le già avviate iniziative di riforma ministeriale, l’Ais ha recentemente dedicato un apposito seminario di studio[11]. In quella occasione, è emersa nitidamente la varietà delle strutture – ancora! – esistenti al livello della formazione dottorale sociologica, in ordine ad obiettivi qualificanti e offerta formativa; quest’ultima è risultata per buona parte carente quanto a programmazione formalizzata di attività istituzionali specificamente corrispondenti all’obiettivo prioritario del ciclo dottorale.

In particolare a questo livello, infatti, la formazione metodologica costituisce il nucleo centrale di ogni disciplina: nel quadro normativo che lo ha istituito[12], il dottorato di ricerca è stato valorizzato quale titolo accademico valutabile unicamente nell’ambito della ricerca scientifica, specificamente finalizzato «all’approfondimento delle metodologie per la ricerca e nei rispettivi settori della formazione scientifica», e concepito come canale istituzionale privilegiato per la formazione e per il reclutamento di personale ricercatore da destinare all’intero sistema scientifico. Anche nell’attuale quadro di riforma, tra gli obiettivi di apprendimento attesi in relazione al dottorato di ricerca – concepito come terzo ciclo della formazione universitaria – figura al primo posto «la sistematica comprensione di un settore di studio e la padronanza del metodo di ricerca ad esso associato», seguita dalla «capacità di concepire, progettare, realizzare, adattare un processo di ricerca con la probità richiesta allo studioso e di svolgere ricerca originale che ampli la frontiera della conoscenza»[13].

Anche in questo caso, può farsi valere la considerazione che una formazione metodologica possa comunque essere incorporata nelle pratiche didattiche e negli approfondimenti tematici realizzati nell’ambito dei programmi dottorali, pur non figurando nel quadro delle attività svolte. Resta in ogni caso aperta la questione qui di seguito sollevata: se si concepisce il dottorato di ricerca come terzo livello della formazione universitaria e nel contempo si assume che questo posizionamento ordinale non corrisponda ad una mera sequenza di carattere temporale, bensì alluda al progetto del livello «più avanzato» della formazione «nei settori in cui è sviluppata una specifica, ampia qualificata e continuativa attività di ricerca»[14], allora è necessaria l’individuazione di modalità di raccordo con l’attività formativa che si svolge ai precedenti livelli, quello delle lauree e quello delle lauree magistrali, rispetto ai quali il dottorato possa effettivamente garantire una progressione riconoscibile nell’avanzamento e nell’approfondimento delle conoscenze, delle abilità e delle competenze[15].

In conclusione, risulta evidente come il garantire un’adeguata offerta didattica nella metodologia e nelle diverse strategie della ricerca sociale, in quanto costitutiva della specificità della formazione sociologica ad ogni livello, costituisca una precisa responsabilità istituzionale delle strutture universitarie a ciò deputate, sì da porre le condizioni necessarie non solo ad assicurare la riproduzione e lo sviluppo della disciplina come scienza empirica, ma anche a permettere a quanti si indirizzano verso questi studi di acquisire una serie di competenze logico-procedurali e tecnico operative di tipo non generico, variamente valorizzabili nel mondo del lavoro.

3. Formazione universitaria e processi di professionalizzazione

Dai risultati di un programma pluriennale di ricerca – avviato per impulso di Gianni Statera presso il Corso di laurea e poi presso la Facoltà di Sociologia di Roma, fin dall’istituzione del corso stesso nel 1971, e portato avanti fino alla fine degli anni Novanta – è emerso che percorsi universitari orientati a valorizzare alcuni tratti specifici e distintivi della formazione sociologica, laddove perseguibili ed effettivamente perseguiti, sono suscettibili di valorizzazione anche sul piano dell’inserimento professionale.

Veniamo così al terzo ed ultimo elemento di questa analisi, che concerne i risultati di alcune indagini realizzate su campioni di laureati in Sociologia, limitatamente all’associazione emersa tra orientamenti/strategie individuali di formazione e opportunità di inserimento professionale. Qui di seguito saranno richiamati, in particolare, quelli che hanno fornito una chiave di lettura concettuale dei processi di professionalizzazione che hanno interessato diverse coorti di laureati italiani in discipline sociologiche[16].

Si fa qui riferimento alla tipologia – elaborata a seguito della sola indagine sul tema finora condotta nella prospettiva del breve, medio e lungo periodo (si veda Agnoli e Fasanella 1999) – alla quale è stata ricondotta la varietà dei percorsi di inserimento lavorativo che si è avuto modo di rilevare e di analizzare, e che si presume possa costituire tuttora un proficuo strumento di analisi del rapporto tra Sociologia, professioni e mondo del lavoro – fidando nella minore deperibilità delle astrazioni operate a partire da dati empirici rispetto al contenuto meramente descrittivo dei dati stessi. I processi di professionalizzazione individuati sono riconducibili a:

a.         valorizzazione di competenze sociologiche per sviluppo verticale = riferibile a ruoli/figure professionali ad alto livello di qualificazione, caratterizzati da skills specificamente riferibili alla formazione sociologica conseguita, in ambiti coerenti di attività (sociologo professionista);

b.         valorizzazione di competenze sociologiche per diffusione orizzontale = riferibile a ruoli/figure professionali ad alto livello di qualificazione, ma di altra matrice disciplinare (insegnanti/formatori, giudici, dirigenti ministeriali/aziendali ecc.), sostenute nel loro esercizio da alcune competenze specificamente attribuibili alla formazione sociologica (professionista sociologo);

c.         dequalificazione/dispersione di competenze sociologiche = riferibile a ruoli/figure occupazionali a basso livello di qualificazione, operanti in ambiti di attività non coerenti con la formazione sociologica (occupato generico) (Agnoli 1999).

Per ciascuno di questi processi è stato possibile individuare un set di variabili indipendenti significativamente associate, con funzione illustrativa, interpretativa ed esplicativa. Molto sinteticamente, queste variabili sono state classificate in fattori di input (genere, età, formazione medio superiore, condizione occupazionale e residenziale durante gli studi, status socio-economico e culturale della famiglia d’origine, motivazioni alla scelta degli studi), nonché – ed è appunto ciò che qui ci interessa sottolineare – in fattori di throughput (orientamento formativo, fruizione dell’università, aspettative professionali, riuscita accademica).

Ferma restando la significativa rilevanza di numerose variabili di ingresso – per le quali si rinvia direttamente allo studio citato (Agnoli 2009) –, tra le variabili di processo, peraltro fortemente associate l’una all’altra, vanno segnalate, in particolare, la fruizione dell’università e l’orientamento impresso al percorso formativo. Avendo classificato gli intervistati – a seguito delle ormai tradizionali procedure e tecniche di analisi multivariata – in opportunisti, generalisti e specialisti, in funzione delle numerose variabili inerenti l’area del percorso formativo e della fruizione dell’università (Mauceri 1999), è emerso che sono stati gli specialisti ad aver riscontrato nel tempo, dopo il conseguimento della laurea, maggiori possibilità di inserimento lavorativo e nel complesso una migliore riuscita sociale. Gli elementi di questo cluster sono risultati caratterizzati dall’aver scelto gli studi sociologici sulla base di specifiche aspettative formative e professionali legate alla disciplina; da una regolare fruizione dell’università; dall’aver ricercato e valorizzato nel corso degli studi universitari e successivamente al conseguimento della laurea ogni opportunità presentatasi di essere formati e impegnati nella progettazione e realizzazione di indagini empiriche; dall’aver finalizzato il piano degli studi e la tesi di laurea ad un futuro sbocco professionale per il quale la formazione sociologica acquisita potesse costituire un elemento di specificità. Quanto al profilo degli opportunisti, interessati alla mera acquisizione del titolo universitario, e a quello dei generalisti, orientati ad espandere le proprie conoscenze ad ampio spettro, ovvero ad acquisire solo un titolo in più,ad entrambi sono risultate associate possibilità di inserimento lavorativo non solo minori, ma anche di più basso livello di qualifica[17] (Agnoli 1999).

In definitiva, in particolare dallo studio longitudinale sopra citato, è emerso chiaramente che il processo di professionalizzazione dei laureati di area sociologica si è configurato come il risultato dell’operare congiunto di una serie di fattori:

1. le caratteristiche dell’offerta di formazione sociologica effettivamente erogata (e ciò rinvia alla responsabilità istituzionale delle strutture didattiche);

2. le strategie individuali di formazione e di qualificazione pre- e post lauream (e ciò rinvia alla responsabilità individuale di quanti intraprendono gli studi universitari nel settore sociologico): da cui, più specialismo = migliore riuscita sociale;

3.   le opportunità individualmente ricercate, da parte dei laureati nel settore, di valorizzare nel mondo del lavoro le competenze acquisite nel percorso universitario e di esercitare le abilità connesse: da cui, più soggettività nell’offerta e nell’esercizio professionale = migliore riuscita sociale.

Oltre a ciò, gli studi realizzati hanno messo in risalto un ulteriore fattore rilevante nella configurazione del sistema delle relazioni che si è sviluppato tra formazione sociologica, professioni e mondo del lavoro nel corso del processo di istituzionalizzazione della Sociologia in Italia: si tratta del sistema delle opportunità effettivamente disponibili, all’interno degli ambiti lavorativi esperiti dai laureati in Sociologia, di occupare o di potenziare spazi di professionalità specifici: da cui, minore rigidità degli ambiti operativi = migliore riuscita sociale.

Infatti, oltre all’impossibilità, da parte di una quota consistente di laureati in Sociologia, di avvalersi in alcun modo di competenze sociologiche all’interno di pratiche professionali assolutamente non coerenti con gli studi fatti, si è riscontrata anche la difficoltà di esercitare la professionalità sociologica da parte di altri laureati, occupati, sì, in attività coerenti con gli studi seguiti e anzi, in qualche caso, addirittura con la specifica qualifica di sociologo, tuttavia in contesti di lavoro nei quali l’esplicazione di competenze sociologiche risultava di fatto impedita da accentuate rigidità operative (in particolare, di coordinamento e di rapporto tra apparati e figure professionali), da divaricazione tra compiti istituzionali ed effettive richieste di competenze, da burocratizzazione accentuata.

Per ciò che interessa nella presente occasione, c’è comunque da registrare che nella valorizzazione congiunta della specificità e dei caratteri distintivi della formazione sociologica da parte delle strutture didattiche e da parte dei relativi utenti possiamo collocare quel valore aggiunto in grado di contribuire, significativamente, alla realizzazione dei percorsi professionali che abbiamo caratterizzato sia come valorizzazione per sviluppo verticale di competenze sociologiche, sia come valorizzazione di competenze sociologiche per diffusione orizzontale.

4. Riflessione a margine

A conclusione di questa analisi occorre segnalare che laddove, nell’offerta formativa, sia a livello triennale che a livello magistrale, si siano caratterizzati percorsi/orientamenti/indirizzi dichiaratamente – vale a dire anche nelle denominazioni – centrati sulla formazione metodologica e nella ricerca sociale, lì stesso si sono registrati, nel tempo, livelli via via decrescenti di attrattività, indicati dalle percentuali di quanti, fra gli iscritti a corsi di studio sociologici, hanno scelto quel tipo di indirizzo – nelle triennali – o si sono immatricolati a quel tipo di laurea magistrale: si tratta di percentuali risultate inferiori a quelle registrate relativamente ad altri curricoli formativi caratterizzati con riferimento ad ambiti sostantivi, nel quadro della medesima offerta didattica[18]. Questo reperto richiede un ineludibile supplemento di riflessione e di produzione di nuova conoscenza, che riguardi, insieme all’andamento dell’offerta di formazione sociologica[19], anche la stessa immagine pubblica della Sociologia e della sua utilità sociale; i canali di formazione delle conoscenze che i giovani e le loro famiglie possiedono sui contenuti e le prospettive occupazionali dei corsi di studio universitari offerti nel settore delle classi sociologiche[20]; le motivazioni che orientano nella scelta di questo tipo di formazione un numero ancora consistente di giovani, per quanto in progressiva diminuzione.

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1

Ho mutuato la locuzione da Lombardo (2009).

2

Oltre al programma/stile di lavoro tipico della Sociologia cognitiva o scientifica, Boudon ha caratterizzato quelli della Sociologia espressiva o estetica, della Sociologia critica o impegnata, della Sociologia camerale o descrittiva (si veda Boudon 2002).

3

Nel senso di obiettivi che devono essere comuni a tutti i corsi attivati nella classe, ferma restando la possibilità che ciascun corso possa anche caratterizzarsi per ulteriori obiettivi specifici.

4

Lo studio si è basato sulla ricognizione sistematica dei regolamenti didattici di tutti i corsi di laurea sociologici attivi nell’a.a. 2008/2009 (Classe 36 - Scienze Sociologiche, DM 509/1999 e poi Classe L40 - Sociologia, DM 270/2004), complessivamente 19.

5

Lo studio è stato condotto sui corsi di laurea specialistica di classe sociologica (Classe 89S/- Sociologia, DM 509/1999) attivi in Italia nell’a.a. 2007-2008, complessivamente 26.

6

Il Convegno, organizzato dal Consiglio scientifico della Sezione di Metodologia dell’AIS, si è svolto a Roma nel 2008, presso la sede centrale della Sapienza - Facoltà di Scienze statistiche.

7

Nel precedente ordinamento quadriennale unificato a 22 esami – 1991/2001 – i due insegnamenti metodologici obbligatori previsti dallo statuto del corso di laurea nel biennio propedeutico comune a tutti gli iscritti pesavano in misura del 9%.

8

Ad esempio, il corso in Sociologia e ricerca sociale avanzata attivato presso la Facoltà di Sociologia dell’Università Sapienza di Roma, ovvero quelli in Sociologia e ricerca sociale, attivati presso la Facoltà di Sociologia di Trento e quella di Scienze della formazione dell’Università di Roma Tre.

9

Ad esempio, il corso in Sociologia della salute e degli stili di vita, attivato presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, sede di Forlì, ovvero quello in Analisi e progettazione dei processi di sviluppo sociale, economico e culturale, della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Catania.

10

Senza entrare nel dettaglio dell’enorme varietà dei progetti formativi messi in campo con l’introduzione della riforma dei cicli universitari, possiamo dire che essa ha riprodotto la situazione in cui si era sviluppata l’offerta istituzionale di formazione sociologica nell’università italiana nel corso degli anni Settanta e Ottanta, accentuando ulteriormente il carattere di forte diversificazione dell’offerta che ha caratterizzato quel periodo, su tutti i piani: il contenuto degli insegnamenti, l’organizzazione e le modalità di erogazione della didattica, gli obiettivi formativi. Tant’è che, agli inizi degli anni Novanta, fu varata una riforma dell’ordinamento didattico dei corsi di laurea in Sociologia italiani che imponeva a tutte le sedi un ordinamento unico, articolato in un biennio di insegnamenti fondamentali, con ridottissimi margini di discrezionalità per le sedi, e in un successivo biennio, uguale per tutti i corsi di laurea, articolato in sei indirizzi, anch’essi comuni alle varie sedi, considerati semi- o quasi-professionalizzanti. Segnalo che questa riforma fu considerata una prima, necessaria risposta alle crescenti difficoltà mostrate dalla Sociologia istituzionalizzata nel comunicare efficacemente all’esterno, nel mondo del lavoro, i contenuti di un’area di competenza specifica, nella quale fosse possibile collocare la responsabilità sociale del sapere e del saper fare sociologico. L’incertezza del profilo formativo e professionale degli studi sociologici, infatti, era stata da più parti addebitata anche – da alcuni soprattutto – alla varietà dei progetti di formazione che erano stati messi in campo, considerata un fattore altamente responsabile della resistenza alla professionalizzazione che la Sociologia andava incontrando. Al localismo che aveva caratterizzato la prima fase si sostituì dunque un centralismo volto a proporre sul piano nazionale un modello unitario di formazione sociologica. Attualmente, la struttura ordinamentale delle classi sociologiche, prevedendo dei requisiti minimi comuni impostati su settori scientifico disciplinari che possono essere rappresentati dagli insegnamenti più disparati, ha favorito considerevolmente l’autonomia progettuale delle sedi, la quale ha prodotto un’offerta formativa ancor più differenziata che nel periodo del localismo marcato, se non altro per la connessa proliferazione delle stesse sedi della formazione sociologica prodotta dalla – cosiddetta – riforma del 3+2, passate dalle 6 coincidenti con le Facoltà di Sociologia del periodo pre-riforma alle 18 diverse facoltà che hanno attivato corsi di laurea sociologici in applicazione della riforma (Agnoli 2007a). Una ricostruzione dettagliata del processo di istituzionalizzazione della Sociologia in Italia e del corrispettivo andamento dell’inserimento professionale dei laureati è riportata in Agnoli (2007b).

11

Il convegno, su «La riforma dei dottorati di Sociologia alla luce del nuovo regolamento. Strategie di innovazione, adattamento, cambiamento», si è svolto il 27 aprile 2012 presso l’Università di Verona.

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Legge n. 28 del 1980, Testo Unico sul riordino delle Università, cui è poi seguito il decreto applicativo n. 382/1980.

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Il riferimento è alla declaratoria dei primi due – di cinque – Descrittori di Dublino previsti per il ciclo dottorale. Si veda, al riguardo, A Framework for Qualifications of the European Higher Education Area, Working Group on Qualifications Frameworks – Ministry of Science, Technology and Innovation, Bologna, Febbraio, 2005.

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Si veda lo Schema di Decreto del Miur del 27/9/2011 «recante criteri generali per la disciplina del Dottorato di ricerca» (e delle Scuole, ove istituite), nonché il Documento Anvur del 3/11/2011, Proposta su «Accreditamento delle sedi e dei corsi di dottorato», che da quello Schema riprende testualmente alcuni punti qualificanti, tra i quali quello appena citato.

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L’articolazione della formazione universitaria in tre livelli, stante la progettazione per cicli sequenziali di cui allo schema di Bologna che prevede l’evoluzione progressiva dei descrittori di apprendimento attesi, farebbe pensare ad un modello di formazione di tipo lineare, progressiva e cumulativa. D’altra parte, però, la riforma del “3+2” in “3 e 2”, nonché la modifica intervenuta nei criteri di accesso ai corsi di dottorato, prevedendo entrambe lo sganciamento formale dei livelli progressivi di formazione dal livello immediatamente precedente nella sequenza, alludono a un altro tipo di modello, quello che Antonio Fasanella – che ha introdotto la distinzione tra questi due modelli a proposito del rapporto fra laurea triennale e laurea specialistica – ha proposto di denominare di tipo circolare, caratterizzato da flessibilità, tanto quanto la rigidità caratterizzerebbe il primo (Fasanella 2009). In base al modello circolare, la formazione dottorale nel settore disciplinare sociologico – analogamente che in ogni altro settore – dovrebbe costituire un percorso formativo completo, potremmo dire autosufficiente, in sé compiuto, per di più a livello «avanzato». Per le medesime ragioni, altrettanto dovrebbe essere previsto a ciascuno dei livelli inferiori. La questione, di rilevante interesse, meriterebbe un adeguato approfondimento, stanti le potenziali ricadute sulla progettazione dell’intero ciclo della formazione sociologica. Su questo argomento, si veda anche, Giuliano 2009.

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I dati cui mi riferisco sono fermi alla fine degli anni Novanta. Oltre agli studi realizzati sui laureati romani (Statera 1980; Statera e Agnoli 1985; Moriconi e Pintaldi 1998; Agnoli e Fasanella 1999), vanno ricordati quelli sui laureati di Trento (si veda Chiari 1984; Gleria et al. 1992) e di Salerno (Pacifico 1993 e 1996), condotti nel medesimo arco temporale e ugualmente basati su fonti dirette. Dall’inizio del 2000, non mi risulta che siano state condotte altre indagini riguardanti l’inserimento lavorativo dei laureati in Sociologia basate su dati primari; per lo più, infatti, gli studi realizzati nell’ultimo decennio – almeno per quanto di mia conoscenza – consistono in rielaborazioni dei dati delle rilevazioni regolarmente effettuate sui laureati italiani dall’Istat e dal consorzio Alma Laurea. Personalmente, in occasione del Convegno dell’ESA che si è tenuto a Glasgow nel 2007, ho rielaborato i dati Istat del 2004 sulla rilevazione effettuata nel 2001, nonché i dati di Alma Laurea relativi alle prime leve di laureati triennali (2004 e 2005); si tratta però di dati comparabili con i precedenti solo relativamente alla condizione occupazionale dei laureati nel settore, senza la possibilità di ricondurre gli esiti alle caratteristiche dei contenuti formativi dei percorsi di studio, né alle motivazioni alla scelta degli stessi percorsi.

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I riscontri empirici della significativa associazione emersa tra tipo di formazione e profili occupazionali sono davvero numerosi: per essi si rinvia ad Agnoli (1999).

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Almeno questa è l’esperienza registrata presso la ex Facoltà di Sociologia di Roma e questa stessa è l’impressione ricavata dall’andamento delle iscrizioni ad altri corsi di laurea sociologici, rispetto al quale ci si è confrontati con colleghi di altre sedi nell’ambito della Sezione di Metodologia dell’Ais. Sarebbe opportuna una ricognizione sistematica su tutte le strutture di formazione sociologica in Italia per stimare quanto questi orientamenti di scelta siano effettivamente diffusi.

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A questo proposito, ritengo che l’Ais debba anche impegnarsi a monitorare i risultati del processo di trasformazione del sistema universitario italiano conseguente all’applicazione della legge Gelmini per quanto concerne il nuovo assetto dei dipartimenti e delle facoltà sociologiche: stanno complessivamente riducendosi le strutture di formazione intestate alla Sociologia, e si stanno cancellando, anche nei nomi, le conquiste istituzionali realizzate nel corso degli ultimi quaranta anni, a partire cioè dall’attivazione dei primi corsi di laurea in Sociologia nell’università pubblica italiana.

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A questo proposito, una particolare attenzione dovrebbe essere prestata alla rilevazione e all’analisi degli sbocchi occupazionali e professionali prospettati per i laureati dei corsi di studio sociologici nei testi illustrativi dei relativi ordinamenti didattici, nonché agli elenchi delle professioni ad essi associati, con riferimento alle codifiche dell’Istat.

  • Articolo
  • pp:155-166
  • DOI: 10.1485/AIS_1_2013/FOCUS_5
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