1. Introduzione
Questo lavoro presenta un’analisi sugli sbocchi professionali delle lauree sociologiche articolata in tre passi. Il primo è la descrizione degli esiti occupazionali dei loro studenti nel nostro paese (par. 2 e 3). Il secondo è il tentativo di spiegare i risultati emersi, leggendoli all’interno delle trasformazioni strutturali nelle caratteristiche della domanda e dell’offerta di lavoro qualificato in Italia (par. 4 e 5). Il terzo passo è trarre da questa diagnosi tre rimedi praticabili per migliorare l’occupabilità dei laureati in Sociologia (par. 6).
Conviene partire anzitutto da una breve premessa sulle definizioni operative e sui dati utilizzati. Verranno presi in considerazione solo i laureati in corsi di laurea sociologici, definiti sulla base della classe di corso di laurea, piuttosto che tutti i laureati delle facoltà di Sociologia, che notoriamente offrono anche altri corsi di laurea (ad esempio servizio sociale). Inoltre, questo lavoro userà i dati dell’indagine Almalaurea condotta nel 2011 sui laureati triennalisti del 2010 e sui laureati magistrali del 2008. Questi dati sono di tipo censuario e vengono rilevati con una metodologia integrata Cati-Cawi (Almalaurea 2013). Attualmente, Almalaurea è l’unica fonte aggiornata e disponibile su scala nazionale per i laureati del nuovo ordinamento. Inoltre, questa indagine presenta tassi di risposta elevati, piuttosto infrequenti nelle indagini sui laureati. Il suo limite maggiore è che Almalaurea copre il 90% degli Atenei italiani: nel restante 10% rientrano, in particolare, quelli lombardi, quindi, ad esempio, Milano Bicocca. Inoltre, va detto che considerare la situazione lavorativa a solo uno o tre anni dalla laurea offre un’immagine parziale e provvisoria dei percorsi d’inserimento professionale dei laureati che, spesso, si sviluppano su un arco temporale più ampio.
2. I sociologi che eccellono
Esaminiamo anzitutto la situazione dei laureati triennalisti e, in particolare, di quanti non proseguono alle lauree magistrali ed entrano invece nel mercato del lavoro (tab. 1).
Non consideriamo, quindi, i triennalisti che invece cercano o svolgono lavoretti mentre frequentano le lauree magistrali. Ebbene, anzitutto vediamo che il tasso di disoccupazione tra i laureati in Sociologia risulta inferiore di tre punti percentuali rispetto al complesso dei laureati italiani. Naturalmente, un tasso del 16,7% non è affatto basso, ma non dimentichiamo che stiamo intervistando a solo un anno dalla laurea individui che hanno cercato lavoro in tempi di grave recessione economica. Il dato sulla quota di contratti stabili, riferito al tempo indeterminato e ai lavori autonomi tradizionali (esclusi, quindi, i parasubordinati), è ancora più eclatante: sono il 65% a Sociologia contro il 42% nel complesso dei laureati. Vediamo, ora, le retribuzioni nette mensili: emerge nuovamente un rilevante vantaggio di Sociologia che, peraltro, è trainato interamente dai laureati maschi – un dato da tenere bene a mente. Infine, l’ultima riga della tabella 1, riferita solo a chi lavorava già prima della laurea, mostra che i laureati in Sociologia reputano di avere ottenuto un miglioramento della propria situazione lavorativa, grazie agli studi effettuati, molto più spesso degli altri laureati italiani. Dunque, i primi hanno minori tassi di disoccupazione, trovano lavori più stabili e meglio retribuiti, ottengono avanzamenti di carriera più spesso rispetto al complesso dei triennalisti italiani.
Se questi risultati possono stupire, basta aggiungere un paio di informazioni per risolvere il puzzle. Anzitutto, a un anno dalla laurea triennale, i sociologi svolgono molto più spesso degli altri laureati lo stesso lavoro che possedevano già prima di laurearsi: 68% contro il 37% della media italiana. Il secondo tassello: la maggioranza assoluta dei laureati in Sociologia è occupata nel pubblico impiego, 55% contro il 21% dei laureati italiani – uno scarto ragguardevole. I dati Almalaurea consultabili online non contengono l’informazione sulla data di inizio del primo impiego[1]. Tuttavia è noto che in Italia le porte del pubblico impiego sono chiuse ermeticamente ormai da alcuni anni. È assai probabile, quindi, che molti di questi laureati in Sociologia lavorassero nel settore pubblico già prima di laurearsi. In breve, nelle lauree triennali sociologiche, troviamo una quota consistente di dipendenti pubblici, sicché i dati rosei su retribuzioni e protezioni contrattuali non hanno nulla di sorprendente. E non stupisce neppure che questi individui dichiarino spesso di avere ottenuto un rilevante miglioramento lavorativo proprio grazie alla laurea. Infatti, questa è spesso un importante requisito di tipo credenziale per ottenere avanzamenti di carriera nella pubblica amministrazione. Naturalmente, non si riduce per forza tutto a ottenere un «pezzo di carta» per fare carriera. Una laurea in Sociologia potrebbe offrire a operatori sociali e a ricercatori del pubblico impiego competenze utili ad aggiornarsi e riqualificarsi. Tuttavia, è significativo che i sociologi occupati come dipendenti pubblici non si concentrino nel settore dei servizi socio-sanitari, né tantomeno nella ricerca, bensì nella pubblica amministrazione in senso stretto e nelle forze armate.
Va segnalato, comunque, che questo fenomeno è distribuito in modo assai difforme tra atenei e si concentra in particolare a Trieste, Firenze, Perugia, Urbino, Chieti-Pescara. Negli altri atenei che ospitano corsi di laurea sociologici la quota di dipendenti pubblici è molto minore. Inoltre, i dati Almalaurea mostrano nitidamente che, negli atenei dove i laureati in Sociologia comprendono una quota abnorme di dipendenti pubblici, essi trainano al rialzo gli esiti occupazionali dei sociologi. Il punto è che, in quei cinque atenei, il numero di dipendenti pubblici è così elevato da trainare in positivo l’intero dato nazionale delle lauree sociologiche. Non stiamo parlando, quindi, di piccoli numeri, bensì di centinaia di laureati.
Se, poi, incrociamo la fonte Almalaurea con la banca-dati Miur sull’offerta formativa degli atenei, scopriamo che in almeno tre dei cinque atenei sopramenzionati esistevano corsi di laurea ad hoc (ad esempio «operatori della sicurezza sociale» inquadrato in classe di laurea sociologica) e accordi formali con specifici settori della pubblica amministrazione per riconoscere ai loro dipendenti addirittura fino a 60 crediti su 180, senza che essi dovessero sostenere alcun esame (questa discutibile pratica è stata proibita dal legislatore dal 2010 in poi). Beninteso, le lauree sociologiche non sono per forza le uniche a offrire questo tipo di «agevolazioni». Credo, però, che tali pratiche siano rivelatrici dell’atteggiamento di molti sociologi accademici sulla questione della qualità e della serietà della formazione sociologica. Senza contare le conseguenze a cascata per l’immagine pubblica della disciplina che si producono rilasciando per anni centinaia di queste lauree low cost.
3. Gli esiti degli studenti che non lavoravano prima della laurea triennale
Purtroppo, quando volgiamo l’attenzione a chi non possedeva un lavoro prima della laurea, gli indicatori precedenti raccontano una storia molto diversa (tab. 2). Il tasso di disoccupazione dei sociologi triennalisti raggiunge il 48% e supera di tredici punti la media italiana. La diffusione dei contratti stabili è simile, ma i sociologi percepiscono redditi significativamente inferiori e, soprattutto, svolgono molto più spesso lavori dove la laurea non è richiesta e le competenze apprese durante gli studi universitari sono di scarsa utilità per svolgere le mansioni ricoperte.
Va messo in conto, poi, che la domanda di lavoro qualificato si concentra nelle regioni del Centro-Nord, sicché negli atenei meridionali la situazione delle lauree sociologiche è ancora più delicata rispetto al dato nazionale. A titolo di esempio, il tasso di disoccupazione dei sociologi triennalisti raggiunge il 56% a Salerno, ma non supera il 13% a Padova.
Questi risultati richiedono un paio di qualifiche. Anzitutto, non avendo accesso ai micro-dati Almalaurea, nelle elaborazioni della tabella 2 non posso escludere i laureati triennalisti che hanno proseguito alle magistrali e che talvolta cercano o svolgono solo lavoretti per arrotondare.
Questa limitazione traina verosimilmente al ribasso le performance occupazionali, ma naturalmente questo effetto coinvolge sia i sociologi che i laureati degli altri corsi e in misura abbastanza simile[2]. In secondo luogo, va ribadito che stiamo esaminando i dati relativi a una fase di crisi economica. Tuttavia, se consideriamo l’indagine Almalaurea sui laureati del 2007, ritroviamo sia il quadro complessivamente deprimente dei laureati triennalisti italiani, sia il netto svantaggio dei sociologi.
Se proviamo a mettere insieme i dati appena esaminati e li colleghiamo a quelli sul profilo dei laureati Almalaurea, diventa chiaro che, sotto lo stesso tetto delle lauree triennali sociologiche, convivono due popolazioni distinte. Troviamo, da un lato, il lavoratore-studente, che è spesso un uomo adulto, occupato a tempo pieno già prima della laurea, svolge lavori protetti, spesso nel pubblico impiego e aspira alla laurea ai fini di un avanzamento di carriera. Dall’altro lato, troviamo lo studente-lavoratore, che è più frequentemente donna, ha mediamente 25 anni alla laurea, proviene spesso dai licei socio-psico-pedagogici (eredi degli istituti magistrali), dove ha ottenuto un voto di diploma medio-basso. Queste due figure hanno in comune forse più di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Infatti, le accomuna la propensione a un investimento formativo leggero negli studi universitari. Consideriamo questi tre indicatori desumibili dai dati Almalaurea: per entrambe le figure, i tassi di frequenza regolare delle lezioni universitarie sono nettamente inferiori rispetto al dato nazionale dei triennalisti; meno diffusi sono anche i periodi di studio all’estero (e minore è la padronanza dell’inglese); infine, anche la partecipazione a tirocini e stage durante gli studi è ridotta. Naturalmente, s’intende bene che il dipendente pubblico che ha già un posto sicuro che lo aspetta non sia così volenteroso, mentre preoccupa di più la situazione del giovane laureato in Sociologia, che sconta prospettive occupazionali assai incerte, ma che fatica a costruirsi competenze ed esperienze qualificanti durante gli studi. È interessante notare che, sebbene i laureati in Sociologia non sembrino brillare quanto a preparazione e motivazione allo studio, la loro durata degli studi universitari e il voto medio di laurea sono allineati alla media nazionale (un ulteriore segnale di «generosità» dei corsi di laurea sociologici?).
La tabella 3 esamina la situazione dei corsi di laurea magistrale. Il quadro è univoco: i rischi di disoccupazione sono maggiori per i sociologi, minore è l’accesso a contratti stabili, minori le retribuzioni e, soprattutto, sensibilmente maggiori sono i rischi di svolgere lavori dove non serve una laurea, né tantomeno una laurea in Sociologia.
Naturalmente, il fatto che i laureati in Sociologia di entrambi i livelli ottengano esiti professionali così deboli non rivela necessariamente che le lauree sociologiche siano meno professionalizzanti delle altre. Detto altrimenti, non possiamo certo dare un’interpretazione causale delle differenze osservate tra corsi di laurea, poiché i loro studenti possono differire rispetto a molte caratteristiche pregresse, che sono suscettibili di influenzare gli esiti occupazionali (fig. 1).
Ad esempio, le donne sono sovrarappresentate anche tra i laureati magistrali in Sociologia e sappiamo che esse incontrano sistematici svantaggi nel mondo del lavoro, sicché lo svantaggio delle lauree sociologiche può riflettere, almeno in parte, la loro composizione di genere. Analogamente, si può notare che, tra questi laureati, sono sovrarappresentati i figli di operai e di individui con istruzione di base. Inoltre, la figura 1 segnala che la composizione di genere di questi laureati va di pari passo con la sovrarappresentazione dei diplomati dei licei socio-psico-pedagogici (a discapito soprattutto dei licei scientifici), mentre le loro origini sociali trainano al ribasso il voto di maturità, perché nei ceti sociali svantaggiati il profitto scolastico è mediamente più basso[3]. E ancora, i laureati magistrali in Sociologia si caratterizzano per un’elevata età all’immatricolazione, una diffusione un poco maggiore del lavoro durante gli studi e la propensione a un investimento formativo leggero, definito sulla base dei tre indicatori sopramenzionati. In breve, il background sociale e formativo dei laureati in Sociologia certamente non li avvantaggia, ma ci accingiamo a vedere che questa è solo parte della spiegazione dei loro problematici esiti occupazionali.
4. La crisi del generalismo nella formazione universitaria
I dati appena illustrati offrono un utile quadro descrittivo, ma nulla dicono sulle cause, né sui possibili rimedi a questo stato di cose. Un ragionamento su diagnosi e terapie possibili richiede, però, di allargare un po’ lo sguardo, collocando la situazione dei laureati in Sociologia all’interno di un ragionamento complessivo su come sono evolute le prospettive lavorative dei laureati italiani nelle coorti recenti.
Il primo dato da mettere a fuoco è la progressiva riduzione della forbice tra il numero di lavori da laureato e quello di laureati (fig. 2)[4]. Vediamo che entrambe queste grandezze sono cresciute nel corso del Novecento, ma il numero di lavori da laureato è sempre stato maggiore di quello dei laureati: è lo storico deficit di laureati in Italia. Si nota però che, nelle ultime tre coorti, i laureati continuano a crescere, mentre i lavori da laureato ristagnano. In altre parole, il nostro paese sconta da decenni un’incapacità cronica di creare occupazione qualificata (Schizzerotto e Marzadro 2011). La conseguenza è che la forbice tra queste due grandezze si è ridotta progressivamente, fino a quasi scomparire: il deficit di laureati si è esaurito. La figura 2 si basa sui dati Istat-Multiscopo 2003, quindi, l’ultima coorte di nascita considerata (1965-74) copre chi si è potuto iscrivere all’università fino alla metà degli anni Novanta. Bastano, però, due dati per aggiornare questo quadro (Barone 2012a). Anzitutto, il tasso di diplomati, dopo avere attraversato una fase di stagnazione agli inizi degli anni Ottanta, è letteralmente esploso tra il 1985 (40,4%) e il 1998 (72,5%). Dunque, in appena tredici anni, è cresciuta di oltre trenta punti percentuali la quota di studenti che possono iscriversi all’università. Poi, l’ondata espansiva si è spostata all’università, anche per effetto della riforma del 3+2. Il tasso di laureati è raddoppiato nel volgere di pochi anni, passando dal 19% al 39% tra il 2000 e il 2006. In nessun altro paese Ocse esso è cresciuto così velocemente in così breve tempo. Una parte di questa crescita era in realtà congiunturale[5] e si è sgonfiata di recente, ma negli ultimi anni la quota di laureati si è assestata comunque intorno al 35%.
Questa poderosa espansione scolastica pone, anzitutto, un problema qualitativo agli atenei: gli studenti che s’iscrivono sono sempre meno selezionati, quindi, sempre più eterogenei in termini di capacità, motivazioni e interessi di studio. Sono le lauree percepite come meno impegnative ad incontrare i problemi maggiori, perché si trovano a reclutare studenti con un background scolastico più debole, come nel caso di Sociologia. Queste lauree si trovano, così, davanti all’angusto dilemma tra «selezionare troppo o troppo poco», ossia: adottare standard didattici e valutativi elevati nei confronti di questi studenti, con il rischio di alimentare tassi di abbandono elevati, oppure abbassare gli standard per ridurre gli abbandoni, ma al prezzo di abbassare la qualità dell’offerta formativa, indebolendo così il valore di segnale delle lauree sociologiche nel mercato del lavoro.
La recente espansione dell’istruzione pone anche un problema di equilibrio numerico tra il volume dell’offerta e della domanda di laureati. Sarebbe, però, ingenuo ragionare semplicemente sul livello aggregato della domanda e dell’offerta di laureati, come se le diverse lauree fossero perfettamente intercambiabili: un laureato in ingegneria non può fare il medico (e viceversa). Forse, il problema maggiore della situazione attuale sono proprio i drammatici squilibri tra corsi di laurea. Infatti, la massiccia espansione recente dell’offerta di laureati è stata indifferente all’effettiva domanda di laureati dei diversi corsi. L’espansione ha coinvolto sia le lauree più richieste, sia quelle che erano già molto inflazionate (Barone 2012b). Anzi, a seguito della riforma del 3+2, due delle facoltà più inflazionate, ossia lettere e psicologia, hanno registrato un peso crescente sul totale delle immatricolazioni. In questo quadro, le prospettive lavorative dei laureati italiani sono diventate sempre più incerte e i divari occupazionali tra corsi di laurea sembrano destinati ad acuirsi.
Va osservato che la distinzione tra lauree «forti» e «deboli» sul piano degli sbocchi lavorativi non si sovrappone necessariamente a quella tra lauree scientifiche e umanistiche. Ad esempio, i laureati (o dovremmo forse dire le laureate) in servizio sociale e in scienze infermieristiche esibiscono migliori esiti nel mercato del lavoro rispetto a quelli in biologia e matematica su molteplici indicatori di performance occupazionale (tassi di disoccupazione, accesso a lavori stabili, utilizzo delle competenze apprese negli studi). Più che la distinzione tra ambito scientifico e umanistico, sembra contare quella tra lauree specialiste e generaliste, ossia, tra corsi collegati o meno a sbocchi professionali ben delineati. Sono le lauree generaliste, come Sociologia, scienze politiche o filosofia, a risentire maggiormente dell’espansione delle lauree. Infatti, in un contesto di carenza cronica di laureati, come era quello italiano fino a pochi anni fa, queste lauree potevano svolgere una funzione interstiziale. Esse coprivano, cioè, quei lavori qualificati che non richiedevano una laurea di tipo specifico. Ad esempio, sino a quando c’erano pochi laureati in Italia, anche se la domanda specifica di sociologi non era molto sostenuta, i laureati in Sociologia potevano comunque ambire a svolgere diversi lavori da laureato (ad esempio giornalista, esperto di comunicazione e relazioni pubbliche, responsabile del personale, dirigente[6]). Tuttavia, questi sbocchi alternativi si sono saturati rapidamente per i sociologi: non solo perché il numero di laureati è cresciuto esponenzialmente, ma anche perché, con la riforma del 3+2, sono cresciute molto anche la varietà e la specificità dei corsi di laurea, sicché i laureati in Sociologia hanno subito la concorrenza pressante di nutrite schiere di laureati in relazioni pubbliche, scienze della comunicazione, gestione del personale. Le lauree generaliste rischiano di uscirne gravemente spiazzate.
In questo contesto, la retorica del valore di una formazione «aperta» e ad ampio spettro appare oggi sempre meno difendibile. Naturalmente, è del tutto evidente che, in un contesto di rapido mutamento tecnologico e occupazionale, gli eccessi di specialismo sarebbero pericolosi e che bisogna puntare piuttosto su una solida formazione generale, da approfondire e aggiornare nel corso della carriera in un’ottica di lifelong learning. Il punto, però, è non confondere la necessità di una formazione di stampo generale con quella di un approccio generalista (o general-generico). Ad esempio, un laureato in ingegneria possiede un solido impianto di competenze matematiche, scientifiche e ingegneristiche di carattere generale. Su questo background può innestare, poi, anche competenze più specialistiche (ad esempio ingegneria civile o delle telecomunicazioni), ma la sua è una formazione di stampo generale, finalizzata a un ambito professionale specifico. Il punto è che questo laureato possiede un nucleo di competenze che sono determinanti per svolgere un grappolo di professioni ben delineate e che i laureati di altre facoltà non possiedono queste competenze. Ciò permette ai laureati di questi corsi di monopolizzare specifici segmenti professionali e li protegge efficacemente dalla concorrenza degli altri corsi di laurea[7]. Questo modello si fonda, quindi, sulla trasmissione di uno specifico sapere professionale di carattere generale.
La formazione generalista offerta nelle lauree triennali sociologiche non ha nulla a che vedere con questo modello. Essa somiglia piuttosto a un’infarinatura sociologica e multidisciplinare astratta e del tutto sganciata da mercati professionali di sbocco. Questo tipo di offerta formativa potrà (forse) rendere gli studenti più «aperti» e «flessibili», ma è certamente incapace di fornire loro un sapere professionale. Tuttavia, i datori di lavoro non cercano solamente «menti aperte», ma anche giovani che possiedano un minimo di familiarità e di competenza negli ambiti in cui cercano lavoro. Questi requisiti elementari consentono, infatti, di ridurre tempi e costi della formazione on-the-job, che costituisce l’effettivo momento di approfondimento specialistico.
5. Le contraddizioni del modello del 3+2
La riforma del 3+2 non ha certamente aiutato le lauree sociologiche a fare i conti con i limiti del generalismo. Mozzando di un anno i corsi di laurea del vecchio ordinamento, essa ha piuttosto amplificato il problema, relegando le lauree triennali a una funzione meramente propedeutica rispetto al momento di approfondimento tematico e metodologico, posticipato alle magistrali. Sfortunatamente, questo modello a due stadi in Italia funziona male per le lauree sociologiche. Vediamo perché.
Nel sistema del 3+2, le triennali sono chiamate a svolgere una duplice funzione: devono preparare per le magistrali chi poi proseguirà, ma dovrebbero anche agevolare l’inserimento lavorativo di chi non proseguirà. Tuttavia, i docenti delle lauree magistrali e i datori di lavoro potenziali dei laureati triennalisti nutrono aspettative assai dissimili sulle competenze che essi dovrebbero possedere. Il rischio è quello di un’offerta formativa ibrida, che finisce per scontentarli entrambi. Il pericolo è offrire sia una debole formazione in vista delle magistrali, sia una debole preparazione lavorativa (Barone 2012a). Nei corsi di laurea triennale, convivono di fatto due popolazioni distinte di studenti, ossia quelli che continueranno alle magistrali e quelli che, invece, si fermeranno e cercheranno un lavoro. È evidente che questi due target hanno esigenze formative diverse.
Il problema è di carattere generale, ma è particolarmente acuto per le lauree sociologiche. Infatti, in altri corsi di laurea i tassi di prosecuzione alle magistrali sono così elevati che le triennali sono, di fatto, realmente propedeutiche alle magistrali per gran parte degli studenti, sicché il problema degli sbocchi professionali è meno rilevante. Non è così per Sociologia, dove metà dei triennalisti (53%) non prosegue. Questo non dovrebbe stupire, se teniamo presente il background sociale e scolastico medio-basso che caratterizza questi studenti (cfr. par. 2). Infatti, esso incide sensibilmente sui tassi di prosecuzione alle magistrali: che piaccia o meno, questo è un vincolo con cui bisogna fare i conti. Non possiamo, cioè, disegnare le triennali sociologiche come se fossero solamente preparatorie per le magistrali, semplicemente perché nei fatti non è così.
Inoltre, spingere i triennalisti a proseguire in massa alle magistrali non farebbe che aggravare ancor di più la situazione occupazionale delle lauree magistrali, che già non è felice. Da un lato, si accrescerebbe ulteriormente il surplus di laureati di secondo livello. Dall’altro, una massificazione delle magistrali porrebbe una seria ipoteca sulla possibilità di realizzare (almeno a quel livello!) una didattica seminariale, interattiva e laboratoriale che è il presupposto basilare di un’offerta formativa ambiziosa e di alto profilo, ma che non è praticabile sui grandi numeri.
6. Tre leve per migliorare l’occupabilità dei laureati in Sociologia
Le difficoltà occupazionali dei laureati in Sociologia vanno lette, quindi, all’interno delle rapide trasformazioni che hanno investito il sistema formativo italiano. L’esplosione del tasso di diplomati in Italia segnala che le scuole superiori stanno gradualmente abdicando a svolgere un’effettiva scrematura degli studenti con apprendimenti scadenti. In questo contesto, gli atenei non possono non porsi il problema di monitorare le competenze in ingresso dei propri studenti e di valutare la loro adeguatezza rispetto al proprio progetto formativo. Nel caso degli studenti con lacune più serie, che scontano forti rischi di abbandono, è necessario precludere l’iscrizione, mentre per quelli con lacune meno serie bisogna attivare corsi intensivi di recupero all’inizio del percorso accademico che li aiutino a recuperare il prima possibile. Questa regolazione degli ingressi basata sulle competenze non va confusa con il «numero chiuso», che fissa in partenza il numero massimo di studenti ammissibili a un dato corso di laurea, tipicamente per non sovraffollarlo e per alleggerire i carichi didattici dei docenti e del personale amministrativo. La motivazione della proposta appena avanzata è diversa: contrastare i rischi di abbandono degli studenti più deboli e garantire, al contempo, una didattica di qualità. Questa proposta offre una soluzione praticabile al dilemma tra selezionare troppo o troppo poco. Dunque, tutti gli studenti con una preparazione adeguata hanno diritto a iscriversi a una laurea triennale e chi ha lacune non troppo gravi va ammesso e sostenuto all’inizio del percorso di studio. Invece, alle lauree magistrali un vero e proprio numero chiuso può rendersi necessario, perché a quel livello i piccoli numeri sono fondamentali per realizzare una didattica interattiva, che è, poi, la ragion d’essere di questo secondo livello. Inoltre, la regolazione degli ingressi a entrambi i livelli avrebbe l’effetto di contenere il vistoso surplus di laureati in Sociologia nel mercato del lavoro. Essa permetterebbe di puntare sulla qualità degli studenti e dei percorsi formativi offerti, piuttosto che sui grandi numeri.
La seconda proposta offre un rimedio al problema dell’identità formativa ibrida e mal definita delle triennali, sospese a metà strada tra preparazione per le magistrali e per il mondo del lavoro. Si può pensare a una differenziazione parziale e flessibile dell’offerta formativa di primo livello, basata su percorsi triennali a Y: i primi due anni sono comuni a tutti gli studenti e, poi, chi intende fermarsi usa i crediti del terzo anno per attività più professionalizzanti, mentre chi vuole proseguire li usa per rafforzare la propria preparazione di base. Quando propongo di potenziare le attività formative professionalizzanti per chi non prosegue, non ho certo in mente che si possa imparare uno specifico mestiere all’università – idea che sarebbe per più aspetti ingenua. Il problema è un altro: individuare sbocchi professionali per i triennalisti che siano realistici (e non meramente immaginari come sono quelli prospettati nei siti dei corsi di laurea), puntando, poi, sulle competenze generali più rilevanti per questi sbocchi. Vediamo un esempio. Il bacino degli educatori, dei formatori e degli orientatori del terzo settore è uno sbocco credibile per i sociologi triennalisti. Ebbene, alla fine del secondo anno della triennale, gli studenti andrebbero incoraggiati a valutare concretamente se intendono proseguire o meno. Chi vuole fermarsi può gestire i crediti del terzo anno in modo da familiarizzarsi con questo contesto lavorativo in più modi, quali: un paio di corsi sulle trasformazioni del welfare, sulle caratteristiche e sulle dinamiche organizzative del terzo settore; un tirocinio presso una cooperativa sociale che aiuti lo studente a farsi un’idea più precisa del lavoro che potrebbe svolgere e che lo faccia conoscere ai suoi potenziali datori di lavoro; un ciclo di seminari di credito (ad esempio come disegnare un progetto di intervento educativo) cogestiti con le cooperative sociali, secondo una logica di partnership con il territorio, dove esiste un patrimonio di competenze professionali che aspettano solo di essere riconosciute e valorizzate.
Le due proposte appena formulate potrebbero essere adottate subito: non richiedono grandi riforme di sistema, né grossi investimenti finanziari. Naturalmente, però, nel sistema attuale, sarebbe del tutto irrazionale attuarle. Infatti, gli atenei italiani sono finanziati in funzione del volume di studenti iscritti e, dentro gli atenei, le dimensioni numeriche incidono sul potere negoziale delle facoltà (ad esempio per la distribuzione di nuove posizioni). La logica dei grandi numeri, oggi, premia. Invece, non c’è alcun incentivo che spinga a puntare sulla qualità formativa e sull’occupabilità dei laureati. Anche le recenti riforme che dovrebbero promuovere il «merito» nelle università si concentrano quasi esclusivamente sulla ricerca e si disinteressano della didattica (Barone 2012a).
La prima leva suggerita verte sul reclutamento in ingresso e la seconda investe struttura e contenuti dei percorsi formativi. La terza e ultima leva che vorrei proporre insiste, invece, sui rapporti tra offerta formativa e mondo del lavoro. Per quanto ben selezionati e preparati possano diventare i laureati in Sociologia, tutto questo non basterà finché i datori di lavoro non avranno un’idea sufficientemente chiara delle competenze che un laureato in Sociologia può offrire. Naturalmente, gli stage e le altre forme di partnership con il territorio possono aiutare anche in questo senso. Ma temo che il problema sia di carattere più generale e investa la percezione collettiva della disciplina. È in gioco la necessità di fornire una risposta credibile e interessante alla domanda «cosa fa un sociologo?». Su questo versante ci sarebbero margini d’azione significativi per iniziative promosse dall’Ais e dalle altre associazioni professionali che raccontassero all’esterno le acquisizioni e la rilevanza applicativa della disciplina. Questa potrebbe essere una terza leva su cui investire, ma forse è anche il tasto più dolente. Temo, infatti, che la buona volontà di promuovere la disciplina all’esterno da sola non basti, se le acquisizioni disciplinari consolidate sono limitate e scarsa è la loro capacità di informare le politiche. A un livello più profondo, credo che una disciplina segnata da un’identità incerta e frastagliata sia strutturalmente incapace di comunicare all’esterno un’immagine solida e chiara. Forse, una disciplina marginale nei mass-media e nel dibattito pubblico di policy, non di rado relegata a digressioni salottiere sulle tematiche più esotiche e disparate, è tale proprio perché non sa rispondere a quella domanda.
Riferimenti bibliografici
Barone, C. (2012a), Le trappole della meritocrazia, Bologna, il Mulino.
Barone, C. (2012b), «Contro l’espansione dell’istruzione (e per la sua ridistribuzione). Il caso della riforma universitaria del 3+2», Scuola Democratica, 4, pp. 25-50
Almalaurea (2013), La condizione occupazionale dei laureati (2012), http://www.almalaurea.it/, note medodologiche alla XIV indagine.
Schizzerotto, A. e Marzadro, S. (2011), Social mobility in Italy since the beginning of the 20th century, paper reperibile al sito: www.rivistapoliticaeconomica.it