Il tema
La ripresa del dibattito sull’utilità pubblica della Sociologia risale alla prolusione tenuta da Michael Burawoy nel 2004 alla riunione annuale dell’American Sociological Association (2005). Non solo negli Stati Uniti, alla «public sociology» sono stati dedicati da allora decine di articoli e libri, sono nati gruppi di discussione e si sono aperti siti web, a volte pro, più spesso critici e polemici nei confronti delle tesi sostenute dal sociologo di Berkeley[1].
Ad ogni modo, di un ritorno si tratta. Il tema della Sociologia pubblica era già stato sollevato nel 1988 da Herbert Gans, anche allora in occasione di un presidential address all’assemblea dell’ASA. E prima ancora lo troviamo al centro delle riflessioni critiche di Charles Wright Mills e della non meno severa denuncia dell’establishment sociologico statunitense uscita dalla penna di Alvin Gouldner; il suo The Coming Crisis of Western Sociology vede la luce una decina di anni dopo The Sociological Imagination, che è del 1959. Più indietro nel tempo, all’utilità e al rilievo pubblico, politico, intellettuale, civile, delle scienze sociali e della Sociologia era dedicato pure il pamphlet di Robert Lynd, Knowledge for what? The Place of Social Sciences in American Culture, pubblicato nel 1939; e, al di fuori degli Stati Uniti, la gran parte delle opere dei classici del pensiero sociologico europeo.
Quanto al dibattito innescato dalla relazione di Burawoy, ritengo si debbano sottolineare almeno tre aspetti. Il primo è il prevalente, se non esclusivo, riferimento alla situazione statunitense[2]; un’implicita ammissione che il problema dello spazio pubblico della Sociologia riguardi unicamente gli studi e le ricerche prodotte negli Stati Uniti, ovvero che quella americana sia oggi la Sociologia egemone, «al punto di diventare l’unico orizzonte intellettuale al quale si ispirano le sociologie nazionali di molti Paesi» (Padovan 2007). La tesi non è del tutto priva di fondamento, considerato l’enorme mole di studi e ricerche, i cospicui finanziamenti alla ricerca sociale da parte delle fondazioni, la diffusione ormai incontrastata dell’inglese come lingua «ufficiale» della letteratura sociologica internazionale, per non dire dell’enorme apparato organizzativo ed editoriale, accademico e commerciale, che circonda la comunità sociologica statunitense. Ma anche una tesi che si potrebbe leggere diversamente, cioè, che pur in presenza di difficoltà del tutto analoghe, altrove non sia ancora maturata un’adeguata riflessione sull’utilità e la ricaduta pubblica e civile del lavoro del sociologo.
Ed è il secondo punto d’interesse che mi preme mettere qui in evidenza; non potendolo fare in termini generali (non ne avrei la competenza), mi limito in questa sede a considerare, in modo necessariamente sintetico, gli sviluppi della Sociologia nel nostro paese, cercando di capire a che punto siamo, attraverso quali fasi principali è passato il mestiere del sociologo dal secondo dopoguerra a oggi, fermando in particolare l’attenzione sul processo d’istituzionalizzazione della disciplina all’interno delle università e sugli orientamenti prevalenti negli ultimi decenni, sia sotto il profilo della teoria sia della ricerca.
Il terzo e ultimo punto riguarda la formazione del sociologo e del ricercatore sociale. Scorrendo i commenti che hanno accompagnato il dibattito seguito al discorso di Burawoy, sorprende in effetti l’assenza di ogni riferimento a questo aspetto. Come se la formazione del sociologo all’interno dell’accademia, nelle facoltà e nei dipartimenti universitari non costituisse un problema; come se non fosse il momento fondamentale della trasmissione del sapere sociologico, lo snodo cruciale attraverso il quale si riproducono gli schemi teorici e gli orientamenti della ricerca empirica, e dunque l’apprendimento degli strumenti mediante i quali il sociologo acquisisce le competenze indispensabili allo studio delle fonti, alla concettualizzazione dei fenomeni sociali, alla rilevazione e all’analisi del dato e all’interpretazione della realtà.
Alla luce di questi tre nodi tematici, lo svolgimento di questa nota si articola in altrettante parti. I primi paragrafi prendono in esame i contenuti essenziali della tesi di Burawoy: più un atto dovuto che una necessità, dal momento che l’analisi di Burawoy è solo un pretesto per introdurre una riflessione sullo stato degli studi e della ricerca sociale nel nostro paese. La seconda parte è dedicata agli sviluppi della Sociologia in Italia, attraverso un’analisi per forza di cose schematica degli orientamenti prevalenti, nel tentativo di rintracciare (anticipo la diagnosi) le cause che hanno portato alla marginalità della Sociologia, a mio giudizio sempre più ellittica e autoreferenziale rispetto alle problematiche che investono la sfera pubblica. La terza parte affronta infine il tema della interdisciplinarietà e della formazione del sociologo; anche qui premetto la conclusione, che è questa: deriva da qui la rinuncia e l’impossibilità del sociologo ad assumere una posizione critica nei confronti della società e pertanto un adeguato rilievo nello spazio pubblico.
1. Una Sociologia pubblica: per chi? per che cosa?
Poche parole, dunque, per introdurre la tesi di Burawoy. Che, come detto, è tutt’altro che originale; sin dalle sue origini la formazione del pensiero sociologico non è che un progetto per la costruzione di una competenza – per definizione non coperta dalle altre discipline sociali – che consenta di spiegare la struttura, il funzionamento e il cambiamento delle società; o, per dirla con Wright Mills, di «definire la realtà in modo adeguato e importante per il pubblico» (1959, trad. it. pp. 197 e 201).
A Michael Burawoy va comunque il merito di aver riproposto il tema all’attenzione della comunità scientifica, cogliendo evidentemente un processo di involuzione della Sociologia in termini di contenuti e di rilevanza sulla scena pubblica. In effetti, richiamando una delle tesi sulla filosofia della storia di Walter Benjamin, il sociologo di Berkeley sostiene che la Sociologia avrebbe «tradito» gli ideali che avevano ispirato i classici del pensiero sociologico: «Se i nostri predecessori hanno cercato di cambiare il mondo, noi abbiamo finito troppo spesso per contribuire a conservarlo com’è» (2005, trad. it. p. 2). Ed è un mondo, sostiene Burawoy, dominato da un «capitalismo sfrenato [che] alimenta la tirannide del mercato e inedite diseguaglianze su scala globale… [nel quale] l’originaria passione per la giustizia sociale, l’eguaglianza economica, i diritti umani, la salvaguardia dell’ambiente, la libertà politica… viene indirizzata all’ottenimento di credenziali accademiche» (2005, trad. it. pp. 1-2).
Questa in sostanza la sua argomentazione; che egli, sulla scorta di un ricco corredo di riferimenti bibliografici alle più importanti opere della Sociologia europea e americana, sviluppa in undici tesi, nelle quali espone valutazioni critiche e proposte per la ripresa di una «Sociologia pubblica». In estrema sintesi, l’analisi di Burawoy risponde a due interrogativi, gli stessi peraltro che si erano posti Lyndt, Mills e Mc Lung Lee, e cioè «Sociologia per chi?» e «Sociologia per che cosa?». Vale a dire, per chi e per che cosa pratichiamo la Sociologia? A chi ci rivolgiamo, a chi stiam
o parlando, chi sono insomma i nostri interlocutori, chi è il nostro pubblico? E poi, per che cosa, per quale motivo e per quale scopo svolgiamo il nostro lavoro di scienziati e ricercatori sociali?
Incrociando queste due dimensioni – la finalità del sapere sociologico e il pubblico di riferimento – nelle quattro modalità che le costituiscono (strumentale ed espressiva; pubblico accademico ed extra accademico), il risultato è un prospetto di quattro distinti stili o idealtipi del fare Sociologia: una Sociologia accademica, che Burawoy (curiosamente) chiama professionale, quindi di policy, critica e «pubblica»; quest’ultima caratterizzata dal riferimento ad un pubblico non appartenente all’accademia e a un sapere orientato in modo riflessivo.
Ora, si può concordare o meno con l’eleganza, l’esaustività e l’efficacia dello schema proposto da Burawoy, dal quale – faccio di nuovo notare – è assente il momento della produzione e della riproduzione del sapere, l’attività didattica come specifico momento di formazione disciplinare, così come manca un’adeguata analisi del rapporto della Sociologia con le altre discipline sociali[3]; ma a prescindere dal giudizio, ciò che qui interessa è l’accento che egli pone sulle responsabilità dell’accademia nel crescente conservatorismo della Sociologia. Nell’analisi di Burawoy non mancano altri elementi degni di nota; tra questi, la ricostruzione critica degli sviluppi della Sociologia negli Stati Uniti, con frequenti accenni – e non è da poco nella platea statunitense – alla letteratura sociologica europea.
E tuttavia, la «lezione» del sociologo californiano è sostanzialmente rivolta a uno specifico ambiente politico e culturale, per cui non direi che la Sociologia europea abbia molto da imparare. La questione degli effetti dell’istituzionalizzazione accademica della Sociologia sugli sviluppi della disciplina è posta all’inizio della relazione ma non è poi ripresa e sviscerata, come avrebbe meritato, in altri parti del suo discorso. Un altro punto critico del suo discorso riguarda il concetto del «pubblico». Pur costituendone il nucleo centrale, questa nozione resta piuttosto vaga nella sua analisi. Il riferimento è a volte genericamente alla società civile, con espliciti richiami alle tesi di Wright Mills; altrove si accenna all’attività militante del sociologo in partiti politici, sindacati, comitati di quartiere, movimenti di protesta e di rivendicazione di diritti ecc.[4]; in altre ancora, l’impressione è che tutto si riduca a una mera questione di comunicazione del lavoro sociologico verso l’esterno, come sembrerebbe confermare il fatto che la Sociologia pubblica, come la definisce Burawoy, è un sapere riflessivo rivolto a un pubblico non-accademico.
Che il concetto di «pubblico» non sia agevole da definire, non ci sono dubbi. Gli studiosi che se ne sono occupati insistono sulla natura «problematica» del concetto, il suo rappresentare un’entità sempre più disorganizzata e frammentata. Come riassume Carlo Donolo, «la stessa nozione di ciò che è pubblico, ovvero rilevante per la vita collettiva e quindi legittimo oggetto di comuni preoccupazioni, è diventata problematica e sfuggente» (2006, p. 93)[5]. Resta il fatto che nell’esposizione di Burawoy non è chiaro che cosa si debba intendere per «pubblico». Se, come egli sostiene, l’obiettivo della sua prolusione era rimettere la Sociologia in carreggiata, sulla strada tracciata dai classici del pensiero sociologico, con l’ambiziosa prospettiva di «cambiare il mondo» e «salvare le speranze del progresso», allora la semplice apertura della disciplina verso un pubblico non appartenente all’accademia rappresenta una soluzione fin troppo generica, sostanzialmente ambigua e in definitiva scarsamente efficace sul piano dei risultati.
Troppo facile, in effetti, sarebbe obiettare che gli interlocutori ai quali si rivolgevano i classici costituivano un pubblico numericamente esiguo, espressione di un’élite colta e informata, anche quando non afferivano ai ristretti ranghi dell’Accademia. E poi, che cosa comporta, qual è il prezzo da pagare per accostare alla Sociologia un pubblico più ampio, una platea non accademica? Basta una semplice conversione del linguaggio, la rinuncia al gergo iniziatico, al rigore e ai tecnicismi della ricerca, o l’estensione degli interessi della disciplina a temi e aspetti della vita quotidiana di più immediata presa sul gusto popolare della collettività più ampia? Burawoy si limita in definitiva a proporre una tassonomia di alcuni modi di fare Sociologia, ma non dà una risposta esauriente a questi interrogativi. Una «Sociologia pubblica» basata sugli ingredienti di un sapere riflessivo e il coinvolgimento di un uditorio esterno all’Accademia, non è comunque una ricetta sufficiente a risolvere i problemi che investono oggi la disciplina e il lavoro del sociologo.
Che la Sociologia sia «pubblica» è un truismo. La semplice rassegna delle questioni di cui si sono occupati i classici basta a confermare quest’affermazione. Lo ammette anche Burawoy: «Alle sue origini… la Sociologia era intrinsecamente pubblica»[6]. In effetti, come qualunque altra forma di conoscenza, essa è parte integrante della società in cui si esprime e rappresenta un tentativo di descriverla e interpretarla. Il problema pertanto non è se la Sociologia sia o meno pubblica, perché non potrebbe essere altrimenti; bensì come sono cambiati i suoi interessi nel corso del tempo e, soprattutto, se e quanto questi interessi siano ancora rilevanti (utili) per la soluzione delle esigenze primarie della società, la sua gestione amministrativa e il suo governo[7]. Se e come, in altre parole, le cose di cui si occupa la Sociologia e che impegnano il lavoro del sociologo siano (ancora) in grado di cogliere e rappresentare queste esigenze e di seguire (se non anticipare) le trasformazioni reali della società; e, quando possibile, acquisire le informazioni e le competenze tecniche e sostantive che le consentirebbero di fornire modelli e ricette ai decisori nella formulazione delle politiche, e così di partecipare direttamente o indirettamente alla soluzione dei problemi. Dunque, una Sociologia in costante «presa diretta» con la società in cui opera.
2. L’importanza del contesto: l’istituzionalizzazione della Sociologia (in Italia)
Alvin Gouldner aveva sostenuto molti anni prima l’impossibilità di «separare la critica e la trasformazione della società dalla critica e dalla trasformazione della teoria sulla società» (1970, trad. it. p. 11); l’impossibilità di prescindere dall’influenza che il contesto storico-culturale esercita sulla riflessione sociale, cioè dai condizionamenti che il contesto sociale esercita sugli orientamenti della disciplina, sui suoi interessi, sui suoi criteri di giudizio di ciò che è rilevante dal punto di vista della comunità scientifica. E non c’è dubbio che un aspetto importante, forse il più importante, del «contesto» è l’organizzazione all’interno della quale il sociologo compie la sua attività di studioso e ricercatore; dove «organizzazione» sta per stabilità del posto di lavoro, percorso di carriera, fonti ed entità dei finanziamenti disponibili, disponibilità di risorse umane, mezzi, formazione di una comunità di riferimento, criteri di valutazione della propria produzione scientifica, complesso di attività, natura della committenza, e quant’altro.
In quest’ottica, dobbiamo presumere che, a seconda dell’organizzazione in cui è inserita l’attività del sociologo e del ricercatore sociale, cambi anche il suo modo di lavorare, gli interessi che persegue nel suo lavoro, le finalità e i criteri di giudizio delle sue ricerche. Altro è se il sociologo lavora per un committente privato, per l’industria o un istituto di ricerca che opera sul mercato e per il mercato, ovvero nell’ambito della pubblica amministrazione, per un’agenzia governativa o un ente locale; altro è invece se è inserito nell’università o in un istituto pubblico di ricerca scientifica. Al variare del contesto, cambiano in misura rilevante anche le finalità del lavoro, i tempi dell’attività, i controlli sul livello di produttività; e con essi gli interessi, gli interlocutori, le possibilità di scelta, i parametri di giudizio, i mezzi finanziari a disposizione, le «collateralità» del suo impegno professionale (nel secondo caso, all’attività di ricerca vera e propria si aggiunge la didattica e la formazione) e, naturalmente, le ricadute «sociali», pubbliche, dei prodotti della ricerca. In breve, altro è l’attività professionale, altro quella accademica.
Su questi aspetti, lo schema stilato da Burawoy è ambiguo. Egli identifica (incomprensibilmente) Sociologia professionale e Sociologia accademica, distinguendo entrambe dall’attività «di policy», che il sociologo svolge per una committenza pubblica o privata di mercato. Come vedremo, la distinzione fra queste due forme di esercizio del lavoro sociologico è invece essenziale. La troviamo, non a caso, alla base del volume di Balbo, Chiaretti e Massironi (1975), di cui purtroppo si è ormai pressoché persa memoria a giudicare dai riferimenti bibliografici degli studi e delle ricerche degli ultimi anni. I tre saggi raccolti nel volume analizzano lo sviluppo della Sociologia in Italia, dal secondo dopoguerra alla prima metà degli anni Settanta, muovendo da un interrogativo non dissimile da quello da cui parte Burawoy, e cioè «a quali usi serve oggi la Sociologia?» (Balbo, Chiaretti, Massironi, 1975, p. 9). Sullo sfondo dell’interesse dei tre studiosi per questo tema c’è il «rapporto tra istituzioni della scienza e sistema politico» e nello specifico il ruolo che sugli sviluppi della Sociologia in Italia[8] ha avuto la sua istituzionalizzazione all’interno del sistema universitario.
Ai fini di questa nota, di particolare interesse è il contributo di Chiaretti (1975). Rispetto alla fase di introduzione della Sociologia in Italia, mediata da influenze che provenivano dalla cultura positivistica d’Oltreoceano[9], e quindi fortemente caratterizzata in senso applicativo, intorno alla metà degli anni Sessanta – scrive Chiaretti – «l’università diventa il riferimento principale e, progressivamente, il luogo di inserimento e di attività della maggioranza dei sociologi», cui si accompagna un parallelo riflusso delle ricerche e della professionalità del sociologo a servizio del processo di ricostruzione e di modernizzazione sociale del paese (Chiaretti 1975, p. 68).
Prima di allora, gli interessi della Sociologia erano rivolti prevalentemente allo studio delle comunità contadine e delle aree arretrate delle regioni del Mezzogiorno e del Centro e all’analisi degli squilibri sociali prodotti dal processo d’industrializzazione; non a caso, furono gli industriali, gli operatori economici, gli amministratori pubblici, le organizzazioni politiche e sindacali – come osservava Renato Treves (1960, p. 174) – i primi a rendersi conto, subito dopo la fine della guerra, dell’esigenza di conoscere la società per poterla cambiare. Di qui, l’impulso alle ricerche e agli studi sociologici, anche sulla scia delle iniziative politiche e amministrative varate in quel torno di tempo: «i provvedimenti straordinari per il Mezzogiorno; i tentativi di una gestione “sociale” della grande impresa (Olivetti e aziende di Stato); la politica di intervento sociale da parte delle amministrazioni più coinvolte nel processo di sviluppo (Milano, Torino, Genova)» (Chiaretti 1975, p. 81).
L’impegno del sociologo era allora contraddistinto da una rilevante esposizione e utilità per il governo del paese e l’ammodernamento della cosa pubblica. L’ambito di riferimento della ricerca era soprattutto, se non esclusivamente, extra-accademico. Anche i dibattiti e i numerosi convegni di studio organizzati dai centri culturali che diedero allora maggior impulso allo sviluppo delle scienze sociali, come il Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale (CNPDS) nato a Milano nel 1947, il gruppo bolognese del Mulino, la Società Umanitaria, ruotavano intorno a temi di ricerca scelti sulla base della loro rilevanza politica e sociale e gli interessi dell’utenza pubblica, quale che sia il significato che si vuol dare a questa parola[10]; mentre al centro delle discussioni di più stretta pertinenza accademica troviamo questioni collegate al processo di istituzionalizzazione della disciplina come i rapporti tra teoria e ricerca, l’interdisciplinarietà, la neutralità e l’impegno politico e civile del ricercatore sociale. In un contributo preparato per il V Congresso mondiale di Sociologia di Washington, apparso anticipatamente sulla nuova serie dei Quaderni di Sociologia diretta da Ferrarotti, Treves affronta proprio il tema dei rapporti che intercorrevano allora in Italia fra sociologi e policy makers.
Treves accenna in particolare al contributo delle ricerche condotte a Matera, sotto la guida di Friedmann, da un gruppo di sociologi italiani, poi sfociate nella realizzazione di due concreti programmi d’intervento: «la costruzione di un borgo rurale in località “La Martella” da parte dell’UNRRA CASAS e l’altro che portò all’emanazione della cosiddetta “legge Colombo” per il risanamento dei «sassi» di Matera» (1962, p. 54). Idem per quanto riguarda l’attività svolta dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, che in quegli anni esercitava una discreta influenza sul potere centrale e sugli enti locali, non solo attraverso l’organizzazione di convegni e congressi che servivano a fare pressioni sull’opinione pubblica, «ma valendosi anche di propri organismi… quali il Gruppo parlamentare di difesa sociale…. e il Centro lombardo di educazione sanitaria […]. Con questi mezzi, il Centro… è riuscito – scrive Treves (1962, p. 55) – a fare accogliere dal Parlamento alcuni criteri per la riforma della procedura penale e a fare accogliere dal governo e dagli enti locali alcuni suggerimenti per la riforma degli ospedali psichiatrici». Treves ricorda infine le ricerche intraprese dalla Società Umanitaria nel 1953 sulle condizioni del lavoratore nell’impresa industriale e come esse abbiano condotto «nel 1955, alla legge istitutiva della commissione parlamentare per lo studio di questo problema [mentre] le ricerche compiute nel 1957 sul lavoro femminile hanno condotto all’approvazione di una legge sancente la parità di retribuzione fra uomo e donna a parità di lavoro» (1962, p. 55). L’influenza esercitata da queste organizzazioni sui poteri locali e sul potere centrale derivava da questo, che esse erano allo stesso tempo istituti di ricerca e di azione sociale. Treves conclude rilevando l’esplicita avversione del ricercatore sociale «per le tendenze che mirano all’isolamento del sociologo e al suo distacco dai problemi della vita pratica» (1962, p. 63).
Vanno in questa direzione anche i temi dei convegni e dei congressi di studio. Per brevità, mi limito a citare quello organizzato ad Ancona, nel 1962, dall’Associazione italiana di scienze sociali (sic) e dalla sezione sociologica del CNPDS sul tema «Sociologi e centri di decisione politica e sociale». Del quale merita riportare in esteso i titoli delle sessioni di lavoro (Sociologi e… parlamento, partiti e sindacati, amministrazione centrale, scuola, amministrazione locale, organismi che svolgono attività sociali e culturali, centri di formazione dell’opinione pubblica), e sottolineare la presenza di studiosi e docenti in rappresentanza di un ampio ventaglio di discipline sociali. E così il convegno sulle «Scienze umane» svoltosi a Bologna qualche anno dopo, nel 1970, e organizzato dalla Commissione nazionale italiana per l’UNESCO e dall’Istituto di Filosofia dell’Ateneo emiliano[11].
Una costante delle attività di studio e ricerca di questo periodo è in effetti la partecipazione di un ampio arco di competenze disciplinari. Per cui, se sotto il profilo del radicamento accademico, la Sociologia (in particolare) subiva ancora una sorta di «vassallaggio» da parte di discipline più accreditate come le scienze politiche, il diritto, l’economia e la filosofia, alla figura del sociologo era tuttavia riconosciuta una posizione di tutto riguardo dal punto di vista delle competenze che era in grado di apportare alla soluzione di rilevanti problemi sociali; questo perché, come nota Chiaretti, all’epoca «l’aspetto “sociale” dei problemi dello sviluppo è considerato rilevante quasi come quello economico» (Chiaretti 1975, p. 99).
Per ricostruire il clima degli studi sociologici di quegli anni, è di grande interesse la comunicazione preparata da Giuseppe De Rita nel maggio del 1965 su incarico del comitato esecutivo dell’Associazione italiana di scienze sociali; un documento che vale la pena richiamare in più punti, per due principali motivi: perché offre una riflessione sul percorso degli studi sociologici nei primi due decenni del dopoguerra, ma soprattutto perché si propone di cogliere allo statu nascenti gli effetti dell’istituzionalizzazione della Sociologia in sede accademica. Dopo aver osservato che ««i quattro quinti della ricerca sociale compiuta in Italia negli anni ’50 si è svolta al di fuori dell’università» (1965, p. 11), e che gli sviluppi delle ricerche si sarebbero identificati «con alcune particolari “stagioni” di ricerca e di indagine… che rappresentano altrettanti momenti di crisi e di sviluppo della nostra società» (1965, p. 6), De Rita rileva che l’inserimento nelle strutture accademiche avrebbe «in parte ridotto la tensione dei ricercatori verso la comprensione e l’analisi dei problemi sociali dell’attuale momento storico» (1965, p. 2). Quanto alle ragioni di questa tendenza, «si ha l’impressione – scrive De Rita – che, nelle facoltà in cui sono abitualmente inserite le scienze sociali, i mezzi siano inadeguati allo svolgimento di una seria attività di ricerca», e che l’attività che i sociologi svolgono all’interno dell’accademia sarebbe sostanzialmente imperniata «su un tipo di insegnamento che scarsamente attinge alla ricerca per rinnovarsi e progredire». Per cui, conclude De Rita, «non è oggi possibile soddisfare nell’università quelle esigenze di sperimentazione e di ricerca empirica che sono essenziali per lo sviluppo delle scienze sociali» (1965, pp. 21-22); altri problemi sorgono inoltre in riferimento alla disponibilità di adeguate fonti di dati, ai rapporti della Sociologia con le altre discipline sociali e a quella che De Rita definisce «modesta finanziaria», in ragione della quale egli intravvede «il pericolo di limitare le scienze sociali a un ruolo di formazione ex-cathedra che può essere valido per le discipline umanistiche tradizionali, ma che rischierebbe di portare le scienze sociali a insterilirsi in discussioni puramente concettuali» (1965, p. 25).
A fronte delle prospettive per il futuro (ricordo che il documento porta la data del 1965), l’A. riporta le due tesi alternative che allora si confrontavano sulla scena italiana: quella che vedeva «nell’università il campo di consolidamento e istituzionalizzazione, e la tesi che propende ad attribuire anche per il futuro un ruolo di essenziale importanza ai centri di ricerca extrauniversitari» (1965, p. 23). Non v’è dubbio, è la risposta di De Rita, che la strada dell’istituzionalizzazione sia «la più facile nella situazione attuale», ma occorre ricordare i rischi che presenta questa soluzione se non si provvede contestualmente a risolvere i problemi indicati sopra, e in primo luogo la questione della scarsità di risorse finanziarie e umane, l’assenza di una politica organica della ricerca nel campo delle scienze sociali e la debolezza del quadro legislativo e amministrativo.
La comunicazione di De Rita è un documento importante che consente di cogliere la «transizione» dalla situazione creatasi nell’immediato dopoguerra alla successiva fase caratterizzata dal progressivo inserimento della Sociologia negli istituti e nelle facoltà universitarie. In sostanza, De Rita, e altri prima e dopo di lui, Treves e Barbano ad esempio, rileva che nella prima fase – durata grosso modo fino alla metà degli anni Sessanta – la Sociologia, nonostante il debole, debolissimo radicamento nell’accademia, gode tuttavia di un certo credito presso i centri del potere economico e politico; il lavoro del sociologo conserva una forte componente di innovatività e di carica critica; l’utilità della ricerca sociale è largamente riconosciuta ai fini dell’analisi dei processi di trasformazione economico-sociale, così l’integrazione con le restanti e più affermate discipline sociali; e l’interesse del sociologo è pressoché totalmente spostato sul piano pubblico, economico, politico e amministrativo, quasi nulla, salvo sporadici casi, sulla formazione e l’insegnamento universitario.
Poi il quadro cambia completamente. Nel volgere di qualche anno, tra la metà e la fine degli anni Sessanta, «l’università diventa il principale luogo di produzione dei sociologi della prima generazione e lo sbocco più ambito per quelli della seconda» (Chiaretti 1975, p. 117). Una situazione, secondo Chiaretti (ed è un giudizio che mi sento di sottoscrivere), che innesca «un processo di involuzione della produzione sociologica. A un periodo caratterizzato da un’istanza innovativa e interdisciplinare, e da una Sociologia “critica” e “modernizzante”, segue la fase “teoretica”» (1975, p. 117). Purtroppo, non ho modo nello spazio di questa nota di analizzare gli sviluppi di questo percorso; nel quale un ruolo certamente importante ha svolto l’istituzione, a Trento, nel 1962, per iniziativa della Provincia, dell’Istituto superiore di scienze sociali. E tuttavia, sarebbe interessante poterlo fare, perché l’orientamento che guida la nascita dell’Istituto, all’inizio improntato alla visione della sociologica che si era imposta negli anni immediatamente precedenti, subisce in seguito cambiamenti importanti già a partire dall’approvazione da parte del Parlamento nel 1965 del disegno di legge per il riconoscimento giuridico dell’Istituto.
3. La Sociologia, «genus academicum»
«La Sociologia, contenuta nell’ambito disciplinare e progettata in termini irreali e poco operativi, è per l’accademia» (Chiaretti 1975, p. 117). Con l’ingresso nell’università, la Sociologia «cambia volto»; e perde gradualmente alcune delle caratteristiche acquisite negli anni precedenti. Sono gli anni in cui ha inizio «l’ubriacatura teorica»; gli anni in cui la conoscenza basata sulla ricerca diventa «di fatto marginale rispetto a quella che ha le sue sedi e i suoi canali nell’Università». È quanto osserva anche Laura Balbo, constatando «che oggi è l’altra Sociologia che conta», quella prodotta all’interno degli istituti universitari, in cui prevalgono regole e condizioni del tutto diverse da quelle degli anni precedenti, venendo meno i «rapporti con centri di potere politici quali furono quelli della fase ’58-’62», di cui si è detto dianzi (Balbo 1975, p. 194). Le analisi di Chiaretti e Balbo pervengono perciò alla medesima conclusione: con l’introduzione nell’università, la Sociologia subisce un processo di dequalificazione, che ipoteca pesantemente gli sviluppi della disciplina e della professione negli anni a venire.
Che poi questo percorso, impostato sul primato della speculazione teorica e sul tentativo di ritagliare uno spazio specifico per la Sociologia nel panorama delle altre scienze della società e del comportamento, sia stato indispensabile per il riconoscimento e la legittimazione in ambito accademico della disciplina, è certamente vero. Ma non è il punto che qui mi interessa esaminare; la questione è piuttosto il livello di esposizione pubblica, l’utilità e la ricaduta sociale delle competenze di cui dispone la figura del sociologo accademico. Non si tratta cioè di stabilire se e quanto l’inserimento della Sociologia nella università e la contestuale crescita della speculazione teorica siano state un passaggio obbligato affinché alla disciplina fosse riservato un posto di prima fila nel parterre accademico; tanto meno mi preme qui valutare i risultati acquisiti e il credito oggi attribuito agli studi e alle ricerche condotte dai sociologi italiani sul piano internazionale; che peraltro, almeno in taluni ambiti e in alcuni ambienti, hanno una posizione di tutto riguardo.
Indubbiamente, la questione è complessa, più di quanto si possa dar conto nello spazio di una nota che non si propone di stilare un bilancio degli studi sociologici nel nostro paese. Altri l’hanno fatto, con maggiore autorevolezza e competenza, richiamando lo scontro dei grandi paradigmi teorico-ideologici che monopolizza il periodo che va dalla metà degli anni Sessanta a tutto il successivo decennio; l’abbandono precipitoso e per taluni versi inaspettato degli interessi per le teorie generali o totalizzanti negli anni Ottanta e l’affacciarsi di un pluralismo delle teorie che prepara una frammentazione fittizia degli interessi in tante sociologie specialistiche prive di un denominatore comune e in gran parte ingiustificate in una scienza ancora «acerba» come la Sociologia. Al dunque, una varietà spesso episodica di interessi che, come osserva Filippo Barbano in riferimento all’attività di studio e ricerca degli anni Ottanta, dà «un’impressione di mutevolezza e contingenza, come se si rincorressero ondate e mode» (1992, p. 18).
Naturalmente non sarebbe difficile tentare di ricapitolare le ragioni alla base di queste «mutazioni», riconducibili fra l’altro alla perdita dei grandi antagonismi ideologico-politici che avevano caratterizzato i lunghi anni della guerra fredda, al collasso della centralità del lavoro industriale, agli innumerevoli stimoli che forniva, alla riflessione sociologica e agli interessi del ricercatore sociale, la rapida espansione dell’intervento pubblico in campo sociale, cui facevano da corollario interessi, diritti, soggetti sociali e movimenti di nuovo conio, direttamente o indirettamente collegati alla formazione dello stato sociale[12]. Di più sarebbe difficile e azzardato sostenere in poche, poco più che allusive, battute.
Sia come sia, difficile immaginare che tutto ciò non abbia avuto conseguenze importanti sulla funzione sociale e civile della Sociologia, sulla narrazione della realtà sociale e sui rapporti con il pubblico. Secondo Barbano, negli anni Ottanta, che segnano il culmine della presenza della disciplina nei curricula universitari, «la Sociologia in Italia… ha cominciato… a perdere di forza e di pubblica esposizione» (1992, p. 78); con segni evidenti di debolezza per quanto concerne la cumulabilità e la rilevanza sociale dei prodotti della ricerca, che spesso si rivela priva di una strategia e di una visione complessiva delle fonti del proprio lavoro, dei propri interessi e della propria collocazione nel sapere sociale. Ovviamente, la società è cambiata, sono emerse nuove sfide, nuovi scenari, di non agevole concettualizzazione; sfide e problemi, «che – come nota Ranci – richiedono un forte atteggiamento esplorativo, capacità di saldare analisi empirica forte e attrezzata metodologicamente con il coraggio di produrre interpretazioni nuove», rifuggendo dalla tentazione di «richiudersi nel proprio orticello disciplinare, continuando a coltivare i buoni semi piantati in una stagione ormai passata… con il rischio di perdersi in un eccesso di specializzazione autoreferenziale».
4. Le ragioni della crisi
La situazione odierna è per molti versi paradossale. Perché, da un lato è indubbiamente cresciuta negli ultimi anni l’esigenza «di comprendere come funziona la società, quali fenomeni la attraversano, quali soggetti ne sono protagonisti», dall’altro le analisi e le ricerche sociologiche mainstream appaiono sempre più «ripiegate su sé stesse, su discussioni spesso bizantine e astratte, in cui contano più le preoccupazioni accademiche che l’interesse e la curiosità scientifica»[13]. In effetti, «la crisi attuale – scrive Ranci – svela impietosamente i limiti della Sociologia italiana…, che da un lato non è in grado di fornire modelli e ricette ai decisori delle politiche, e non sembra possedere la competenza tecnica sufficiente a sviluppare modelli concreti di risposta ai problemi, e dall’altro ha anche rinunciato ad assumere una posizione di critica sociale nei confronti della società, degli interessi dominanti, del potere»[14].
Va da sé che non sarebbe giusto e onesto fare di ogni erba un fascio. Che la crisi in atto abbia certamente contribuito a evidenziare problemi e insufficienze della cultura sociologica del nostro paese è innegabile, ma come ovunque – paesi e discipline – la realtà si compone di luci e ombre. La Sociologia italiana ha certamente prodotto e continua a sfornare studi e ricerche di buon livello; ha aperto ed esplorato percorsi interessanti e, in taluni ambiti, nulla ha da invidiare agli studi e alle ricerche più accreditate nel panorama della letteratura internazionale. Ancora una volta, tuttavia, ciò che qui interessa non è un bilancio comparativo della qualità e quantità della produzione sociologica hic et nunc, quanto analizzare le conseguenze, le ricadute, che sulla sua utilità pubblica ha avuto l’istituzionalizzazione della Sociologia all’interno delle università; effetti che, con ampio beneficio di inventario[15], si possono riassumere in due aspetti: l’isolamento disciplinare della Sociologia e l’inadeguata formazione della figura del sociologo; aspetti che, come vedremo, sono strettamente collegati.
a. La divisione disciplinare
La divisione disciplinare nel campo delle scienze sociali è stata oggetto di pesanti critiche da parte di molti autori. Queste separazioni – scrive Wallerstein – «costituiscono barriere all’avanzamento delle conoscenza piuttosto che stimoli alla sua creazione»; e osserva giustamente come spesso le differenze all’interno di ognuna di queste cosiddette discipline siano molto più grandi di ciò che le separa dalle altre (1991, trad. it. p. 257). Di qui, per superare lo stato di disordine e confusione prodotti da questa frammentazione, la necessità di una «ristrutturazione del sistema universitario… [con] l’abolizione dei dipartimenti di economia, Sociologia, antropologia, scienza della politica, geografia, storia, e la loro fusione in un singolo dipartimento di scienze sociali storiche… con specifici programmi di formazione» (Wallerstein 1991, trad. it. p. 111). Forte e chiaro! Ben altro, per richiamare un’ultima volta Burawoy, che spezzare il capello in quattro nel tentativo di costruire una tassonomia di modi e stili diversi di fare Sociologia. Comunque sia, sulla necessità di lavorare per la riunificazione di «una scienza sociale frantumata in modo fittizio» si esprimono anche Bourdieu (2001, trad. it. p. 125) e Wright Mills (1959, trad. it. pp. 96, 116 e 148), entrambi imputando specificamente all’università la responsabilità di aver «incoraggiato gli studiosi di scienza sociale a spezzettare i loro problemi… [in una] curiosa divisione di settori accademici […] e di una specializzazione estrema».
La questione del superamento della divisione del lavoro nelle scienze sociali non è certo una novità; ma è divenuta sempre più urgente nel momento in cui queste discipline, in particolare la Sociologia, sono entrate a far parte dei programmi di studio universitari con corsi, istituti e facoltà dedicate. La ragione è persino banale ed è stata già accennata prima. L’accesso a pieno titolo della Sociologia nel sistema universitario impone condizioni e modalità di lavoro affatto specifiche. Naturalmente, perché questo accada è necessario che l’accademia diventi il contesto elettivo, quando non esclusivo, della professione del sociologo. Ed è quello che, come abbiamo visto, è avvenuto in Italia a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. L’organizzazione accademica separa di fatto il mestiere del sociologo in due momenti distinti; escludendo l’impegno burocratico-amministrativo, la figura del sociologo universitario si divide in quella del ricercatore e del docente, del formatore, riducendo il tempo da destinare all’attività di ricerca vera e propria. Data la struttura gerarchica del sistema accademico, gli obiettivi di carriera finiscono per assumere un’importanza primaria sia ai fini economici sia di prestigio accademico e professionale, verso l’interno e verso l’esterno; e, in assenza di rigorosi criteri valutativi che premino l’attività di ricerca empirica, rendono assai più conveniente ridurre l’investimento nel lavoro di ricerca, più oneroso in termini di risorse, tempo e incerto nei risultati, a tutto vantaggio di una pubblicistica meramente speculativa e storico-antologica.
Un altro effetto dell’inserimento della Sociologia nell’organizzazione universitaria riguarda i finanziamenti. La remunerazione dei docenti nell’università è giustificata essenzialmente per l’attività didattica e l’aggiornamento; salvo eccezioni, il grosso dei sostegni economici alla ricerca non proviene dal mondo accademico. Per molti anni, la regola è stata che le discipline «umanistiche», alle quali la Sociologia è di regola assimilata, sono state destinatarie di finanziamenti relativamente irrisori, comunque sia insufficienti a mettere in cantiere la progettazione e la conduzione di rilevanti iniziative di ricerca. Anche questo ha contribuito a spingere gli studiosi di Sociologia a fare di necessità virtù e a orientare il proprio lavoro verso un maggior interesse per la teoria e la pura speculazione. Anche il rifugio nella «scolastica» (nel duplice senso del termine) è, per molti aspetti, frutto di questa situazione.
Nella medesima direzione spinge anche il fatto che la conduzione della ricerca empirica sia divenuta col passare degli anni sempre più costosa. Le ricerche dotate di un adeguato livello di rappresentatività statistico-campionaria sono ormai alla portata (economica e strumentale) esclusivamente dei grandi istituti di ricerca. In mancanza di quella rete di fondazioni scientifiche e filantropiche che altrove assicurano un cospicuo sostegno finanziario all’attività di ricerca, ai sociologi che operano nelle università non resta che ripiegare sullo studio di piccoli e spesso insignificanti ambiti della realtà sociale; e, come si esprimeva causticamente Wright Mills, volenti o nolenti sono costretti a rifugiarsi «nella specializzazione estrema… che per essi equivale a “ricavare libri da altri libri” o a “pura speculazione”» (1959, p. 116).
Questa situazione è anche figlia della divisione disciplinare del lavoro nelle scienze sociali. Finanziamenti a parte, la realtà odierna è talmente complessa che sarebbe assurdo pensare di affrontarne lo studio muniti di un sapere e di un corredo di strumenti limitati ad un solo ambito disciplinare. La pretesa «razzia» che, secondo Lévi-Strauss, la Sociologia avrebbe praticato nei confronti delle altre scienze della società è roba che, se mai c’è stata, appartiene a una velleità ormai tramontata; un atteggiamento predatorio, imperialistico, di bracconaggio, della Sociologia oggi sarebbe assolutamente privo di senso e comunque destinato al fallimento. La complessità della società globalizzata impone il ricorso a strumenti appartenenti a comparti disciplinari finora tenuti distinti e, per ragioni puramente corporative, non comunicanti, e caratterizzati da percorsi formativi, stili di lavoro, criteri di giudizio, posti e carriere separate.
L’aveva chiaro Wright Mills più di mezzo secolo fa: «la formulazione e la soluzione… dei problemi… esigono una scelta di materiali, di concezioni e di metodi, che va fatta in più di una disciplina» (1959, trad. it. p. 152)[16]. L’accostamento di competenze disciplinari diverse nello stesso team di ricerca per ovviare a questa carenza non è sufficiente. La risposta alle crescenti difficoltà di lettura e rappresentazione della realtà impone anche un profondo, radicale, ripensamento del percorso formativo del sociologo. Al quale è indispensabile, come presupposto al lavoro di ricerca sul campo, un (almeno) minimo corredo di nozioni di economia, demografia, diritto, statistica ecc. Senza il quale si riesce al più a cogliere uno spicchio minimo della vita sociale, e non è detto che sia significativo; ma soprattutto, non è detto che sia sufficiente a ricostruirla nella sua interezza e complessità. Poiché, come osserva Wallerstein, «la sfera economica, quella politica, l’ambito sociale o socioculturale, non sono luoghi autonomi dell’azione sociale» (1991, trad. it. p. 258).
b. Il percorso formativo
Al «disordine» degli studi sociologici, di cui parla Wallerstein, ha certamente contribuito anche la formazione della figura del sociologo. Senza alcuna pretesa di ricostruire come sia cambiata nel corso dei decenni, mi limito a rilevare che la questione della formazione è strettamente imparentata con gli sviluppi della Sociologia (in Italia e altrove, evidentemente) e in particolare con il progressivo inglobamento della disciplina nei corsi universitari. Laura Balbo, con riferimento alla situazione degli anni Sessanta e Settanta, osservava amaramente come, sin d’allora, non vi fossero nell’università «condizioni neppure minime per la formazione e la ricerca…, la Sociologia si insegna a decine di migliaia di studenti, ma sui libri, senza attrezzature di ricerca… un’esperienza universitaria che non forma professionalmente e non qualifica» (Balbo 1975, pp. 201-203).
Ma è difficile dire che cosa abbia pesato di più in questo percorso; se l’ansia di risalire da una condizione residuale e di subalternità della Sociologia nella gerarchia accademica, attraverso l’accumulo compensativo di posti, risorse, studenti; l’esigenza di acquisire una certa autonomia nel panorama del sapere, ovvero la fretta di «marcare» un proprio territorio di competenze, con proprie teorie, propri metodi di ricerca, un proprio vocabolario. Quel che è certo è che, in questo sforzo di riconoscimento accademico, la Sociologia sembrerebbe essersi preoccupata più di differenziarsi che di integrarsi e cercare percorsi formativi comuni con le altre scienze sociali. Percorsi indubbiamente più onerosi e complicati e forse anche meno efficaci rispetto al raggiungimento degli obiettivi di cui si è detto; ma, con il senno di poi, certamente più proficui, più stabili e soprattutto di gran lunga più soddisfacenti, anche dal punto di vista dell’inserimento lavorativo, per quanti ne erano i naturali destinatari. Ovviamente manca la possibilità di una verifica controfattuale; al più possiamo affacciare una congettura. Questa: che l’università ha certamente fatto del bene ai sociologi, meno, molto meno, alla Sociologia.
Anche questa questione della formazione fu oggetto all’inizio di vivaci discussioni e prese di posizione, in un aperto confronto di opinioni su quale dovesse essere la strada migliore per dare una preparazione adeguata alla figura del sociologo. In seguito, con l’apertura delle facoltà umanistiche a tutti coloro che erano in possesso di un diploma di scuola superiore e l’esplosione dell’università di massa, prevalse l’esigenza di «irrobustire» la disciplina più sul piano delle quantità che della qualità. Il passaggio decisivo fu probabilmente la creazione delle facoltà di Sociologia, vere e proprie roccaforti indipendenti della formazione del sociologo. Le quali hanno indubbiamente offerto la possibilità di moltiplicare gli insegnamenti, le cattedre, accrescere il numero di studenti e le risorse, ma pagando un dazio piuttosto salato: quello di aver trasformato l’area della formazione del sociologo in una sorta di «zona franca», contribuendo così ad approfondire ulteriormente la distanza tra la Sociologia e le altre discipline sociali, il cui inserimento nei curricula formativi è stato sempre relativamente marginale.
Ho fatto cenno prima alle discussioni che hanno accompagnato le prime fasi di consolidamento della Sociologia in Italia; convegni e dibattiti che avevano per tema il rapporto della Sociologia con le altre scienze sociali e del comportamento e quanto questi nessi sarebbero dovuti essere tenuti presenti nel percorso formativo[17]. All’epoca, questa questione era in un certo senso imposta dalle circostanze e dagli interessi che assorbivano l’attenzione e il lavoro dei sociologi: fenomeni quali l’industrializzazione, la struttura delle classi, l’urbanizzazione del territorio, i cambiamenti demografici, i processi migratori, le relazioni industriali ecc., non potevano in alcun modo essere di esclusiva pertinenza di una particolare disciplina; l’analisi di questi fenomeni richiedeva comunque l’impiego convergente di una pluralità di prospettive disciplinari e di approcci di metodo. Sicché diveniva pressoché immediato cogliere le carenze che caratterizzavano la formazione culturale e tecnica del sociologo all’interno delle università.
Nella seconda metà degli anni Settanta, il Consiglio di scienze sociali nominò una commissione con l’incarico di studiare i problemi dell’insegnamento delle scienze sociali; erano stati chiamati a farne parte sociologi, storici, economisti, pedagogisti ed esperti ministeriali. Il rapporto che la Commissione diede alle stampe due anni dopo recava il titolo Scienze sociali e riforma della scuola secondaria, ma entrava anche nel merito dei problemi dell’insegnamento delle scienze sociali nel ciclo di studi universitario. Di questa proposta non se ne fece nulla, o quasi; e tuttavia, credo valga la pena riprenderla qui a grandi linee non fosse altro perché costituisce – per differenza – un riferimento significativo alla definizione di un curriculum formativo da cui da allora l’ordinamento universitario ha preso le distanze.
Le proposte della Commissione per l’inserimento delle scienze sociali nella scuola secondaria superiore possono essere agevolmente estese al percorso universitario. «Ciò che serve – scrivevano – è un curriculum unitario a pianta larga, articolato in due momenti distinti e sequenziali.» Un biennio di base, seguito da un triennio di formazione specialistica, orientato all’apprendimento dei processi sociali. Nel primo, «la preparazione generale dovrà ovviare ad una settorialità prematura, mentre nell’altro la specializzazione in un determinato settore dovrà evitare la genericità del processo formativo»[18]. Quanto ai corsi di laurea in Sociologia, essi «hanno in comune una deficienza irrimediabile, e cioè la mancanza di una sia pur elementare preparazione economica (per non parlare di quella giuridica). In fondo, essi rappresentano non tanto la salutare reazione a una formazione umanistica di tipo tradizionale, quanto il suo travestimento in superficiali forme socializzanti e psicologizzanti» (AA.VV. 1977, p. 131).
Con il senno del poi, non c’è dubbio che queste indicazioni mantengano appieno la loro validità; con la sola precisazione che il biennio propedeutico, nell’attuale ordinamento universitario riformato, equivale al triennio della laurea e il successivo triennio ai due anni della specialistica. Comunque sia, il primo triennio formativo dovrebbe essere di tipo polivalente e dedicare la maggior parte dei corsi all’apprendimento delle discipline di «prima approssimazione»; quelle discipline di base che hanno valore strumentale per la lettura della realtà sociale, ovvero per l’acquisizione di quelle nozioni propedeutiche che metterebbero a disposizione dello studente gli strumenti necessari all’analisi dei processi economici, dei rapporti giuridici e dell’ordinamento normativo, dei fattori demografici, del quadro politico-istituzionale, e delle tecniche statistiche e statistico-economiche (precedute da un adeguato studio delle matematiche) che permettono la descrizione elementare della struttura e del funzionamento della società. Su queste nozioni di base, potrebbero in seguito innestarsi – riprendendo la proposta della Commissione – «indirizzi di studio più circoscritti e anche differenti orientamenti professionali» (AA.VV. 1977, p. 134).
Chiudo riportando ancora poche righe del documento, laddove si sostiene che il curriculum formativo proposto sia «tutt’altro che facile. E tale deve essere. È infatti ormai tempo di sfatare l’immagine di una professione di ripiego, alla quale ci si può preparare senza troppo sforzo, supplendo con l’improvvisazione o con la capacità di intrattenimento alla carenza di formazione culturale e di preparazione specifica» (AA.VV. 1977, p. 137).
Considerazioni
Più in là non intendo inoltrarmi in questa nota; salvo osservare, non tanto a margine quanto in conclusione di una riflessione che avrebbe certamente meritato maggior respiro e maggiori approfondimenti, che se i suggerimenti della Commissione fossero stati seguiti, anche solo orientativamente, dalle riforme che da allora a oggi si sono susseguite dell’ordinamento didattico universitario, forse non avremmo avuto – non in queste proporzioni, perlomeno – il problema dell’inserimento nel mondo del lavoro dei laureati dei corsi di laurea e delle facoltà di Sociologia, né ci troveremmo oggi a discutere delle difficoltà della Sociologia dal punto di vista del suo rilievo civile e della sua utilità pubblica.
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