AIS

2013/1

La memoria difficile in Italia: trauma culturale e pratiche commemorative della Resistenza (Italy’s difficult past: cultural trauma and commemorations of the Resistance), di L. Mori and L. Migliorati


Lo scopo che il testo si propone è quello di esaminare le potenzialità descrittive della teoria del trauma culturale recentemente proposta da Alexander (2006a, 2012). Com’è noto, nella prospettiva adottata dal sociologo di Yale, la traumaticità è da intendersi non come qualcosa d’inscritto nelle caratteristiche oggettive degli eventi, ma come uno status che gli episodi in questione raggiungono solo dopo essere passati attraverso un complesso trattamento interpretativo che vede protagonisti attori appartenenti alle più svariate sfere istituzionali (scienziati, politici, religiosi, intellettuali, burocrati ed artisti). Due sono i limiti che affliggono questo modello. Il primo, già discusso in letteratura (Smelser 2004, Joas 2005), ha a che fare con le difficoltà che s’incontrano nel negare qualsiasi oggettività alla dimensione traumatica degli eventi. Il secondo, non ancora messo bene in luce dalla critica, riguarda invece l’unidirezionalità del movimento descritto da Alexander. Nel suo registro, la costruzione del trauma culturale può subire rallentamenti, interruzioni, o addirittura non iniziare per niente. Tuttavia, una volta compiuta, essa pare essere definitiva e i significati che propaga non sembra possano essere più messi in discussione. Prendendo in esame le vicende italiane riguardanti la memoria collettiva della Resistenza, l’articolo cerca di mostrare come la realtà del trauma culturale designi, al contrario, un processo che non può mai dirsi concluso una volta per tutte, una realtà profondamente instabile e mutevole, sempre soggetta a revisioni e negazioni.

Italy’s Difficult Past: Cultural Trauma and Commemorations of the Resistance

The article aims to test the descriptive capabilities of the theory of cultural trauma recently proposed by J.A. Alexander. It is well known that in Alexander’s perspective trauma is not to be viewed as embedded in the objective traits of events. On the contrary, trauma is conceived as a status that the episodes in question can achieve only when interpreted by social actors from many different institutional spheres (scientists, politicians, priests, intellectuals, bureaucrats, artists, etc.). This model has two main shortcomings. The first, already discussed by critics, has to do with the problems involved in rejecting the notion of events being objectively traumatic. The second, not yet fully acknowledged in the literature, is connected to the one-way nature of the movement described by Alexander. The social construction of cultural trauma can be delayed, stopped or even never actually start. Nevertheless, once it has been accomplished, it seems to acquire a definitive character and the meanings it conveys are not subject to any form of contestation. By analysing the collective memory of the Italian Resistance, the article shows how cultural trauma is better conceived as an open-ended, deeply unstable process, subject to constant revision and negation.

Premessa

Lo scopo che ci prefiggiamo in questo saggio è d’indagare le potenzialità descrittive del modello di costruzione del trauma culturale recentemente elaborato dal sociologo statunitense Alexander. Per raggiungerlo abbiamo ritenuto opportuno utilizzare parte del materiale empirico che abbiamo raccolto in occasione di una ricerca etnografica – tutt’ora in fase di svolgimento – dedicata alle commemorazioni della Resistenza che periodicamente si svolgono nel territorio della provincia di Bergamo[1].

Le ragioni che ci hanno spinto ad accostare il modello alexanderiano del trauma culturale alle pratiche commemorative della Resistenza sono diverse. In primo luogo, è fuor di dubbio che, in primissima approssimazione, la fondazione della democrazia repubblicana nel nostro paese è passata attraverso i momenti traumatici della dittatura fascista e della guerra civile, il cui superamento, generando la Carta costituzionale, ha costituito (o avrebbe dovuto costituire) il più importante plesso simbolico tra quelli che sono stati posti alla base della nostra moderna comunità nazionale. Sotto questo aspetto, quindi, stando – come si vedrà – alle tesi di Alexander, quella della Resistenza dovrebbe rappresentare una memoria massimamente condivisa, dove l’intera società italiana trova la fonte più pura della propria identità collettiva. In secondo luogo, poi, lo studio dei rituali commemorativi costituisce un aspetto assai utile per verificare la riuscita o meno della costruzione del trauma culturale. Come si vedrà tra breve, nel discorso di Alexander, essi costituiscono, infatti, gli indicatori della riuscita elaborazione collettiva del trauma e dell’inclusione dei suoi significati alla base della struttura identitaria di una società.

Volendo anticipare già qui alcune delle conclusioni, il caso della memoria italiana della Resistenza getta non pochi dubbi sulla tenuta complessiva del modello di Alexander, che ci appare eccessivamente unidirezionale e, se ci si passa il termine, semplificatorio. Più nel dettaglio, ciò di cui Alexander pare, a nostro parere, non accorgersi riguarda la natura squisitamente relazionale del trauma. Affinché, infatti, il trauma sia aggettivabile in termini culturali, occorre che siano individuati vittime e carnefici. Ma vedersi attribuito lo status di carnefice può, a sua volta, costituire un evento traumatico, in grado di mobilitare gli individui o i gruppi ritenuti colpevoli al fine di dimostrare l’infondatezza delle accuse loro rivolte e la malafede delle presunte vittime. Non solo, ma è possibile anche che alcuni attori sociali, non direttamente chiamati in causa dagli avvenimenti, spaventati dagli effetti laceranti che i drammi del passato possono giocare sulla società del presente, siano portati a censurare gli aspetti traumatici degli eventi, proponendone memorie edulcorate e, per così dire, asettiche. Questo gioco conflittuale ed autoalimentantesi di rimandi continui fa del trauma culturale un processo che non può mai dirsi concluso una volta per tutte e prefigura, al contrario, una realtà giocoforza instabile, mutevole, sempre soggetta a revisioni e negazioni. Per cercare di argomentare questi accenni abbiamo ritenuto opportuno procedere come segue. Nel primo paragrafo, riprendiamo per sommi capi i passaggi decisivi del processo di costruzione del trauma nella versione che ne offre Alexander. Nel secondo paragrafo, invece, prenderemo in esame tre eventi commemorativi della Resistenza, che rappresentano altrettante memorie e altrettanti protagonisti del trauma: i vincitori, i vinti e quelli che potremmo definire come gli «astanti». Nel terzo ed ultimo paragrafo, ritorniamo sul discorso di Alexander, ponendone in evidenza i limiti riscontrabili alla luce delle risultanze empiriche.

1. Il concetto di trauma nella sociologia culturale di Alexander

Il concetto di trauma culturale è relativamente recente e, per quanto ci è dato sapere, il suo utilizzo resta limitato all’ambito delle scienze sociali. La sua formulazione più compiuta è attribuibile ad Alexander, sociologo statunitense allievo di Bellah (a sua volta uno dei più brillanti studenti di Parsons), impegnato intensamente nel corso degli anni Ottanta in un’opera di revisione dello struttural-funzionalismo (Alexander 1983; Alexander and Colomy 1985) e protagonista, più di recente, della messa a punto di un progetto teorico marcatamente orientato in senso culturalista (Alexander and Smith 2001). Essa appare ed è approfondita nell’ambito di tre saggi, disponibili da alcuni anni anche in italiano (trad. it. 2006), che Alexander ha continuato a presentare e ripresentare in una serie di pubblicazioni, alcune anche recentissime. Nello specifico, si tratta dello scritto dedicato alla memoria dell’Olocausto[2], di quello dedicato all’attacco terroristico alle Torri Gemelle del 2001[3] e del saggio teorico centrato esplicitamente sul concetto di trauma culturale[4]. Nella discussione che segue, faremo riferimento principalmente a quest’ultimo, per quanto non mancheremo di rimandare anche agli altri due lavori. Attingeremo, inoltre, al noto volume collettaneo esplicitamente dedicato al trauma culturale (Alexander et al. 2004). Quest’opera, oltre a due scritti di Alexander, raccoglie i contributi di sociologi della statura di Smelser, Sztompka, Giesen, Eyerman. Diciamo da subito che, nonostante Alexander affermi nell’introduzione che il volume costituisce il punto di arrivo di una serie di seminari sul trauma culturale che hanno condotto gli autori a sviluppare una prospettiva comune, i singoli saggi evidenziano, secondo noi, divergenze teoriche anche piuttosto marcate (in particolare, tra le impostazioni seguite da Smelser e quelle seguite, invece, dallo stesso Alexander) di cui tenteremo di dare conto più avanti.

L’analisi di Alexander muove da una critica radicale e, per alcuni, sin troppo sbrigativa (Joas 2005) alla visione psicoanalitica del trauma. A suo parere, la traumaticità non è una proprietà che può essere derivata dalle caratteristiche oggettive di un evento. Al contrario, essa è il frutto di un complesso percorso di costruzione sociale. Ispirandosi al concetto di spirale di significazione, sviluppato da Thompson[5] (1998) nel corso della sua analisi dei fenomeni di panico morale, Alexander mostra come il trauma, lungi dall’essere qualcosa che accade, è al contrario uno status che alcuni eventi raggiungono soltanto dopo essere passati attraverso il trattamento interpretativo di specifiche cerchie sociali, i cui risultati devono essere, in seguito, accettati e condivisi da fasce sempre più ampie di popolazione (Alexander 2003).

Che l’opzione costruttivista sia presa molto seriamente da Alexander lo dimostra il fatto che la cerchia sociale da cui tutto il percorso di significazione deve partire è proprio quella formata da coloro che hanno subìto il potenziale evento traumatico. Ciò significa che nemmeno i soggetti eventualmente categorizzabili come vittime sono sin da subito consapevoli di ciò che è loro accaduto. Perché lo divengano, occorre che al loro interno si sviluppi un processo di elaborazione semantica in grado di ridefinire da capo a piedi l’identità sociale del gruppo. Poiché secondo Alexander le decisioni non sono mai prese dalle collettività in quanto tali, ma sempre dagli agenti che le formano, la spirale di significazione trova allora il suo inizio all’interno della coscienza individuale. Occorre, in altre parole, che vi sia almeno un membro della cerchia delle possibili vittime che inizi a percepirsi come tale e che sia disposto a persuadere gli altri riguardo la natura traumatica di ciò che è loro accaduto.

Due sembrano essere, quindi, gli atti di convincimento che forniscono la base per l’inizio della spirale di significazione. Il primo svolto dall’individuo su se stesso e il secondo svolto sempre dall’individuo verso il gruppo di cui è parte. Com’è intuibile, ciò che conduce il gruppo a pensarsi come traumatizzato è un percorso assai contingente che si articola sulla base di diversi fattori. Innanzi tutto, la situazione in cui esso si svolge, intendendo con ciò il contesto storico, istituzionale e soprattutto culturale. In secondo luogo, la configurazione del potenziale gruppo di vittime, ovvero la composizione sociologica che caratterizza la cerchia dei possibili portatori del trauma: estrazione sociale, livello culturale, appartenenze ideologiche e religiose, struttura delle relazioni che corrono tra loro ecc. Infine, l’ultimo fattore è rappresentato dall’individuo, da colui cioè che si propone come agente del cambiamento identitario. A questo riguardo, risulta di assoluta importanza la sua abilità nel costruire e rappresentare una narrazione convincente degli avvenimenti che hanno investito il gruppo. È, in sostanza, il successo dell’atto linguistico individuale a costruire la realtà del trauma al livello del gruppo. Solo se la rappresentazione costruita dal parlante sarà in grado di catturare emotivamente e cognitivamente la propria «audience», potremo dire allora di trovarci innanzi a una collettività portatrice di un trauma. Se, al contrario, la narrazione proposta dal soggetto non sarà in grado di assorbire in sé le varie identità (daccapo ideologiche, culturali, di classe ecc.) presenti nel «pubblico», la formazione del gruppo portatore di trauma non avrà luogo e lo stesso processo di costruzione sociale del trauma sarà interrotto sul nascere.

Non è difficile osservare qui un rimando alla teoria della pragmatica culturale elaborata altrove da Alexander[6]. A quella teoria, cioè, che farà della felicità degli atti performativi l’ingranaggio principale di tutti i meccanismi di costruzione identitaria. Come abbiamo appena detto è, infatti, il successo della performance narrativa operata dall’individuo a produrre quell’identità del trauma alla base di tutta la dinamica. Il punto è che, per una performance di successo, non sono soltanto necessari buoni attori, ma occorre anche dotarli di copioni avvincenti. Di narrazioni che rappresentino con efficacia gli avvenimenti e che siano in grado di attribuire loro significati convincenti; significati, cioè, in cui tutti i membri dell’audience abbiano piena possibilità di riconoscersi. E tali narrazioni non possono essere costruite sul nulla, ma devono per forza di cose poggiare su di un solido strato semantico-culturale. Intendiamo dire che esse devono essere costruite rielaborando i significati presenti nei tratti culturali più ampi e generali che, in un preciso momento storico, caratterizzano una determinata società (Alexander 2004; Kidder 2009)[7].

Una volta compiuta con successo la costituzione del gruppo portatore, non è tuttavia ancora possibile parlare del trauma in termini culturali. Perché lo sia, è necessario che il processo di significazione continui ad estendersi, arrivando ad includere nelle sue spire, dapprima la società di cui sono parte le vittime ed, in seguito, nei casi più riusciti, la più vasta comunità internazionale. A tal fine, è necessario che il gruppo portatore ottenga il riconoscimento della propria identità entro quelle che, sempre Alexander (2003), chiama «arene istituzionali», ambiti differenziabili in base al tipo di gioco linguistico che si svolge al loro interno. Alexander distingue, ad esempio, l’arena mediatica, quella burocratico-statale, quella giuridica, quella religiosa, quella scientifica. Molto in sintesi, è necessario che l’evento vissuto dal gruppo portatore sia trattato in base ai codici impiegati da ciascuna di queste diverse arene e che riceva da esse lo status di trauma.

Va da sé che, anche qui, abbiamo a che fare con una serie di processi altamente complessi e contingenti che, volendo semplificare, dipendono dalla capacità che il gruppo portatore ha di penetrare all’interno di ogni arena, dalle dinamiche di potere che le regolano e dalle relazioni che intercorrono tra di esse. A questo proposito, i rapporti tra il gruppo portatore e le ideologie politiche dominanti, quelli tra il gruppo portatore e le confessioni religiose più influenti, l’indipendenza o meno della magistratura, le scoperte e le interpretazioni degli storici rappresentano solo alcuni dei fattori che possono incidere sulla costruzione sociale del trauma a livello istituzionale. Da notare, comunque, che nonostante la precisione più o meno marcata dei codici con cui lavorano i singoli ambiti istituzionali, la dimensione narrativa e performativa non è affatto espunta da questa fase. Al contrario, essa continua a giocare un ruolo di primo piano, che può risultare decisivo nell’orientare e riorientare il lavoro di costruzione sociale condotto entro le diverse arene[8].

Una volta ultimato con successo il lavoro istituzionale, il trauma risulterà costituito in termini culturali. Ciò significa essenzialmente che, all’evento in questione, sarà attribuito un significato (quello per l’appunto di essere stato un evento traumatico) unitario e condiviso a livello collettivo. Arrivati a questo stadio, non sarà solamente l’identità collettiva del gruppo portatore ad essere stata ridefinita, ma anche l’intera identità collettiva della società. Quel che qui importa sottolineare con forza è che, a questo stadio, per Alexander, segue la routinizzazione della memoria del trauma. Ovvero, una volta costruito, il trauma culturale riceve un proprio spazio all’interno del pantheon mnemonico della collettività e lì sembra essere destinato a restare per sempre. Con le parole di Alexander: «la spirale di significazione si appiattisce, le emozioni si raffreddano, le preoccupazioni su sacralità e profanazione si affievoliscono […]. I discorsi sul trauma, in precedenza intensificatisi e divenuti sempre più influenti, spariscono, le lezioni del trauma prendono forma oggettiva all’interno di monumenti, musei e collezioni di reperti storici. La nuova identità collettiva sarà radicata all’interno di apposti spazi sacri e pratiche rituali» (2003, trad. it. p. 156).

1.1 Una costruzione troppo ardita

Se, da un lato, questa descrizione ha l’indubbio pregio di «sociologizzare» una nozione come quella di trauma, fino a poco tempo fa di stretta pertinenza delle discipline mediche e psicologiche, dall’altro, essa ci sembra affetta da due limiti principali. Il primo, già discusso in letteratura, riguarda la radicalità e, se ci si passa il termine, l’imprudenza con cui Alexander imbraccia l’opzione costruttivista nell’interpretare il concetto di trauma. Il secondo, che a quanto ci risulta non è stato ancora notato, concerne invece l’unidirezionalità di cui sembra soffrire tutto il suo modello e la difficoltà che esso manifesta ad accogliere entro di sé un aspetto a nostro avviso centrale della questione, ovvero la provvisorietà e l’incertezza dello status culturale del trauma. Vediamo, dunque, rapidamente il primo limite, per poi dedicarci ad approfondire maggiormente il secondo alla luce delle indicazioni che ci provengono dalla nostra indagine sulla memoria della Resistenza.

Come ha scritto Santoro (2006) nella sua presentazione a La costruzione del male, Alexander pare oscillare tra una forma debole di costruttivismo e una forma forte. Pare, cioè, oscillare tra la posizione che fa della realtà e degli eventi dei semplici effetti delle pratiche interpretative degli attori sociali e quella che considera queste pratiche come dispositivi di mediazione simbolica, rispetto a una realtà per la quale è comunque rivendicata un’esistenza autonoma. Per quanto riguarda il saggio sul trauma culturale, è fuor di dubbio che Alexander propenda per una declinazione forte, anzi fortissima, del costruttivismo[9]. Tant’è che, sin dalle primissime battute dello scritto, egli non esita a racchiudere tutte le formulazioni per così dire realiste, ivi comprese quelle mediche e psicoanalitiche, in quella che bolla come teoria profana del trauma (Alexander 2003). Così facendo, Alexander pare sottrarre qualsiasi legittimità alla dimensione psicologica, precludendosi la possibilità di articolare chiaramente le connessioni tra le conseguenze psicologiche e sociali del trauma, da un lato e, dall’altro, i processi interpretativi e identitari che innesca la sua memoria collettiva (Joas 2005). Che dire di quelle persone e di quelle comunità – di cui peraltro anche lo stesso testo di Alexander abbonda d’esempi – che soffrono terribilmente per delle violenze subite e che, tuttavia, non hanno visto riconosciuto il loro dolore? È possibile sostenere che esse non abbiano oggettivamente subìto un trauma? Oppure, al contrario, è possibile ritenere che il mancato riconoscimento della loro traumatizzazione abbia acuito ancor di più il loro dramma e la loro disperazione[10]? A ben guardare, il processo descritto da Alexander pare aver a che fare più con la cura del trauma che con il trauma in sé. Non ci sembra, infatti, così lontana dal vero l’idea che la culturalizzazione del trauma, intendendo con ciò la sua interpretazione comune e l’inclusione della sua memoria nell’identità collettiva di un intero Paese, costituisca uno dei sentieri che possono portare al suo superamento.

Nell’analisi dei rapporti tra dimensione psicologica e dimensione culturale del trauma, una posizione più equilibrata (e che, in seguito, tornerà utile al nostro ragionamento) ci sembra essere quella espressa da Smelser (2004) nella collettanea su trauma culturale e identità collettiva di cui parlavamo poco sopra. Nel suo contributo, egli riprende le note distinzioni parsonsiane tra personalità, società e cultura, per affermare come un evento violento che investe un’intera collettività possa avere impatti differenti su questi tre livelli. Un genocidio, una guerra, una crisi economica, un terremoto o una terribile inondazione possono, ad esempio, dare origine a un trauma di massa e, dunque, pur costituendo un fattore di profonda alterazione delle biografie individuali e della struttura sociale nel suo complesso, non arrivare a trasformare l’identità collettiva. Oppure, possono stimolare un processo comune d’interpretazione e finire, così, per cambiare l’orizzonte simbolico e valoriale di un’intera comunità nazionale. Per Smelser, esistono quindi non due, ma tre dimensioni del trauma, tutte legittime e perfettamente individuabili: quella psicologica individuale, quella sociale ed infine quella culturale.

Veniamo ora al secondo limite. Come abbiamo indicato chiudendo il precedente paragrafo, per Alexander, al termine del processo di costruzione sociale del trauma culturale, segue una routinizzazione della sua memoria. L’effervescenza e il fermento collettivi che avevano in precedenza segnato la società, lasciano spazio alle pratiche di musealizzazione e di celebrazione rituale della memoria del trauma. Il momento commemorativo, quindi, rappresenterebbe una sorta di cartina di tornasole, l’indicatore che testimonierebbe della riuscita operazione di costruzione culturale del trauma. Senza dubbio, tutto questo non è affatto accaduto riguardo al trauma fondativo della memoria collettiva del nostro Paese, vale a dire, la memoria della Resistenza e della liberazione dal nazifascismo. Attorno alla Resistenza e al «passato difficile» della guerra civile combattuta in Italia tra il 1943 e il 1945, si sono andati costruendo discorsi e pratiche memoriali, attivi nella sfera pubblica, incongruenti e ambivalenti, talvolta diametralmente opposti. Perché? Come si è stratificata la memoria di quegli accadimenti da allora ad oggi? Perché questo conflitto è a tutt’oggi presente – talora quiescente, talaltra incandescente – nel discorso memoriale della Nazione e attiva scontri simbolici, retorici e politici che sembrano rinnovare una guerra le cui armi sono state deposte da ormai settant’anni?

Per tentare una risposta a queste domande, è necessario abbordare la questione della multiformità delle retoriche e delle pratiche di memoria prodotte dalla società italiana attorno alla fondazione della Repubblica dopo il fascismo. Si tratta di un tema complesso perché chiama in causa differenti livelli di analisi[11]. In queste pagine, ci limiteremo a prendere in considerazione il contesto della memoria pubblica della Resistenza come scaturigine di conflitti tra memorie diverse di medesimi eventi, da parte di gruppi appartenenti alla stessa comunità nazionale.

2. Le memorie della fondazione della Repubblica: spirali contrapposte

La questione è, in fondo, semplice: la Resistenza è stata istituzionalizzata nel discorso pubblico della Nazione come momento fondante della rinascita democratica dell’Italia dopo il 1945 e come catarsi del Paese dopo l’adesione acritica, i silenzi e le correità di larghi segmenti della società italiana con il regime fascista; tuttavia, questa narrazione non è mai trascesa in mito fondativo della comunità nazionale.

I valori della Resistenza e dell’antifascismo sono sanciti nella Costituzione repubblicana[12] e costantemente rinnovati nella retorica istituzionale del Paese[13] (Focardi 2005). Tuttavia, da sempre la Resistenza divide le coscienze e, dal 1945 ad oggi, si sono affermate, accostate e opposte differenti interpretazioni del biennio 1943-1945, a seconda dei momenti storici e delle convenienze politiche del momento. Come ha sintetizzato Pezzino,

ancora oggi la Resistenza, pur avendo contribuito in misura decisiva alla rinascita democratica dell’Italia, non rappresenta il mito fondatore di una nuova identità nazionale […], quanto piuttosto un segno di divisione tra gli italiani (1997, p. 229).

Ci troviamo, quindi, di fronte ad un curioso paradosso che certamente la riflessione di Alexander non aiuta a sciogliere: benché l’architettura istituzionale del Paese si fondi esplicitamente sull’antifascismo quale orizzonte di senso irrinunciabile della nazione, le rappresentazioni e le pratiche di memoria che, a vari livelli, dovrebbero istituzionalizzare quel discorso e saldare la coscienza collettiva nazionale rappresentano, invece, spesso conflitti e divergenze che rendono quasi indefinibile la natura della memoria di quel passato. Più precisamente, la memoria pubblica dell’antifascismo e della Resistenza è stata, nel tempo, utilizzata come arma di battaglia politica tra fazioni opposte, piuttosto che come riferimento simbolico unitario e unificante dell’Italia repubblicana, al punto che pare lecito chiedersi se la Resistenza e l’antifascismo possano costituire ancora, nel presente e per il futuro, degli utili referenti per il fondamento dell’ethos democratico in Italia.

Si tratta di una questione che riguarda espressamente il modo in cui la Resistenza viene rappresentata nello spazio e nel discorso pubblico della Nazione, oltreché nelle pratiche di memoria che lo sorreggono. Insisteremo, dunque, su questi punti per cercare di descrivere, almeno a grandi linee, la complessità della questione.

Attorno alla Resistenza si sono consolidate differenti narrazioni memoriali, variamente qualificate, a seconda dei differenti milieux politico-culturali in cui sono state elaborate. Come ha acutamente notato Cenci, il tratto che le unifica è l’anomia, laddove si intende con questa espressione che si tratti di memorie fra loro irrelate e meramente giustapposte: «fanno riferimento a universi diversi e non comunicanti; usano immagini e linguaggi fuori tempo; costituiscono un “agglomerato indigesto”» (1999, p. 326).

Una breve (e certamente incompleta) ricerca bibliografica su questo tema ci ha restituito risultati quantomeno curiosi. Delle rappresentazioni – genericamente intese – «della Resistenza» si è parlato nei termini di memoria fratturata (Foot 2009), memoria frantumata (Focardi 2005), memoria divisa (Contini 1999; Portelli 1999; Pezzino 1997), memoria difficile (Peli 1999) o memoria silenziosa (Cavalli 1996). Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo proposto la categoria affine, benché centrata sulla questione delle pratiche commemorative, delle memorie conflittuali (Migliorati e Mori 2011). Le linee attorno a cui sembrano sbriciolarsi queste memorie sono altrettanto numerose. Linee interpretative: memoria antifascista, partigiana, fascista, immemore (Cenci 1999); memoria rossa, nera, grigia, antitotalitaria, scettica (Chiarini 2005). Linee diacroniche: secondo Risorgimento (1946–1960), rivoluzione mancata (1960–1975), guerra civile (1975–1990), morte della patria (1990–presente) (Fogu 2006), piuttosto che trionfo dell’antifascismo (1945–1955), uso politico (anni Sessanta e Settanta) e crisi dell’antifascismo (anni Ottanta e presente) (Focardi 2005), o ancora centralità dell’antifascismo nel dibattito pubblico (1955–1963), problemi di trasmissione (1964–1972), crisi definitiva dell’antifascismo (1973–1978) (Paggi 1999).

Nella varietà di definizioni e aggettivazioni che abbiamo riscontrato, ci è parso di rinvenire tutta la difficoltà di sussumere entro categorie predeterminate – sul piano della periodizzazione (il quinquennio, il decennio, il quindicennio o altro), piuttosto che dell’interpretazione (l’uso politico della Resistenza rispetto ai problemi di trasmissione, la crisi, più o meno definitiva dell’antifascismo negli ultimi decenni, e via dicendo) – un conflitto di memoria per nulla sopito, i cui contorni sono tutt’altro che chiari almeno sul piano simbolico, retorico e politico. Questo, se da un lato rappresenta un caso emblematico di memoria attiva e vivificata nel presente della comunità nazionale, dall’altro, aumenta la difficoltà nel decifrare e descrivere i contorni di un fenomeno che pare tanto sfuggente quanto complesso. Vorremmo provare ad illustrare, almeno per sommi capi, le linee di tendenza generale di questa complessità, utilizzando alcuni spunti che ci provengono dall’osservazione di alcuni rituali commemorativi svolti periodicamente in provincia di Bergamo. Abbiamo analizzato alcune commemorazioni relative a episodi della Resistenza armata, promosse da organizzazioni differenti per estrazione politica, istituzionale e culturale. Si tratta di una commemorazione di matrice antifascista, una marcatamente neofascista e una particolare «Festa della Liberazione» promossa dall’amministrazione comunale di Caravaggio. Ci riferiremo ad esse, rispettivamente, nei termini della memoria dei vincitori, della memoria dei vinti e di quella che chiameremo, in via ipotetica, memoria inappartenente. Il tratto che le accomuna è il conflitto memoriale che, in maniera più o meno esplicita, viene articolato in esse: dal nostro punto di vista, queste commemorazioni costituiscono delle vivide arene istituzionali in cui il ricordo del passato agisce come potente catalizzatore nell’interpretazione del presente.

2.1 La memoria dei vincitori

Tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre del 1944 a Cornalba, nel bergamasco, ebbe luogo un rastrellamento di partigiani della brigata di Giustizia e Libertà «XXIV maggio» da parte dei militi della RSI della 612° compagnia «OP» guidata dal comandante Aldo Resmini. In due diverse azioni, furono torturati e uccisi quindici partigiani. Nella memoria della piccola comunità della Val Brembana, rimane una traccia indelebile di quello che è stato ribattezzato l’eccidio di Cornalba, simboleggiato dall’immagine della «mitraglia sul campanile» (Bianchi 1987, 1994) che ricorda il fatto più cruento di quei giorni: i partigiani che scappavano verso il bosco dirimpetto la chiesa furono falcidiati dalle raffiche della mitragliatrice repubblichina piazzata sulla sommità del campanile.

Fin dal 1945, l’Anpi provinciale di Bergamo organizza una commemorazione dei caduti di Cornalba. La cerimonia si svolge secondo un canone rituale fissato nelle molteplici ripetizioni annuali. I partecipanti si danno appuntamento a Bergamo per la «formazione dell’autocolonna» diretta verso i luoghi della morte dei partigiani. Si toccano alcuni centri della Val Brembana come Zogno, Ambria e Rosolo; si passa dal laghetto di Algua, per giungere infine a Cornalba. Qui, alla presenza dei rappresentanti istituzionali e dei gonfaloni dei comuni che diedero i natali ai partigiani caduti, viene celebrata una messa in suffragio dei morti e officiata la commemorazione civile. Questa si compone di discorsi commemorativi di vari rappresentanti dell’associazionismo antifascista locale e dei sindaci o loro delegati dei comuni intervenuti. Segue un omaggio alla tomba dei «caduti russi» (militari russi inquadrati nella «XXIV maggio» e morti nel rastrellamento dei quali si conosce soltanto il nome di battaglia) presso il cimitero del paese. Infine, per chi lo desidera, è possibile partecipare a un pranzo conviviale in compagnia dei maggiorenti delle associazioni intervenute. Durante la commemorazione alla quale abbiamo partecipato, nel 2010, abbiamo assistito a un fatto particolare che ha rotto l’ordine rituale della cerimonia strettamente codificato. Durante i discorsi commemorativi, il vicesindaco, esponente della Lega Nord, di uno dei comuni invitati ha chiesto ai presenti: «un pensiero per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro. Ecco permettetemi di ricordare con una preghiera anche i tanti giovani che morirono schierati dalla parte opposta. Per aver combattuto a modo loro per l’Italia credendo sino all’ultimo di essere nel giusto»[14]. Si è trattato di un breve cenno che, tuttavia, non è sfuggito ai partecipanti che hanno reagito con pochi, timidi applausi e qualche mugugno a mezza bocca. E non è sfuggito neppure agli oratori che sono seguiti, i quali hanno reagito stizziti a quella che deve essere suonata loro come un’insensata provocazione. Il presidente del Comitato provinciale antifascista, in particolare, ha rinunciato al suo intervento scritto per ribadire, parlando a braccio, quella che ha inteso come «la necessità di dire ancora una volta queste parole con fermezza»[15], ossia distinguere fermamente tra chi è caduto dalla parte della libertà e chi è caduto per difendere una dittatura mortifera e violenta. Il suo intervento è stato salutato da uno scroscio convinto di applausi da parte degli astanti, a sottolineare la riaffermazione della narrazione memoriale prodotta e inscenata in quel contesto: il contesto dei vincitori.

Durante il ventennio, l’insieme delle forze che si opponevano al fascismo furono esplicitamente private del diritto di cittadinanza e rappresentanza. Gli antifascisti erano bollati come nemici della patria, tanto più infidi in quanto appartenenti alla medesima comunità nazionale (Cenci 1999). Questo assunto concorse a costruire un’identità ben definita, nel contesto della Resistenza, attorno ai combattenti partigiani e al milieu politico-culturale entro cui si situavano. Da un lato, l’appartenenza di partito agiva da potente catalizzatore dell’appartenenza antifascista: si era comunisti, socialisti, azionisti o popolari in quanto oppositori al fascismo. Dall’altro, la medesima appartenenza testimoniava della volontà di costruire un’Italia diversa da quella che si era sperimentata, vissuta e subìta sotto il regime fascista. Di qui, vennero il riferimento alla lotta di Resistenza come orizzonte simbolico di rinascita democratica e di catarsi collettiva per un secondo Risorgimento[16] e la necessità di elaborare l’esperienza del regime. Quella che ne derivò fu una elaborazione semplificata, parziale e largamente autoassolutoria. Il fascismo sarebbe stato, cioè, una sorta d’incidente, di parentesi oscura nella vera storia d’Italia, che affondava le proprie radici nel processo di unificazione nazionale e nel Risorgimento. Data questa interpretazione, si trattava di dimenticare e cancellare la parentesi oscura del ventennio e di riprendere il cammino interrotto alla caduta della democrazia liberale nel 1922. Si tratta di un’elaborazione parziale, perché implica una sorta di rimozione del fatto che molti italiani erano stati fascisti convinti e dell’idea che l’opposizione ad esso non venne totalmente dal basso. Come ha efficacemente sintetizzato Cavalli, il fascismo

si era retto su un grado di consenso pur sempre cospicuo e [molti] avevano subito il regime senza entusiasmi, ma anche senza segni forti di opposizione. La Resistenza è stata sì una guerra di popolo, che ha coinvolto le masse, ma è stato comunque un fenomeno di minoranze attive (1996, pp. 51-52).

La memoria antifascista della Resistenza è la memoria dei vincitori. In questo senso, i discorsi e le pratiche che le ineriscono sono quelli maggiormente rappresentati nello spazio pubblico del ricordo. Pur tra le alterne vicende e fortune politiche delle forze che componevano il fronte antifascista all’indomani della Liberazione, la narrazione egemonica della Resistenza (Focardi 2005) ha costituito il modo attraverso cui la memoria di quegli eventi è stata tramandata, almeno fino agli anni Sessanta, tanto nei discorsi, quanto nella pratica commemorativa (Cenci 1999).

Per il testimone della Resistenza, per il partigiano, la valenza emotiva, affettiva ed etica della sua esperienza è declinata in una modalità memoriale tutta particolare. Secondo un’interpretazione particolarmente originale proposta da Cenci, la natura antropologica della banda partigiana è quella di una comunità liminare investita del ruolo di gestire il passaggio dall’Italia fascista all’Italia liberata, dal «non più» del regime fascista travolto dall’8 settembre al «non ancora» della repubblica (1999). La conseguenza implicita dischiusa da questa interpretazione è che, in quanto communitas liminare, la banda partigiana è destinata a morire, «anche nella memoria». Se così è, allora, il testimone della Resistenza è investito, fin nella fisicità del suo essere, della valenza etica di portare un messaggio, di ammonire i suoi interlocutori circa l’importanza del ricordo. La testimonianza del vecchio partigiano è, allora, inscritta dentro un frame eminentemente pubblico, che istituisce la resistenza, anzi la Resistenza, come un grande evento fondatore di senso, il cui sviluppo si colloca in una dimensione essenzialmente politica. Così, «per gli ex partigiani […] il raccontare è una pratica immediatamente politica, qualcosa che si fa oggi perché le giovani generazioni sappiano, perché certi valori non vadano perduti» (Dei 2007, p. 47). Tutto ciò implica una stabilità del racconto del testimone fissato nelle molteplici ripetizioni e nella struttura narrativa. Il suo primo compito è mantenere vivi gli ideali che l’hanno presupposta. Il testimone è investito del ruolo sociale di dare letteralmente corpo agli ideali di libertà, giustizia e democrazia perseguiti nella guerra di liberazione. Una metafora tanto più potente e pressante, quanto più siamo fatalmente avviati alla transizione dall’era del testimone (Wieviorka 1999) al giorno dopo l’ultimo testimone (Bidussa 2009).

Anche sul piano delle pratiche di memoria della Resistenza si è prodotto un processo analogo. Le celebrazioni istituzionali della Resistenza – pensiamo, naturalmente, in primo luogo a quelle per il 25 aprile, ma un discorso analogo si potrebbe fare per la commemorazione di Cornalba – si sono progressivamente monumentalizzate e fissate in rappresentazioni stabili e rigidamente codificate. Se questo ha consentito di costruire un canone memoriale immediatamente riconoscibile e interpretabile, d’altro canto, ha trasformato la memoria pubblica della Resistenza in un complesso di rappresentazioni rigide: la memoria della Resistenza, almeno nella sua dimensione istituzionalizzata nella narrazione antifascista, ha perso la capacità di essere elaborata, continuamente plasmata, decostruita e ricostruita sulla base delle istanze del presente (Leccardi 2009). La memoria antifascista e partigiana della Resistenza, per lungo tempo egemonica nel dibattito pubblico italiano, conserva ancora un ruolo di primario valore e importanza, ma è innegabile che mostri elementi di oggettiva fragilità[17]. L’insieme di questi fattori ha prodotto una sorta di mancato riconoscimento del valore fondativo della Resistenza nella costruzione della democrazia repubblicana. Così, la memoria pubblica di quegli eventi è divenuta, a sua volta, fragile perché poco riconosciuta e riconoscibile. Essa ha dovuto, per così dire, imporsi sotto le spoglie di una memoria sacralizzata (Todorov 2000), ipertrofica (Dei 2007) e monumentale (Nietzsche 1874). In una parola, in una memoria da accettare o rifiutare in toto, dove un terzo non è dato. La memoria dei vinti agisce, in questo senso, il più netto dei rifiuti.

2.2 La memoria dei vinti

Alla fine di aprile del 1945, a Rovetta, un piccolo paese della montagna bergamasca, una colonna di quarantatré militi della Legione Tagliamento della Repubblica Sociale Italiana si arrende e consegna le armi al locale CLN, dietro la promessa di avere salva la vita. In circostanze mai ben chiarite fino in fondo, anche se decisivo fu l’intervento di un agente dello Special Operations Executive (SOE) inglese (Bendotti e Ruffini 2008), i militi, tutti di età compresa tra i quindici e i ventidue anni, vennero fucilati nei pressi del cimitero del paese da parte di alcuni partigiani. Il processo, intentato presso il tribunale di Brescia alcuni anni dopo, si arrestò alla fase istruttoria sentenziando il «non luogo a procedere» nei confronti degli imputati (i comandanti partigiani della zona) poiché i fatti dovevano essere considerati atti di guerra accaduti nel breve stato di eccezione intercorso tra l’insurrezione generale del 25 aprile e l’istituzione dell’amministrazione militare alleata (1° maggio 1945).

Per lungo tempo, di questa vicenda si è detto poco e scritto ancora meno. Tuttavia, da una ventina d’anni a questa parte essa è tornata di stringente attualità e un non meglio precisato «Comitato Onoranze caduti di Rovetta», insieme a varie associazioni di reduci della RSI e a diverse sigle parapolitiche della variegata galassia della destra estrema (da Forza Nuova a Continuità ideale), organizza un raduno commemorativo annuale che, nel tempo, si è intensificato e ingrossato contando oggi sulla partecipazione di qualche centinaio di persone. La commemorazione consiste in due momenti: uno «laico» all’esterno del cimitero, nel corso del quale viene scandito l’appello dei militi fucilati tra sventagliate di saluti romani e tonitruanti «Presente!» in onore dei militi, di Benito Mussolini e della Repubblica Sociale Italiana; e un secondo momento «religioso» che consiste nella celebrazione di una messa in latino in suffragio dei caduti all’interno del cimitero. Officiante dell’intero complesso commemorativo è un prete lefebvriano, noto negli ambienti della destra estrema come il «prete rosario e manganello» per i discorsi espliciti che pronuncia in pubblico, per aver definito la propria tonaca «una camicia nera, solo un po’ più lunga» e per le sue ambizioni politiche nei movimenti della destra estrema mai coronate da successo. Uno dei momenti più significativi della commemorazione è il sermone che il prete pronuncia durante la messa e che si basa su un canovaccio sostanzialmente immutabile: una feroce aggressione verbale nei confronti dei suoi tre nemici giurati, il «laicismo liberale», l’«ateismo marxista» e, soprattutto «gli islamici», «che con le nostre leggi ci invadono e con le loro ci sottomettono»[18].

Il caso di Rovetta, ci pare esemplifichi bene il secondo contesto memoriale su cui vorremmo spendere qualche parola: la memoria dei vinti.

Il racconto egemonico di matrice antifascista della vicenda resistenziale ha dovuto misurarsi fin dalla sua prima elaborazione con «la memoria antagonista e rancorosa del neofascismo» (Focardi 2005, p. 19), con le accuse e le criminalizzazioni, con le ondate revisionistiche, quando non «rovescistiche» (d’Orsi 2009) dei tempi più recenti. È la memoria dei vinti, dei repubblichini, di coloro che stavano «dalla parte sbagliata», per usare una goffa espressione politically correct. A caratterizzare il complesso memoriale di marca neofascista sono due fattori: da un lato, si tratta di una memoria che si è installata molto precocemente nel dibattito pubblico italiano; dall’altro, si tratta di una narrazione fortemente identitaria.

Quanto al primo punto, Germinario ha sottolineato come «nei primi anni cinquanta l’universo politico e organizzativo neofascista poteva dirsi già formato e stabilizzato nel mercato politico italiano» (2005, p. 19). Questo è potuto accadere per la concomitanza di tre fattori: la vitalità della destra estrema e neofascista italiana già all’indomani della fine della guerra nel 1945, la sua visibile e costante presenza politica nelle istituzioni repubblicane fin dal 1948; infine, in conseguenza di questi due primi fattori, il suo ruolo di modello per la ricomposizione delle diverse destre neofasciste europee. La memoria dei vinti, dunque, data da lungo tempo; è vecchia quanto quella dei vincitori: ha sin da subito goduto di una rappresentanza (anche) istituzionale che, però, non ha mai ottenuto un riconoscimento condiviso a livello della comunità nazionale. La commemorazione di Rovetta costituisce una valida prova di queste ultime affermazioni. Fin dall’immediato dopoguerra, si svolgevano commemorazioni dell’evento, sia a Rovetta, sia presso il cimitero del Verano, a Roma, dove i resti dei militi furono trasferiti nel 1947. Dagli anni Sessanta, la tomba di Rovetta (vuota, ma adorna di una bandiera della RSI, di un’effigie di Mussolini e dello stemma della Legione Tagliamento) è stata meta di sparuti gruppi di nostalgici repubblichini. Nel 1997, poi, l’evento ha preso ad essere commemorato in via pressoché ufficiale grazie alla legittimazione che i promotori hanno ricevuto dalle istituzioni politiche locali, che hanno consentito l’affissione di alcune targhe commemorative all’esterno del cimitero, lapidi sostituite a spese del comune all’indomani di un’azione dimostrativa da parte di ignoti, nella quale sono state distrutte. Oggi, il raduno di Rovetta è, per numero di presenze, secondo solo a quelli che si svolgono a Predappio.

La memoria neofascista, l’altra memoria, quella che ha cercato di «privare la Resistenza della cittadinanza italiana» (Germinario 1999, p. 91), è apparsa, dopo la fine della guerra, come una memoria sociale al di là delle diverse memorie collettive (Namer 1987). Infatti, se per lungo tempo le narrazioni contromemoriali di matrice neofascista della Resistenza sono rimaste confinate in contesti ristretti, magari individuali o familiari o, al più di ristrette cerchie, da qualche anno a questa parte esse sono riemerse, dando o ridando vita a gruppi sociali che si fanno carico di nuove memorie collettive. La commemorazione di Rovetta ben esemplifica questo paradigma memoriale. Ciò che in essa appare molto chiaramente è proprio la rivitalizzazione di aggregazioni sociali che si coalizzano attorno ad una narrazione memoriale, fino ad oggi rimossa dal discorso pubblico, che si impone con tutta la sua carica di rancori, rivendicazioni e richieste di riconoscimento. In questo senso, la memoria di matrice neofascista rappresenta l’identità rivendicata di un segmento della comunità nazionale che non si vuole dimenticata, né far dimenticare.

2.3 La memoria inappartenente

Dal 2000 l’amministrazione comunale leghista di Caravaggio, medio centro della pianura bergamasca, organizza una cerimonia istituzionale di celebrazione del 25 aprile, tanto partecipata quanto controversa, che si caratterizza per il fatto di fare degli alleati anglo-americani i soli protagonisti simbolici del racconto della Liberazione, evitando qualsiasi riferimento alla Resistenza e al conflitto tra partigiani e repubblichini. In questo modo, gli aspetti tragici e traumatici del 25 aprile risultano completamente anestetizzati e la sua commemorazione prende i toni della sagra di paese.

Per dar conto dell’atmosfera che si respira a Caravaggio il giorno della Liberazione, non possiamo non descrivere sinteticamente quanto abbiamo potuto osservare durante la commemorazione del 2011. Si incomincia con la deposizione, da parte delle autorità cittadine accompagnate da ex militari in divisa d’ordinanza, di un omaggio floreale alla tomba di un giovane paracadutista del paese, morto nel 1971 nel corso del suo servizio militare al largo dell’isola della Meloria. Si prosegue con il corteo, formato dai rappresentanti di diverse associazioni d’arma e guidato dal sindaco in fascia tricolore, verso la piazza centrale del paese, dove si radunano diverse bande e fanfare che eseguono vari brani di un repertorio militare e nazionalpopolare. Tra queste, le più cospicue sono quella dei bersaglieri in bicicletta (indimenticabile l’esecuzione strumentale di ‘O surdato ‘nnamurato) e una banda di cornamuse scozzesi (che ha sostituito quest’anno un corteo di motociclette Harley Davidson che spiccava, incongruo, l’anno precedente). Al termine di questo momento, il pathos drammatico della giornata raggiunge il sabba. Tra due ali festanti di folla e lo sventolio di migliaia di bandierine americane e inglesi offerte dall’organizzazione, sfila un centinaio di mezzi militari d’epoca: carri armati, jeep, mezzi anfibi, sidecar, affusti di cannone, figuranti in divisa, mezzi cingolati e via dicendo. La cerimonia prosegue con la celebrazione di una messa nel santuario del paese e con la declamazione di alcuni brevi discorsi di circostanza. Il più sentito tra questi viene dal presidente della provincia di Bergamo, ideatore di questa commemorazione, a lungo sindaco di Caravaggio, qui presente in veste istituzionale. Con il mento sollevato come assaporando l’aria e con fare complice, si rivolge alla folla: «se annusate sentite nell’aria il profumo della libertà! È là in fondo! Buon appetito!». Tutti, a questo punto, si indirizzano verso il rinfresco a base di salsicce e birra «che serviamo in quantità non indifferente» (sic)[19] offerto dal comune. È il momento che chiude la giornata e la commemorazione.

Abbiamo definito, in via provvisoria, il quadro in cui inscrivere questa commemorazione come memoria inappartenente.

Quel che sembra suggerire la cerimonia di Caravaggio è l’idea di una memoria della fondazione della Repubblica, che si costruisce al di fuori e al di là dei canoni ufficiali inscritti nella tradizione sui cui si è retta per più di sessant’anni. Proprio per questo, essa contiene anche un messaggio implicito di svalutazione dei valori dell’unità e dell’identità nazionale. Quello proposto a Caravaggio è un modello di memoria che trascende tanto la memoria dei vincitori, quanto quella dei vinti. È una memoria inappartenente: non celebra la storia della comunità locale (o nazionale), non ha valori da difendere, non intende rafforzare identità lì rappresentate: i partigiani sono derubricati a «caduti» da celebrare in altra sede (il 4 novembre), la Repubblica è il prodotto di una scelta operata con il bilancino politico da altri e contro la volontà popolare, la Liberazione non attiene il ricordo del dolore subìto (o inflitto), ma la gioia che ad essa si è accompagnata. A Caravaggio, pare necessario cercare un terzo attore, esterno alla comunità nazionale, da celebrare, nella malcelata ipotesi che gli attori interni, segnatamente quelli istituzionali, siano indifendibili[20].

Accanto a questo primo elemento, gli attori istituzionali della cerimonia indicono un discorso memoriale fondato essenzialmente sulla categoria dell’intrattenimento e del divertimento, utilizzati come risorse simboliche di rovesciamento completo dell’immaginario memoriale consolidato, per sovvertire il discorso storico di fondazione della Nazione. Questo sovvertimento può suonare più o meno così: la Repubblica non nasce dalla Resistenza, ma dall’azione degli alleati; la storia «ufficiale» è dunque falsa e la memoria dei vincitori mendace. L’Italia repubblicana, in ultima analisi, è il frutto di un grossolano inganno collettivo[21], gli imprenditori della memoria di Caravaggio non sono che, hegelianamente, eroi di questo spirito della storia, destinato a ristabilire la verità.

Questo complesso di significati rende di difficile interpretazione e classificazione l’insieme delle rappresentazioni collettive sottese alla commemorazione perché ciascuno di essi, singolarmente inteso, può essere considerato parzialmente aderente alla realtà storica: i partigiani sono anche caduti in guerra, la Repubblica è stata anche un progetto politico eterodiretto, la Liberazione è stata anche il momento della gioia e della catarsi nazionale; ma non solo. Un’operazione che ci è parsa particolarmente sofisticata e di grande interesse socio-antropologico. Dematteo (2007) ha efficacemente descritto il funzionamento di questo meccanismo riattualizzando la nozione gramsciana di «sovversione reazionaria». La memoria celebrata a Caravaggio sovverte i canoni della memoria istituzionalizzata rompendo con una narrazione che definisce come obsoleta, stanca, non rispondente ai bisogni (agli istinti?) «della gente». E lo fa utilizzando elementi reazionari, principalmente il disinteresse verso la Resistenza. Nei meccanismi che attiva, la memoria narrata a Caravaggio è prossima a quella di matrice neofascista rappresentata a Rovetta. Come ha notato Germinario, per il radicalismo di destra «la Resistenza diviene un fenomeno storicamente inesistente che non merita particolari attenzioni» (1999, p. 133). Lo stesso avviene per la memoria inappartenente celebrata a Caravaggio. Essa non appartiene a nessuno: non ai vincitori, perché non fanno parte del corpo della nazione e, se vi partecipano, non sono protagonisti della sua storia; non ai vinti perché, almeno sul piano formale, sono espunti dalla narrazione inscenata. La memoria inappartenente è una memoria anodina, che non santifica e non degrada, non cura e non ferisce e, per questa ragione, si tratta anche di una memoria fortemente censoria. Tutto il suo scenario è occupato da forze esterne (gli alleati) che essa utilizza come foglie di fico, dietro le quali nascondere le profonde lacerazioni traumatiche che il regime fascista e la guerra di liberazione hanno inferto al corpo sociale italiano[22].

3. Andate e ritorni

Tutto quest’excursus sulla memoria della Resistenza mostra, a nostro avviso, come la realtà del trauma culturale costituisca un terreno assai conflittuale, dove il momento commemorativo non rappresenta semplicemente l’espressione di una memoria condivisa. Al contrario, esso può costituire la ribalta ove mettere in scena la sclerotizzazione degli scontri interpretativi che hanno segnato il lavoro delle sfere istituzionali (Cossu 2007) ed appronta al contempo un’ulteriore arena entro la quale criticare, riformulare, rivedere le precedenti interpretazioni del trauma[23]. Per tornare ad Alexander, quindi, col suo modello di costruzione sociale del trauma non si riesce affatto a scorgere l’aspetto estremamente problematico della commemorazione (Saito 2006). Il rischio che grava sulle pratiche di memoria non è solo quello della loro routinizzazione e della loro perdita di presa emotiva. Il rischio che grava su di esse è quello di fornire l’occasione per ravvivare, nel presente, quegli scontri che così drammaticamente avevano segnato il passato. Ma c’è di più. Si sarà notato poco sopra che, parlando di Smelser e distinguendo tra trauma di massa e trauma culturale, abbiamo riportato esempi di eventi di sociali come una guerra o un genocidio affiancandoli ad esempi di eventi naturali come un terremoto o un’inondazione. Una delle questioni su cui insiste Smelser (2004), e cui accenna anche lo stesso Alexander (2003), è proprio inerente alla trasformazione di eventi naturali in eventi sociali. Più chiaramente, è comune ad entrambi gli studiosi l’idea che, affinché il trauma venga costituito in termini culturali, è necessario individuare dei colpevoli, è necessario cioè che anche alla base dell’evento naturale sia rinvenuta una qualche forma di responsabilità umana. I geologi non hanno avvertito per tempo la popolazione della possibilità di un sisma imminente, l’abusivismo edilizio ha fatto sì che i costi umani dell’inondazione fossero assai più ingenti, l’obsolescenza e la mancata manutenzione dei reattori hanno trasformato lo tsunami in una catastrofe nucleare. Insomma, perché l’evento sia configurabile nei termini di un trauma culturale, al «frame naturale» occorre sostituire il «frame morale» (Goffman 2001).

Il fatto che il blaming costituisca un elemento fondamentale del trauma culturale, sia che alla sua origine vi sia un elemento naturale sia che, invece, vi sia un elemento sociale, solleva immediatamente alcuni interrogativi: come reagiranno gli incolpati? Che effetto avranno le imputazioni su di loro? Come si difenderanno? Saranno scioccati, impauriti, storditi dalle accuse ricevute? La questione su cui vorremmo portare l’attenzione è la luce particolare che queste considerazioni gettano sull’origine del processo di costruzione sociale del trauma. Essa pare, infatti, configurarsi a propria volta come traumatica, pare cioè finire col rappresentare un evento potenzialmente destabilizzante proprio per quella cerchia sociale su cui vanno a condensarsi le accuse. Il punto che con Alexander non si riesce a cogliere è la natura relazionale di questa nozione. Nella costituzione del trauma culturale, il gruppo portatore deve per forza stigmatizzare come perpetratore un altro gruppo; a loro volta, i perpetratori possono sentirsi vittime di accuse false, irrispettose delle ragioni e dei valori che stavano alla base delle loro azioni, del contesto storico e culturale in cui esse sono state compiute e così via. Non è un caso, ad esempio, che, nella collettanea sul trauma culturale, accanto al saggio di Alexander dedicato alla costruzione sociale dell’Olocausto come il trauma culturale delle comunità ebraiche, appaia anche quello di Giesen (2004c) dedicato sempre all’Olocausto, ma osservato come trauma culturale della nazione tedesca.

Quel che stiamo cercando di dire è che la costruzione del trauma culturale non sconta semplicemente la presenza di una, ma di almeno due o più spirali di significazione. All’allargarsi di una entro la cornice delle arene istituzionali corrisponde il restringimento delle altre. Più un gruppo è quindi riconosciuto essere portatore di trauma, più le accuse che esso rivolge ai responsabili saranno ritenute fondate. Ma il radicalizzarsi della situazione di colpevolezza e il disconoscimento delle ragioni dei perpetratori avranno su di essi un effetto daccapo traumatico. Tale effetto non si configurerà in termini culturali, bensì in termini psicologici e sociali. Ciò non toglie comunque che, in situazioni politiche e storiche particolarmente favorevoli, la cerchia dei perpetratori e/o dei loro eredi ideologici, potrà a sua volta tentare di rielaborare in senso culturale il proprio trauma e così facendo cercare d’operare una revisione di quelle interpretazioni che in precedenza avevano costruito culturalmente il trauma delle vittime.

Come abbiamo avuto modo di argomentare altrove (Migliorati e Mori 2011), la nozione di passato difficile (Wagner Pacifici and Schwartz 1991), che indubbiamente fa da sfondo a tutto il processo del trauma culturale, è spesso utilizzata con una certa insensibilità storica. Esistono diversi gradi e diverse forme di difficoltà del passato. Schematizzando, ci sembra di poter dire che un fattore dirimente sembra essere la vicinanza tra vittime e perpetratori. Più le responsabilità degli eventi riguardano gruppi appartenenti alla stessa società delle vittime e più è probabile che la difficoltà del passato si acuisca e, con essa, anche l’instabilità delle interpretazioni inerenti al significato del trauma. Per questa ragione, le società che, ad esempio, escono da episodi di guerra civile costituiscono casi estremamente interessanti rispetto alle dinamiche che caratterizzano le elaborazioni e soprattutto le revisioni del trauma culturale (Triulzi 2005). Tra i fattori che appaiono come decisivi, per lo meno dal punto di vista simbolico[24], nel decidere della riconciliazione sembrerebbero essere per l’appunto le rimozioni di tutti quegli elementi che potrebbero fornire energia all’espandersi delle spirali di significazione. Questo tipo di problema è stato incontrato dalla gran parte dei ricercatori che si sono occupati del problema di come riconciliare una società dopo la tragedia della guerra civile. Esempi interessanti si possono trovare nelle analisi dedicate al Libano (Haugbølle 2002), al Sudafrica (Nuttall and Coetzee 1998; Bozzoli 2004), alla Cambogia (Huges 2003), all’Irlanda del Nord (Conway 2010), alla Malesia (Giordano 2011). Ciò che sembra comune a questo tipo di esperienze è il tentativo di superare le continue costruzioni e ricostruzioni del trauma non tanto elaborando memorie improbabilmente comuni, quanto piuttosto raggiungendo degli accordi su alcuni aspetti di fondo in grado di smussare quegli attriti tra le parti in causa generati dalle altre più specifiche questioni interpretative[25].

Tuttavia, questi accordi sono da considerarsi daccapo provvisori e sempre suscettibili di essere infranti da parte delle generazioni presenti e future. Tutto ciò sfugge, a nostro avviso, al modello di Alexander, che sembra al contrario prefigurare un viaggio di sola andata. Un viaggio che può essere sì interrotto, ripreso, allungato oppure accorciato, ma che, una volta raggiunta la sua meta, non pare contempli la possibilità del ritorno. Se si può concordare con Alexander riguardo al fatto che il trauma culturale costituisce uno status, occorre immediatamente aggiungere che esso, come del resto quasi tutti gli status, è assai fragile e costantemente soggetto ad aggiustamenti, revisionismi e in alcuni casi addirittura a revoche.

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Wieviorka, A. (1999), L’era del testimone, Milano, Raffaello Cortina.


1

* Il presente contributo è il prodotto di una riflessione davvero comune che ci impegna ormai da qualche anno. In osservanza, tuttavia, alle convenienze accademiche sempre più stringenti, Luca Mori è autore dei paragrafi 1; 1.1 e 3; Lorenzo Migliorati dei paragrafi 2; 2.1; 2.2; 2.3. La premessa è frutto di una comune elaborazione.

[1] Sentiamo il dovere di ringraziare qui i colleghi dell’Istituto bergamasco per la Storia della Resistenza e l’Età contemporanea, in particolare il suo presidente Angelo Bendotti e la sua direttrice Elisabetta Ruffini. I dati che proponiamo in questa sede derivano da osservazioni e ricerche maturate con la loro collaborazione in uno scambio quanto più possibile pluridisciplinare.

2

Inizialmente pubblicato sull’European Journal of Social Theory con il titolo di «On the Social Construction of Moral Universals. The ‘Holocaust’ from War Crime to Trauma Drama», questo saggio è stato riproposto da Alexander nelle seguenti pubblicazioni: Alexander et al. (2004); Alexander (2003). Una versione più breve di questo lavoro è recentissimamente uscita in Alexander (2012).

3

Questo lavoro è apparso originalmente nel marzo del 2004 sul numero 22/1 di Sociological Theory. È stato in seguito ripubblicato in Alexander (2003) e in Alexander, Giesen and Mast (2006).

4

Il saggio appare per la prima volta nella collettanea sul trauma culturale (Alexander et al. 2004) con il titolo di Toward a Theory of Cultural Trauma ed è stato riproposto in Alexander (2012) con il titolo di Cultural Trauma. A Social Theory.

5

A sua volta, Thompson elabora questo concetto rifacendosi alle analisi di Cohen (1972) e di Hall et al. (1978).

6

La teoria della pragmatica culturale si trova ampiamente esposta in Alexander (2004). Una buona discussione dei suoi tratti principali è quella proposta da Cossu (2006). Una serie di analisi empiriche svolte secondo la sua impostazione analitica sono, invece, contenute in Alexander, Giesen and Mast (2006).

7

Si veda, ad esempio, la critica che Alexander (2006) rivolge a Novik (1999) e alla sua interpretazione del ruolo che le comunità ebraiche hanno giocato all’interno della costruzione sociale del trauma dell’Olocausto.

8

In riferimento all’arena giuridica, si possono vedere Bandes (2000), Polletta (2001), Mack and Anleu (2010). In riferimento invece a quella burocratico-statale, si rimanda a Goodman (2006), Rauer (2006). In riferimento, infine, a quella scientifica si rimanda invece a Thagard (2002).

9

In realtà, non è solo nei suoi scritti sul trauma che Alexander mostra maggiore simpatia per una versione robusta di costruttivismo. Per esempio, nell’introduzione a Social Performance, Alexander e Mast (2006) affrontano direttamente la questione, facendone un elemento di distinzione tra l’approccio di Alexander e quello di Giesen. Per Giesen (2006a, 2006b, 2004a, 2004b), sono gli eventi e le emozioni che vi si associano che costruiscono il linguaggio e non il contrario. Meno cripticamente, per questo studioso, l’evento si configura come tale proprio perché le emozioni che suscita fuoriescono dal plesso semantico comune. In questo senso, la costruzione sociale del trauma culturale si risolve in un processo di articolazione (Joas 2002), ovvero, in un processo di innovazione linguistica teso ad attribuire senso a qualcosa che, comunque sia, è accaduto ed è stato percepito. Da questa prospettiva, quindi, l’esperienza dell’evento e dell’emozione sono sì costruite dal linguaggio, ma in termini squisitamente negativi: il linguaggio appronta i limiti che l’evento e l’emozione devono oltrepassare affinché vi sia vera esperienza. Non è un caso che, come ha ricordato Smelser (2004) proprio discutendo la nozione di trauma culturale e i suoi rapporti col trauma psicologico, l’affetto per Parsons (1974) costituisca un mezzo di interscambio di fondamentale importanza anche per il sistema sociale e per il sistema culturale. È articolando le emozioni e ricevendo «controarticolazioni» (Joas 2002) che gli individui possono elaborare un nesso tra la loro dimensione psicologica e i livelli simbolici e relazionali.

10

Un’indicazione a riguardo proviene da Eyerman (2001) e dal suo testo sulla schiavitù come trauma culturale alla base dell’identità afroamericana. Eyerman sostiene, ad esempio, che alla fine della guerra civile americana, fu seguita una strategia di riconciliazione tesa a celebrare gli atti di eroismo militare compiuti da entrambe le parti e a tenere in ombra l’abolizione della schiavitù come una tra le principali poste in gioco del conflitto. La minimizzazione del significato della schiavitù, assieme alla delusione delle aspettative di integrazione sociale, aumentarono notevolmente il dolore e lo sconforto della comunità nera.

11

Per ovvie questioni di spazio, non potremo addentrarci troppo in alcune tematiche che richiederebbero un approfondimento ben più significativo. Pensiamo all’elaborazione critica e autocritica (Jedlowski 2009) dell’esperienza storica del fascismo, anche nelle sue valenze memoriali, alla questione della violenza e di «quel di più di violenza del quale i reduci di tutte le guerre preferiscono in genere non parlare» (Pavone 1991, p. 427) o alla continuità/discontinuità tra regime fascista e democrazia repubblicana, tanto sul piano della transizione giuridica dall’uno all’altra (Portinaro 2011), quanto su quello politico, culturale e finanche memoriale. Ci limiteremo a qualche accenno, rinviando alla bibliografia in calce l’approfondimento di specifiche questioni.

12

La Costituzione della Repubblica, entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, fu il prodotto del concorso delle forze politiche antifasciste rinate dopo l’8 settembre. In questo quadro, la Resistenza armata, combattuta in seno a diverse sensibilità culturali e politiche, aveva avuto «il merito di essere uno dei pochi soggetti che avevano colmato la frattura di legittimazione fra appartenenza privata e sfera pubblica, o, per dirla con parole più crude, fra subculture sociali e stato» (Pombeni 2007, p. 50).

13

Come nota Peli, infatti, «senza la resistenza armata […] non sarebbe stata scritta una costituzione profondamente innovativa sul piano della giustizia sociale» (2006, p. 181). E, a proposito del valore simbolico della resistenza, nota Dei, che «ci sono eventi storici, come appunto la Resistenza, che per la loro rilevanza morale e politica sono posti a fondamento del presente, di cui rappresentano una vera e propria Costituzione» (2007, p. 43, corsivo nostro).

14

Trascrizione dell’intervento dell’oratore, 28 novembre 2010.

15

Trascrizione dell’intervento dell’oratore, 28 novembre 2010.

16

La Resistenza come «secondo Risorgimento» ha trovato espressione in molti aspetti: dai nomi delle brigate partigiane – le «Brigate Garibaldi», per citare il più emblematico – a quelli di singole formazioni e fino a singoli combattenti. Come nota Pavone, «più o meno tutte le posizioni politiche e ideologiche dello schieramento resistenziale, e gli stessi fascisti, si scelsero il proprio pezzo di Risorgimento cui riferirsi» (1991, p. 180). Questa insistenza e, a tratti, questa ambiguità, nel riferirsi alle radici lontane dell’identità nazionale stanno alla base dell’abuso del riferimento risorgimentale.

17

Tale fragilità deve essere ascritta a diversi fattori che in questa sede non possiamo prendere in ulteriore considerazione, ma che sono centrali per la comprensione delle rappresentazioni contemporanee della memoria della Resistenza. Pensiamo alla frammentazione e all’eterogeneità del fronte delle forze antifasciste, al ruolo e al credito concesso dagli alleati ai movimenti patriottici, alla funzione del terrore nazifascista nel minare la fiducia della popolazione nei confronti dei partigiani, all’idea che la resistenza sia stata anche (e per certi versi, soprattutto) un progetto politico prima ancora che militare o di popolo. Per un’introduzione alla tematica si veda Peli (2006, 2004, 1999).

18

Dalla predica pronunciata in occasione del raduno nel 2009.

19

Dall’intervista che il sindaco di Caravaggio ci ha gentilmente concesso il 7 giugno 2011.

20

Ad essere indifendibile, nell’immaginario leghista di Caravaggio, è il fronte antifascista, «i rossi», soprattutto «i no global» che, come ci ha riferito il sindaco, «sono venuti a rompere i c… un paio di volte… la terza volta han cambiato strada… Perché, va bene tutto, ma tu non mi rompi i c… alla mia festa… tu non mi rompi i c… alla mia festa! Tu non vieni a rompermi le balle alla mia festa, perché io ti faccio un c… così». Peraltro, il fronte neofascista è, per un malinteso senso bipartisan, formalmente escluso, anche se ricompare spesso in maniera subliminale: nei discorsi, nei gesti (qualche saluto romano sventaglia qua e là) e nei simboli. Alcuni dei carri armati che sfilano sono ornati di fasci littori e simboli fascisti. Si tratta di un aspetto particolarmente discusso della cerimonia e che ha suscitato roventi polemiche negli anni tra gli organizzatori e le forze politiche e culturali antifasciste che ne hanno preteso la rimozione.

21

Sempre il sindaco di Caravaggio ci ha descritto questo spirito senza reticenze: «noi festeggiamo quello che è la verità, non quello che vogliamo far credere alla gente. La storia dell’Italia va riscritta da quel lato lì! In tanti punti va riscritta perché qualcuno ha voluto far credere alla gente che la storia è avvenuta in quel modo. Non è vero! Non è vero e la storia lo dimostrerà nel futuro».

22

C’è una certa affinità tra quanto notato a Caravaggio e il modello commemorativo che in letteratura è stato definito del consenso controllato. Uno dei casi più frequentemente citati a questo proposito è quello rappresentato dal museo sudafricano dell’apartheid (Teeger and Vinitzky-Seroussi 2007). Nella narrazione proposta dall’istituzione, tramite una sapiente organizzazione degli oggetti mnemonici, le cause dell’apartheid sono interamente riversate sul colonialismo britannico. Nell’attribuire la colpa a un soggetto del tutto esterno, si cerca in questo modo di disinnescare il potenziale lacerante contenuto nel carico di responsabilità che grava sulle spalle delle componenti etniche della società sudafricana.

23

Notiamo, in inciso, che quanto appena mostrato a proposito della Resistenza si affianca ad altre numerose analisi svolte sulle commemorazioni dei cosiddetti passati difficili. In letteratura, sono per esempio noti casi di commemorazioni multivocali (Wagner Pacifici and Schwartz 1991), commemorazioni frammentate (Vinitzky-Seroussi 2002, 2009), commemorazioni ascrivibili al modello del già citato consenso controllato (Vinitzky-Seroussi 2001; Teeger and Vinitzky-Seroussi 2007). Per una loro sintetica trattazione, ci permettiamo di rimandare a Migliorati e Mori (2011).

24

Scriviamo così perché riteniamo che l’altro piano su cui organizzare il processo di riconciliazione sia quello materiale, che ha a che fare con l’individuazione delle vittime e il loro concreto risarcimento. La ricerca sul campo ha posto in evidenza una tendenza piuttosto dannosa a considerare gli aspetti simbolici e culturali come preminenti e a curarsi assai meno di quelli materiali. Per Colvin (2000), questo è, ad esempio, ciò che è successo in Sudafrica, dove l’egemonia del modello «narrativo/psicoanalitico» di riconciliazione imbracciato dalla TRC ha messo in secondo piano (per non dire in terzo o addirittura in quarto) il problema del risarcimento economico e sociale delle vittime.

25

A tal riguardo, Elster (1998) ha individuato come una delle decisioni fondamentali che i protagonisti dei processi di transizione democratica debbono prendere quella riguardante l’identità dei malfattori. Sono, cioè, da considerarsi tali solo gli agenti e i collaboratori del regime dittatoriale, oppure anche quelli connessi agli esponenti dell’opposizione? In riferimento allo specifico caso sudafricano, Gobodo-Madikizela (cit. in Gibson 2004) ha affermato che la caratteristica fondamentale della transizione vissuta da quel paese è stata quella di riconoscere entrambe le parti come autrici di atti orribili. E ha aggiunto immediatamente dopo che questa rappresenta una scelta assai rischiosa, in quanto «in recognizing that both sides produced victims, one may seem to be applying the same moral standards to the actions of the oppressors and those of the group that was fighting to end its oppression. But in societies trying to break the cycle of hatred and revenge, it is important first to acknowledge, as did South African TRC, that human rights abuses were committed by both sides […]» (p. 103).

  • Articolo
  • pp:53-78
  • DOI: 10.1485/AIS_1_2013/TEORIA_RICERCA_3
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