1. Il consolidamento di un progetto professionale
Una lunga fase di costruzione di una pratica professionale in contesti non accademici si è conclusa. Una fase sostanzialmente di sviluppo, seppure lenta e non lineare, segnata paradossalmente da un’identità incerta e non ancora fondata su una base cognitiva adeguatamente definita; una fase in cui la diffusione e il consolidamento della professione apparivano per lo più affidati a una tendenza espansiva delle politiche sociali e sanitarie.
Ora l’identità professionale del sociologo appare ben delineata e condivisa nelle abilità e negli ambiti operativi che la compongono, ma emergono significative difficoltà nel rapporto con altre professioni, nella capacità di esercitare un qualche controllo su aree di attività professionali e qualche frattura nelle relazioni con la disciplina di riferimento.
Nella pratica professionale del sociologo, la ricerca non costituisce più l’abilità esclusiva dell’azione professionale, ma è affiancata da altre modalità conoscitive e d’intervento sulle relazioni sociali. In vari ambiti organizzativi, al sociologo è affidata la decisione di formulare un piano, un progetto d’intervento, di gestire relazioni umane, di decidere sulla continuazione di un servizio utilizzando i risultati di una ricerca valutativa, di compiere un’analisi ed un intervento organizzativo, di produrre relazioni, ambiti e strumenti comunicativi, di costruire insieme ad altre professioni e in termini interattivi, un intervento di inserimento sociale, di promozione della salute, di rigenerazione sociale di un quartiere, di predisporre un quadro normativo consapevole di relazioni umane, un intervento nei confronti di patologie che coinvolgono profondamente relazioni tra le persone e il rapporto con la comunità di appartenenza (Siza 2006).
Ciascuno di questi ambiti professionali e di queste abilità – la valutazione, la progettazione e l’organizzazione dei servizi, la salute, l’analisi organizzativa, la comunicazione, la definizione di modelli d’intervento nelle politiche sociali – richiede costanti aggiornamenti conoscitivi per potere proporre servizi professionali adeguati. Su questo piano permangono disattenzioni e distanze.
La comunità sociologica troppo spesso è considerata coincidente con la comunità accademica. In questo modo si trascura un’area estesa e oramai consolidata di sociologi professionali che operano in una pluralità di contesti, ai quali non si assicurano adeguate risorse conoscitive, di metodi e di tecniche.
Ma l’individuazione e il sostegno conoscitivo a specifiche e distinte prestazioni professionali è solo una parte di un progetto professionale.
Ai sociologi che operano in contesti non accademici raramente la comunità sociologica nel suo complesso assicura un qualche sostegno nei conflitti interprofessionali, con azioni puntuali o con una presenza pubblica che veicoli l’utilità delle professione e della disciplina, che intenda contrastare l’utilizzo improprio di concetti sociologici o azioni professionali generiche o confuse, che si richiamano esplicitamente a presunti sviluppi della Sociologia.
Il sociologo che opera in contesti non accademici non riesce a fronteggiare una domanda di prestazioni professionali crescentemente differenziata, a ricomprendere tale differenziazione attraverso più complessi processi di inclusione professionale, rafforzando il senso di una comune origine e formazione, una solida identità di fondo comune, capace di orientare processi formativi differenziati. Esperti in comunicazione, esperti in valutazione, «sondaggisti», mediatori, esperti in relazioni con il pubblico si affollano in un campo operativo e concettuale tradizionalmente patrimonio dei sociologi, frammentando ulteriormente gli ambiti professionali in una miriade di figure, le cui identità e relazioni reciproche non appaiono adeguatamente individuate, i cui riferimenti concettuali sono labili, le cui abilità spesso sono fondate su un insieme, sostanzialmente limitato, di tecniche e di pratiche operative piuttosto che su un corpo organico di conoscenze.
I recenti provvedimenti di riconoscimento delle associazioni professionali rischiano di consolidare queste separazioni.
2. Le prime esperienze professionali: due aspetti critici e una prospettiva
Per anni abbiamo osservato con naturalità il divario esistente tra un’estesa istituzionalizzazione accademica della Sociologia e un agire professionale che invece incontra resistenze ed ostacoli, che solo recentemente è riuscito a definire una propria identità ed assumere un ruolo congruente alla formazione ricevuta, nell’ambito delle strutture organizzative che ne hanno previsto l’utilizzazione.
In realtà, sappiamo bene che la Sociologia incomincia ad affermarsi nella società italiana come pratica professionale, si sviluppa principalmente in ambiti non accademici, in base a sollecitazioni esterne alle dinamiche proprie dell’università.
La prima fase di istituzionalizzazione della Sociologia è segnata da un progressivo ingresso dei sociologi nella grande impresa, negli enti locali, chiamati per definire politiche del personale, organizzazione del lavoro, interventi urbanistici consapevoli dei fattori umani, per promuovere una modernizzazione della vita sociale (Siza 1993).
Nei primi anni Sessanta, Pagani (1964) ricordava che la Sociologia italiana si è prevalentemente sviluppata al di fuori dell’università, e il suo relativo successo è dipeso principalmente da circostanze favorevoli nel contesto sociale e dal concorso attivo di energie intellettuali non identificabili col corpo accademico.
Renato Treves, nella relazione di sintesi agli atti del convegno di studio su Sociologi e centri di decisione politica e sociale in Italia, svoltosi nel 1961 ad Ancona, ricordava che la figura del «sociologo di biblioteca» staccato dalla vita pratica – figura assai diffusa nella cultura italiana dell’Ottocento – è ormai quasi completamente scomparsa e il sociologo nuovo, impegnato nella ricerca, sente per lo più viva l’esigenza di influire sulle decisioni dei policy makers perché vengano utilizzati i risultati delle sue indagini e perché la sua conoscenza si trasformi in azione sociale (Treves 1962).
La ricerca trae origine dall’impatto dell’industrializzazione sul territorio in quelle aree dove il collegamento tra lo sviluppo di singole imprese e le sue conseguenze apparve sin dall’inizio più evidente, con l’erosione della comunità tradizionale, i valori e gli stili di vita della modernità, le modificazioni introdotte nella stratificazione sociale (Gallino 1987).
Il progetto riformista della Sociologia italiana si sviluppava attraverso una ricerca a forte rilevanza operativa, tesa nel Nord ad umanizzare il lavoro operaio, a promuovere un’organizzazione scientifica del lavoro, a modernizzare la società; nel Sud al superamento della miseria contadina. Il sociologo appariva in grado di svolgere una rassicurante funzione integrativa (Barbano 1982), ma solo nell’ambito dei conflitti tradizionalismo-innovazione, arretratezza-sviluppo, sui quali vantava, d’altra parte, una consistente tradizione di ricerca.
Si diceva, l’analisi e la ricerca sociologica si devono principalmente concentrare su quel vasto processo di trasformazione economica e sociale che investe l’Italia, sulle trasformazioni delle campagne e l’esodo rurale, sull’industrializzazione nei suoi effetti sul modo di vivere urbano, sul livello dei consumi (Congresso Mondiale di Sociologia 1959).
I limiti e gli aspetti critici di queste esperienze professionali sono evidenti. La ricerca sociale sul campo acquista visibilità in questo decennio ma la sua identità è ancora molto debole: è appena una sparuta schiera di intellettuali di formazione umanistica che inventano una professione nuova per l’Italia, l’esperto di ricerca sociale applicata all’industria o alla valutazione delle conseguenze sociali dello sviluppo economico, l’imposero in una certa misura alle imprese creando uno spazio in termini di occupazione e di mercato (Gallino 1987).
Ad un ampliarsi delle domande d’intervento sociologico non corrisponde un paragonabile sviluppo della disciplina, ad una molteplicità di impegni applicativi corrisponde un suo modesto sviluppo scientifico.
Ardigò rilevava che il sociologo che affronta la realtà sociale attraverso uno studio di comunità avverte i limiti della sua preparazione sociologica ed è portato a divenire egli stesso demografo, economista, storico e a perdere la sua specificità nel lavoro interdisciplinare (Ardigò 1963).
Problematica è apparsa la correlazione, utilizzando la distinzione proposta da Barbano, fra sviluppo di una scienza – intesa come crescita teorico-pratica e scoperta e affinamento dei metodi e delle tecniche di ricerca – e diffusione intesa come istituzionalizzazione e penetrazione, presenza culturale: nella rinascita della Sociologia, si osserva un processo di diffusione culturale senza un adeguato sviluppo di teorie o paradigmi sociologici (Barbano 1985).
Un secondo aspetto critico riguarda il rapporto che la Sociologia ha stabilito con la sua domanda di applicazioni sociali, il suo oscillare tra coinvolgimento e distacco che non ha dato continuità e identità sociale all’azione professionale dei sociologi:
· in alcuni anni ha operato delle selezioni e delle chiusure profonde, per riaffermare un’identità disciplinare più solida e visibile, interessi conoscitivi influenzati da dinamiche interne alla comunità sociologica più che da istanze esterne e dalla consistenza dei problemi presenti nella realtà sociale;
· in altri anni, all’opposto, ha enfatizzato il collegamento con i soggetti che la esprimevano fino alla confusione, il legame indissolubile con movimenti, soggetti collettivi, l’immersione nella pratica sociale, il dissolversi nel movimento, perdendo identità e riferimenti disciplinari.
Ciò che, invece, appare ancora attuale per uno sviluppo della professione è l’intenzione partecipativa, la volontà di collegare la ricerca sociale all’impegno civile.
Le ricerche compiute nella prima fase di istituzionalizzazione della Sociologia in Italia apparivano guidate da una partecipazione umana alla miseria, ai problemi sociali presenti nelle campagne e nelle città contadine, nei centri urbani, rilevavano l’impatto disgregante della modernità sulla famiglia e sulla comunità tradizionale. Il sociologo, con una costante presenza critica e civilmente impegnata, concorre alla generale evoluzione della società; la ricerca sociologica non ha compiti esclusivamente conoscitivi ma è volta a rendere più organico e più esteso il mutamento sociale, a favorire adeguate trasformazioni sociali e culturali: assolve alla funzione di coscienza critica, chiarendo all’operatore sociale il quadro di riferimento culturale più generale entro il quale si realizza ed acquista significato la sua azione; offre all’operatore la conoscenza delle risorse e delle domande presenti nell’ambito in cui opera, valuta ad intervento effettuato gli effetti dell’intervento stesso (Cafiero et al. 1959).
3. Il consolidamento della professione
La costruzione di una pratica professionale è stata un processo molto complesso in cui è stato necessario introdurre discontinuità rispetto alla pratiche sociologiche e alle identità professionali emerse in anni precedenti, modalità più costruttive di operare e rispondere a sempre più precise domande di conoscenza e d’intervento.
A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, i sociologi operanti negli enti pubblici e privati, nelle strutture sanitarie, in organismi no profit, hanno costruito la loro identità professionale osservando le differenti modalità di essere sociologi presenti in quegli stessi anni.
i. Un primo percorso di professionalizzazione riprende le istanze di riformismo sociale particolarmente visibili nell’Italia dei primi anni Sessanta, il «conoscere per amministrare», la ricerca come premessa di ogni decisione, la programmazione come modalità razionale e democratica di governo, la valorizzazione delle risorse umane e l’inserimento di nuove aree disciplinari nelle istituzioni formative. Istituti di ricerca o di programmazione regionali, provinciali o di centri metropolitani, o di organismi sindacali, hanno costituito rilevanti opportunità di crescita professionale, di produzione di ricerca sociologica finalizzata, di elaborazione di piani di sviluppo comprensivi del fattore umano. È una ricerca di alto profilo che ha coinvolto in molte occasioni la prima generazione dei sociologi italiani e che con il passare degli anni risulterà sempre più «compressa» fra i processi di istituzionalizzazione accademica e le radicali scelte di campo o, comunque, la scarsa capacità di mantenere un’autonomia tecnica rispetto ai committenti.
ii. Un secondo percorso si sostanzia nell’attività professionale, in istituti di ricerca privati, in cui il sociologo si propone nei termini già adottati da altre professioni, come consulente che ricerca una dimensione tecnica piuttosto che partecipativa o di cambiamento, assicurando prodotti finiti vincolati da norme contrattuali. Sono ricerche e progetti spesso organici, ma altrettanto spesso meno calati nel contesto, più standardizzati negli strumenti utilizzati e nei risultati raggiunti, che si realizzano in ambiti e contesti molto circoscritti. La capacità di contrapporsi al committente è pressoché nulla, il sociologo si propone come supporto, di scelte e azioni già avviate, la dimensione critica è inesistente.
iii. Il punto di congiunzione tra la nascente professione e il sociologo universitario è stato inizialmente il complesso delle attività di rinnovamento istituzionale in cui l’impegno analitico del sociologo, prevalentemente accademico, aveva avviato e costruito un’azione di trasformazione, orientato una pratica d’intervento dai contorni disciplinari sfumati, ma con una collocazione professionale stabile: servizi psichiatrici, tossicodipendenza, consultori, istituzioni giudiziarie, prevenzione negli ambienti di lavoro, sono stati i luoghi nei quali il movimento, che il sociologo impegnato ha contribuito a far crescere, ha creato spazi professionali, spesso come effetto non previsto, in cui il sociologo antistituzionale e critico è stato percepito come figura di garanzia per dare continuità alla trasformazione avviata.
iv. Ai margini di queste aree di crescita professionale, preme una estesa area sociale di laureati in Sociologia che hanno generiche attese nei confronti della professione, ma intendono assumere quegli stessi ruoli in quanto hanno avuto una formazione specifica e caratterizzante. Oppure, altri ancora che non intendono fare i sociologi, che utilizzano per la loro mobilità sociale il diploma di laurea in sé, senza specifica motivazione professionale. L’identità professionale viene costruita secondo direzioni e vincoli che appaiono per lo più nebulosi, oppure rimossa, come problema secondario rispetto all’esigenza primaria di trovare un’occupazione, costruendo spazi professionali in modo casuale, per pressione sulle istituzioni locali e vicinanze politiche e amministrative, sovrapponendosi per lo più a professioni sociali più consolidate. Questa estesa area di laureati in Sociologia, senza la necessaria consapevolezza professionale, ha costituito per molti anni una delle più rilevanti criticità rispetto alle emergenti esperienze associative, a progetti di sviluppo professionale, a possibili percorsi formativi, a coinvolgimenti in progetti lavorativi.
In generale, comunque, ciò che accomuna buona parte delle prime esperienze professionali è l’incertezza di un ruolo, la scarsa definizione di una identità professionale.
Tutti gli anni Ottanta risulteranno segnati dall’esigenza di metter ordine in questo articolato mondo professionale, ancora, a dire il vero, non particolarmente ampio, articolare le competenze di una pratica professionale, creare nuove abilità, dare un’operatività credibile alla professione, creare distinzioni con le professioni affini, derivare un agire professionale dagli sviluppi conoscitivi della Sociologia.
Il testo parlamentare sull’ordinamento della professione di sociologo approvato dalla Camera dei deputati l’8 luglio 1998, ma che non ha completato il suo iter di approvazione al Senato, è da considerarsi come un punto di arrivo di un lungo percorso di individuazione di un’identità professionale.
Nel disegno di legge (art. 2), così è stata definita la professione di sociologo:
1. Le attività oggetto della professione di sociologo si fondano su metodologie e su tecniche specifiche volte allo studio, alla ricerca, alla consulenza, alla progettazione, all’analisi, alla valutazione empirica ed all’intervento sui fenomeni, sui processi, sulle strutture, sulle aggregazioni, sui gruppi, sulle organizzazioni e sulle istituzioni sociali, nonché all’indagine sugli orientamenti dell’opinione pubblica, sui modelli di comportamento, sugli stili di vita, sugli orientamenti di valore della totalità della società o di suoi segmenti.
2. La professione di sociologo si svolge attraverso la ricerca, l’analisi e la pratica sociologiche aventi come oggetto le dinamiche sociali e comunicative relative a soggetti in relazione tra loro o con strutture e sistemi culturali, economici, politici e sociali, l’individuazione degli obiettivi e dei processi decisionali e l’indagine sugli orientamenti dell’opinione pubblica.
Allo stesso tempo, però, le disposizioni contenute nell’atto parlamentare richiedono ulteriori precisazioni e sviluppi. Ci vorranno molti anni ancora per costruire una consistente tradizione professionale, consolidare un’identità sociale, creare distinzioni con professioni vicine, attraverso più precisi riferimenti disciplinari e più chiari e specifici contenuti operativi.
La nascita di un’organizzazione professionale di notevole ampiezza, il consolidarsi della riflessione sull’efficacia e il senso di una pratica, consentiranno di superare questa fase iniziale di incertezza, avviando un processo organico di individuazione di un metodo di lavoro, di strumenti e abilità specifiche, di un’identità professionale, tenderà a ricomporre in un quadro disciplinare organico una pluralità di contenuti e modalità di azione propri di movimenti tesi alla applicazione di leggi di riforma psichiatrica, nel campo delle dipendenze e della disabilità, di riforma sanitaria, alla valorizzazione della prevenzione e dell’intervento territoriale.
Tutto ciò si svilupperà in termini selettivi, piuttosto che nel consolidamento di spazi impropri offerti da casuali provvedimenti legislativi, da improbabili inserimenti professionali.
Sarà un processo lungo, in cui sarà necessario introdurre discontinuità rispetto alle tradizioni delineate, modalità più costruttive di operare e rispondere a sempre più precise domande di conoscenza e d’intervento.
Per molti anni, il sociologo occupato in una struttura organizzativa non accademica si troverà a scegliere fra l’alternativa di riaffermare, comunque sia, la propria identità di ricercatore e la sua funzione critica, o di cedere, perdendo ogni orientamento disciplinare, alle pressioni del contingente, alle circostanze che suggeriscono e giustificano l’assunzione delle funzioni e dei ruoli più disparati.
4. La legittimazione di una distinzione negli sviluppi applicativi
Una pratica professionale parte da un corpo sistematico di teorie e concetti, si definisce in rapporto ad una ben definita conoscenza scientifica – né troppo vaga né troppo precisa, né troppo vasta né troppo ristretta, come ci ha ricordato Wilensky (1964) –, una pratica orientata e costantemente ridefinita nell’interazione con gli sviluppi delle teorie sociologiche, alimentata da uno sviluppo della conoscenza sufficientemente differenziato dalle discipline affini e dalle forme non scientifiche della conoscenza.
Un passo rilevante nella costruzione di una professione si realizza quando la comunità professionale, e la comunità sociologica nel suo complesso, incominciano ad essere consapevoli che sono legittimi e possibili differenti sviluppi applicativi delle conoscenze a cui si fa riferimento e su questa consapevolezza si costruiscono strumenti, percorsi operativi distinti.
Primo versante: il sociologo accademico
Il primo sviluppo applicativo è costituito dall’insegnamento, la formazione e la ricerca. L’università appare il luogo che meglio può assicurare l’autonomia del ricercatore e del docente, e non ostacolarne la vocazione critica.
La ricerca si può sviluppare su temi che hanno una rilevanza pratica, ma i suoi risultati non sono volti a fornire indicazioni operative immediatamente utilizzabili in una relazione professionale, quanto ad offrire una maggiore conoscenza del fenomeno, costruire una maggiore consapevolezza, accrescere la capacità osservativa.
In questo versante, emerge un orientamento applicativo che non è centrato sulla risoluzione di un problema pratico ben definito, ma è volto ad influenzare, in termini generali e attraverso il rigore dell’analisi scientifica, i decisori e l’opinione pubblica, a rendere comprensibili fenomeni – che possono riguardare i giovani, le famiglie, le politiche pubbliche, alcune specifiche condizioni di vita – mostrando l’inconsistenza di miti, le distorsioni percettive e analitiche condivise dalle istituzioni e dalle persone.
Il sociologo non semplifica la situazione decisionale, anzi frequentemente ne accresce la complessità, in quanto evidenzia la presenza di soggetti e relazioni, di variabili, prima trascurati.
Secondo versante: il ricercatore accademico e professionale
Un secondo versante è costituito dal ricercatore accademico e/o professionale, che realizza studi e ricerche empiriche orientati alla costruzione di un quadro conoscitivo consegnato al decisore per incrementarne la capacità decisionale. In questo secondo indirizzo, il sociologo produce analisi e informazioni utili a risolvere problemi pratici.
La distinzione tra ricercatore e decisore è generalmente netta, sia sul piano dei reciproci ruoli, sia in termini temporali, in quanto di norma la ricerca precede la decisione, costituisce una prima fase di un processo decisionale articolato.
Accanto alla ricerca empirica su un determinato fenomeno, può svilupparsi un’attività conoscitiva a carattere più continuativo, nella definizione di modalità sistematiche di rilevazione di dati, di flussi informativi, nell’analisi e nella rielaborazione di statistiche correnti prodotte da istituti ufficiali e di dati amministrativi. Oppure un sondaggio che sappia consegnare al decisore una rappresentazione delle tendenze dell’opinione pubblica, di un gruppo sociale ben determinato, rispetto ad un particolare evento.
Terzo versante: l’operatività in contesti non accademici
Un ulteriore indirizzo applicativo è costituito dalla molteplicità di esperienze in cui al sociologo è affidata la decisione di formulare un piano, un progetto d’intervento, di gestire relazioni umane, di decidere sulla continuazione di un servizio utilizzando i risultati di una ricerca valutativa, di compiere un’analisi ed un intervento organizzativo.
Sono attività professionali ben individuabili, che hanno precisi riferimenti disciplinari, ne applicano organicamente concetti e risultati ed evolvono con un riferimento costante agli sviluppi disciplinari.
La pratica è orientata e costantemente ridefinita nell’interazione con gli sviluppi delle teorie sociologiche, alimentata da un procedere della conoscenza sufficientemente differenziato dalle discipline affini e dalle forme non scientifiche della professione. Quando il legame fra pratica professionale e sviluppo scientifico della disciplina di riferimento diventa debole, queste azioni perdono consistenza.
In questo indirizzo, la ricerca assume un ruolo secondario; normalmente, il momento operativo non è preceduto da un’indagine organica ma è parte del fluire di un’organizzazione.
La ricerca è affiancata da altre modalità conoscitive e d’intervento sulle relazioni sociali in vari ambiti organizzativi. Il sociologo professionale incomincia a differenziarsi dal sociologo tradizionale che a qualsiasi domanda di conoscenza avanzata da un committente risponde: per individuare la soluzione al problema prospettato è necessario realizzare una ricerca
Negli Stati Uniti, più che in altre nazioni, la Sociologia fin dalle sue origini ha cercato una sua legittimazione come scienza e il sostegno dell’opinione pubblica attraverso l’intervento in contesti relazionali ben definiti e la ricerca empirica fortemente finalizzata, nell’analisi e nella elaborazione di programmi d’intervento su molteplici problemi sociali concreti – la criminalità urbana, la violenza giovanile, l’indebolirsi dei legami familiari, la povertà – con un legame profondo con la città, il governo, le fondazioni.
Gli atti, curati da Lazarsfeld, Sewel e Wilensky, della conferenza annuale dell’American Sociological Association, svoltasi nel 1962 e dedicata principalmente alle utilizzazioni della Sociologia, ben documentano questa pluralità di occupazioni del sociologo, la sua utilizzazione nell’industria, nell’apparato militare, nella pubblica amministrazione, in organizzazioni no profit, come decision-makers, non solo come docente o come ricercatore (Lazarsfeld et al. 1967). Negli ultimi quarant’anni ci sono stati rilevanti sviluppi della sociological practice in termini di connessione tra teoria e interessi pratici, nell’introduzione di corsi di sociologia applicata nei programmi universitari; nella definizione di più produttive relazioni fra sociologi professionali e sociologi accademici (Fritz 2012) e nella ricerca di una sociologia che non si definisce pubblica o in un altro modo, ma che comunque sa stabilire un confronto con una pluralità di uditori, non solo specialistici (Collins 2007).
Naturalmente questo terzo sviluppo applicativo si avvantaggia in una profonda interazione con il primo e il secondo sviluppo al fine di produrre una conoscenza utile all’azione professionale e ben radicata su teorie e concetti in una sorta di divisione del lavoro sociologico inteso, su molti aspetti, nei termini in cui lo definisce Michael Burawoy (2005): nella sua analisi i quattro tipi di Sociologia (la Sociologia professionale, la Sociologia di policy, la Sociologia critica, la Sociologia pubblica) hanno una interdipendenza reciproca e ogni Sociologia trae energia, senso e immaginazione dalla sua connessione con le altre.
La legittimazione di questo sviluppo applicativo non è scontata. In Italia, una parte consistente della stessa Sociologia ritiene che questa disciplina debba essere solo formativa, ossia che debba limitarsi a produrre conoscenze utili al senso critico dello studente e dell’opinione pubblica, e non debba essere coinvolta nell’agire pratico, nelle questioni di intervento. In tal modo, non solo la conoscenza viene staccata dalla sua applicabilità operativa, ma vengono completamente obliterate le connessioni tra epistemologia, metodologia della ricerca e spendibilità pratica del sapere sociologico (Donati 2010).
5. La debolezza della rete applicativa
Al consolidamento e alla crescita della professione del sociologo concorrono più fattori: alcuni correlabili allo sviluppo cognitivo della disciplina, altri esterni a tale relazione e che coinvolgono i conflitti interprofessionali, le forme specifiche che assumono la domanda e l’offerta di servizi professionali, la capacità di controllo e di orientamento che il gruppo occupazionale esprime nei confronti delle dinamiche di mercato, il riconoscimento e la legittimazione normativa che lo stato è disposto ad accordare all’azione professionale in un determinato ambito.
Nel consolidarsi di una professione appare cruciale la formazione e la natura, l’ampiezza e la solidità della base cognitiva che consentono di rivendicarne l’esclusività e quindi di costituire forme di protezioni legali (Tousijn 1997).
Il sociologo può competere con altre figure professionali in modo aperto per il consolidarsi di un atteggiamento non pregiudizialmente critico e diffidente nei confronti della Sociologia e dei sociologi, di una disponibilità ad ascoltarne e valutarne le risultanze e le proposte.
È un riconoscimento sociale della Sociologia e dei sociologi che non ricade, però, sulla comunità sociologica in modo omogeneo, che non si traduce in una valorizzazione diffusa del suo contributo, ma in una polarizzazione di destini sociali, fra il riconoscimento su cui solo pochi sociologi possono contare e una realtà diffusa in cui il sociologo ha uno sviluppo professionale meno lineare.
L’autonomia professionale in relazione ai controlli che esprime l’organizzazione in cui è inserito il sociologo e il rispetto del giudizio tecnico – segni distintivi di un raggiunto riconoscimento sociale – sono assicurati solo agli strati più alti della professione, mentre la maggioranza dei sociologi non gode di questo status, se non in ambiti lavorativi molto circoscritti, e subisce un significativo controllo organizzativo su questioni di natura tecnica, la sua autonomia di giudizio è costantemente posta in discussione.
Nell’ambito della comunità sociologica si è consolidata una stratificazione interna molto stabile. Lynd aveva osservato l’emergere di questa stratificazione sul finire degli anni Trenta. Diceva che gli addetti ai lavori si dividono in due blocchi, gli accademici e i tecnici. Entrambi assumono che ci siano continuità e attinenza tra i loro rispettivi campi di studio, in realtà tendono ad allontanarsi, l’accademico estraniandosi e ignorando ogni contatto con la realtà immediata, il tecnico accettando troppo spesso una definizione dei problemi troppo angusta e che tiene conto esclusivamente della situazione immediata. Il distacco è altamente negativo, perché molti problemi rischiano di cadere nell’oblio, perché nessuno dei due può permettersi di andare avanti senza l’altro: il sociologo accademico rischia di fare conferenze sulla navigazione mentre la nave affonda. Il sociologo deve essere in grado di interessarsi dei problemi pratici immediati elevandoli ad un più alto ordine di astrazione (Lynd 1976).
Ora la stratificazione si presenta in termini più complessi. Friedson (1994) ha rilevato la rinascita delle professioni in nuove forme, in termini più gerarchici, nelle quali la gran parte dei professionisti subisce il controllo dell’élite professionale che continua ad avere l’autorevolezza tecnica e culturale che le professioni avevano nel passato.
Per i sociologi, il problema è che in molti ambiti applicativi mancano i livelli di comunicazione, i legami, i sentimenti di condivisione e di appartenenza ad un identico gruppo professionale, che consentano ai primi di promuovere la crescita dei secondi, di sentirsi e di agire nell’ambito di un progetto comune volto allo sviluppo e alla diffusione della Sociologia e dei sociologi, al di là delle appartenenze istituzionali.
Una frammentazione che è sì d’interessi, di status e di condizioni molto diverse, ma che soprattutto si configura come intenzionalità e costruzione soggettiva di solchi e steccati, una forzatura, possiamo dire, rispetto agli spazi, alle opportunità che consentirebbero le più generali dinamiche delle professioni.
La comunità accademica gestisce i processi di formazione del sociologo, ma stenta a riconoscerne gli esiti, a sostenere i soggetti professionali che ha creato, salvo nei casi in cui essi hanno l’opportunità o scelgano di operare nell’università.
Queste chiusure contribuiscono significativamente a creare una debolezza della rete applicativa sulla quale poggia la Sociologia per la diffusione delle sue conoscenze e dei suoi risultati.
La diffusione delle conoscenze sociologiche è affidata a una pluralità di soggetti profondamente differenti tra loro per sensibilità scientifica, nelle strutture di rilevanza che condividono, ad una presenza, più o meno specialistica, nei mass media, oppure ad una pluralità indistinta di professioni – dagli assistenti sociali al complesso delle professioni sociali, gli urbanisti, i sondaggisti, gli esperti di marketing – i quali, soprattutto in questi anni, tendono a crearsi degli autonomi riferimenti disciplinari, a far propri concetti ed analisi sociologici includendoli nel proprio patrimonio professionale, fino a far perdere ai concetti stessi il riferimento disciplinare originario.
La Sociologia influenza decisioni pubbliche, raramente in termini diretti, più frequentemente attraverso la mediazione di altri soggetti che hanno assunto le sue analisi e i suoi risultati.
C’è un problema di mancato riconoscimento pubblico dei meriti della Sociologia (Sciarrone 2011). È molto ampio lo scarto tra una crescente rilevanza sostanziale dei contributi sociologici e una debolezza della loro rilevanza sociale e politica: i sociologi di vari paesi hanno offerto molti contributi in ordine alla conoscenza dei cambiamenti del lavoro e nelle relazioni tra il lavoro e le altre situazioni, ma ciò nonostante non sono presenti nei dibattiti sociali, dove dominano i contributi degli esperti di management e degli economisti (Crouch 1996); i metodi chiave delle ricerche di mercato sono stati definiti dai sociologi, mentre l’ambito è dominato da psicologi, da esperti commerciali, in buona parte con master in business administration (Straus 2002). Non accade diversamente nel campo della comunicazione, sebbene, dopo gli studi degli anni Cinquanta di Katz e Lazarsfeld, le categorie e i metodi d’indagine siano diventati propriamente sociologici (Morcellini et al. 2003).
6. Frammentazioni e prossime appartenenze
Dopo tanti anni di esperienze organizzative e di riflessioni sulle azioni pratiche, ora possiamo dire che il sociologo può disporre di conoscenze disciplinari ampie e differenziate, per certi versi meglio finalizzate, di strumenti concettuali ed operativi ben definiti.
Permangono, però, innumerevoli aspetti critici, che ne indeboliscono l’identità sociale, la capacità operativa, e che costituiscono le preoccupazioni di fondo che stanno alla base di questo contributo: in primo luogo, quali strade percorrere per contribuire ad una ricomposizione della comunità sociologica e stabilire rapporti costanti tra sviluppo teorico e attività pratica, dopo anni di distanza, di separatezza; in secondo luogo, cosa fare per promuovere una maggiore presenza sociale della Sociologia e costruire una identità sociale del sociologo meno sfumata.
Forse bisogna riferirsi ancora al lavoro di Friedson (2001) per concettualizzare la professione in termini più estesi, comprendendo l’attività che genera conoscenze teoriche e la pratica che utilizza queste conoscenze, che applica queste conoscenze in modo socialmente utile, per il bene comune. Su questa base concettuale e valoriale si può costruire il senso di appartenenza dei sociologi nel loro complesso a un identico gruppo professionale, al di là delle appartenenze istituzionali, superando le frammentazioni e le fratture.
La base cognitiva di una professione deve essere prodotta, trasmessa ai futuri professionisti e difesa dagli attacchi delle altre professioni: alle prime due funzioni provvedono le scuole specialistiche e le istituzioni di ricerca, alla terza le associazioni professionali (Tousijn 1997).
Già nel 1933, Carr-Saunders affermava che un insieme di uomini, per quanto svolgano le stesse funzioni non costituiscono una professione se rimangono isolati: una professione esiste soltanto quando ci sono legami tra gli esercenti che assumano la forma di associazione professionale.
Una professione si consolida quando è capace di esprimere un adeguato controllo sulle dinamiche dell’offerta e della domanda di un determinato ambito dei servizi professionali. Tale azione di controllo necessariamente deve essere affiancata da una strategia di legittimazione sociale della professione che renda visibili le finalità sociali che essa persegue, la sua utilità sociale.
Abbott ha rilevato la necessità che il processo di professionalizzazione si proponga come un sistema coerente, articolato in tre ambiti: nell’opinione pubblica, dove si costruisce l’identità sociale della professione, nel luogo di lavoro (dove la professione mostra la sua abilità nella risoluzione di problemi rilevanti), nel sistema politico-giuridico (attraverso il riconoscimento di posizioni e ambiti protetti) (Abbott 1988). Se teniamo conto di questa esigenza forse dovremmo guardare in termini differenti alle relazioni e agli equilibri fra i quattro tipi ideali di Sociologia di Boudon (2002) (la Sociologia come scienza sociale, la Sociologia camerale o descrittiva, la Sociologia espressiva, la Sociologia critica o impegnata) senza consolidare fratture e distanze, valorizzando le vicinanze e legittimando le differenziazioni, perché ogni tipo ideale contribuisce a costruire una identità sociale comune e riesce ad influenzare uditori e ambiti di vita differenti, perché la comunità di riferimento dei sociologi non può essere soltanto il mondo degli specialisti.
Riferimenti bibliografici
Abbott, A. (1998), The system of professions. An essay on the division of expert labor, Chicago, University of Chicago Press.
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