AIS

2024/26

Una vita per le pari opportunità. Intervista a Bianca Beccalli (Pavia, 26 ottobre 1938 – Milano, 17 ottobre 2024)


 

Questa intervista è stata effettuata in due pomeriggi, quelli di giovedì 6 e venerdì 7 giugno 2024, ed è stata rivista giovedì 12 settembre 2024. Mai avrei pensato che queste sarebbero state tra le ultime occasioni di vedere in vita Bianca. Mentre scrivo questa introduzione, la mia mente viaggia indietro nel tempo a quando, da studente del terzo anno di Scienze politiche alla «Statale» di Milano, per il corso di Sociologia del lavoro conobbi Bianca Beccalli. Era il 2010 e ricordo ancora la prima lezione, interamente dedicata a The Corrosion of Character di Richard Sennett. La passione con la quale raccontava il libro, le conseguenze nel mondo del lavoro e nella vita privata, che il nuovo capitalismo comportava, mi fecero molto presto innamorare di lei e della sociologia. Infatti, fino a quel momento, nonostante avessi già dato diversi esami di sociologia, questa materia non aveva mai lasciato il segno. Senza questo incontro con Bianca, mai sarei diventato sociologo. Dopo la laurea triennale, ho proseguito il mio percorso di magistrale, e uno dei primi esami fu quello di Sociologia del lavoro e delle pari opportunità. Naturalmente, Bianca era la docente anche di questo corso. Qui, ci fu il mio primo approccio agli studi di genere. Era il 2011, e da allora non ho più abbandonato né la sociologia né i gender studies. Grazie a Daniela Falcinelli, la sua collaboratrice di quegli anni, sono entrato a far parte del gruppo di ricerca di Bianca Beccalli in «Statale», occupandomi da subito di sessualità e studi LGBT+. Ma lavorare con Bianca significava abbattere tutte le barriere e i formalismi accademici. Il «tu» era di derivazione inglese, ma un obbligo. E collaborare con Bianca voleva dire anche frequentare casa sua e le sue amicizie. Sono stato coinvolto nella sua vita così velocemente da non essermene quasi reso conto. Oggi, a distanza di dodici anni (dal mio primo giorno a casa Beccalli-Salvati, rigorosamente in questo ordine, era il 5 dicembre 2012) fatico a credere che Bianca non sia più tra noi. E allora, questa intervista, suggerita da Biagio Aragona, che ringrazio infinitamente, acquista tutto un altro significato. Non posso e non voglio definirla come un «testamento», sarebbe troppo banale, e Bianca non me lo avrebbe mai permesso. Invece, credo che questa intervista rappresenti un viaggio, che non è stato solo il viaggio di Bianca nella sociologia, italiana e internazionale, ma rappresenta il viaggio di una generazione di sociologhe e sociologi che hanno istituzionalizzato la sociologia nel nostro paese. Innanzitutto, a livello accademico, ma anche all’interno della nostra società. Senza questa generazione, dirsi sociologhe e sociologi non sarebbe possibile, né per me né per le mie colleghe e i miei colleghi. Dunque, questa intervista, che ripercorre il percorso accademico di Bianca Beccalli, serve come «pezzetto» di storia per ricostruire la nascita della sociologia in Italia. Allo stesso tempo, Bianca ha giocato un ruolo fondamentale anche nella nascita della nostra Associazione: Bianca e AIS hanno infatti un legame profondo e duraturo nel tempo. L’intervista che segue coprirà anche questo aspetto della sua vita. Nel corso degli anni, Bianca ha rilasciato diverse interviste, accademiche e «di costume», ripercorrendo così già in altre occasioni aspetti del suo percorso di vita privata e professionale. Allora, qui, ho deciso di concentrarmi su quello che era «rimasto fuori» ma che «valeva la pena» di raccontare. Quindi, questa intervista vuole essere complementare alle altre e non vuole sostituirsi a esse, anche se, giocoforza, resterà l’ultima rilasciata da Bianca. Ma chi era Bianca Beccalli? Per me Bianca è stata «maestra» tanto quanto amica. Ho già scritto che senza di lei non mi troverei nella posizione in cui sono ora, ma dal punto di vista personale, se possibile, Bianca mi ha dato molto di più. Ha rappresentato saggezza, sicurezza e conforto. Quando avevo bisogno di lei, lei c’era. E quando lei aveva bisogno di me, io c’ero. Proprio per questo, in me, e in tutte quelle e tutti quelli che l’hanno conosciuta, ammirata, e amata resterà indelebile il ricordo della sua forza, gentilezza e passione per la vita e la sociologia.

Infine, ci tengo a dedicare questa intervista a Michele Salvati, che per Bianca ha rappresentato un indissolubile compagno di vita, e non mi riferisco «solo» ai 62 anni di matrimonio e ai precedenti due di fidanzamento. Invece, penso al legame, alla complicità e al piacere di stare assieme. Le «avventure» politiche e intellettuali che Bianca e Michele hanno compiuto rappresentano, e per davvero, la storia del nostro paese al di là dei confini accademici, della sociologia e dell’economia. Nel corso degli anni, sono passato dall’essere ammiratore a custode di queste storie. Questa intervista ne ripercorre alcune. Per le altre, ci saranno sicuramente occasioni future. Buona lettura.

 

Dunque, Bianca, ho letto le ultime interviste che hai rilasciato, accademiche e non, e gli articoli che ti riguardano. Vieni molto spesso definita una «madre» della sociologia italiana. Partiamo da questo, allora.

Qui si parla di «madri», vediamo quanto è appropriata questa denominazione. Io penso alla dimenticata prima generazione di sociologhe italiane. Quali? Per esempio, Anna Anfossi, nata nel 1923 e scomparsa il 25 giugno 2021, professoressa a Torino; Magda Talamo, nata nel 1928 e scomparsa il 7 settembre 2022, professoressa a Torino; e Flavia Derossi, nata nel 1926 e scomparsa l’8 settembre 2014, sociologa che poi è andata a vivere a New York, dove è diventata una regina dei salotti colti e intellettuali, e ha spostato Marshall A. Robinson, presidente della Russell Sage Foundation dal 1979 al 1986. Considero loro tre le vere «madri» della sociologia italiana, come dati biografici, e perché, le prime due, sono state docenti ordinarie di sociologia.

Le prime, cioè io all’epoca sapevo che erano le prime, anzi mi ricordo, poiché ho cominciato a frequentare i congressi «dei grandi» molto giovane, mi ricordo che le guardavo con ammirazione, le toccavo, e così mi sembravano importanti. Erano importanti, lo sono state. Ricordo anche che Anna Anfossi si è dedicata nell’università, in particolare, a fondare il nuovo dottorato di ricerca, che era il nuovo cancello d’ingresso nella carriera accademica.

A tal proposito, suggerisco la lettura di: «Lo sviluppo della cultura sociologica in Piemonte. Un brano di storia orale» di Luciano Gallino, Quaderni di Sociologia, 2021, 85 - LXV, 7-13.

 

Ma quando ti dicono che tu sei una «madre» della sociologia italiana, come reagisci? A parte ovviamente il piacere che uno può avere dal fatto di essere definita una delle «madri» della sociologia italiana, ma cosa ne pensi di questo distintivo che ti mettono sul petto?

Mi vien da ridere. Per ragioni generazionali, io sono stata una «giovane sociologa» che si inseriva nel mondo dei sociologi (tra parentesi, tutti maschi), ma in quanto giovane, non in quanto donna.

 

Quindi, non ti sentivi un token?

Non ero assolutamente un token[1]. Perché, appunto, ero giovane, ero brava, ed ero senz’altro piuttosto ribelle, perché osavo entrare in quello che, con un gergo sociologico, si chiamerebbe un «lavoro tradizionalmente maschile», quello dell’accademica in generale, e nel campo della sociologia in particolare anche perché come campo inesistente in Italia.

Perché la sociologia non esisteva in Italia? Ci sono tre ragioni: il positivismo, che in Europa è in generale il «padre» della sociologia, in Italia è particolarmente rozzo. In secondo luogo, Benedetto Croce, il più importante intellettuale per trenta/quarant’anni, ebbe molta antipatia per la sociologia che lui chiamava l’«inferma scienza», e tale appellativo resterà a lungo e la dottrina crociana è stata una specificità tutta italiana. Il fascismo, infine, sospettava della sociologia che assimilava al marxismo, quindi al comunismo. Infatti, è un paradosso che negli anni Sessanta la sociologia sia stata sponsorizzata in Italia dagli americani che al contrario pensavano fosse un buon antidoto al pensiero comunista. Da qui l’investimento americano prima nelle scuole CoSPoS e poi nell’Università di Trento, che furono i centri della rivolta studentesca. Insomma, i fascisti consideravano i sociologi comunisti e gli americani li scambiavano per anti-comunisti.

Un’eccellente trattazione dell’argomento si trova in Pietro Rossi, «Il ritorno alla sociologia. Un confronto tra sociologia italiana e sociologia tedesca nel dopoguerra», Quaderni di Sociologia, 2003, 33, 101-120.

 

Qual è il rapporto con le tue colleghe donne? Quindi, per esempio, con Laura Balbo, Chiara Saraceno, e Renate Siebert?

Grande amicizia personale. Con Laura Balbo avevo l’atteggiamento che si ha verso una sorella maggiore. Con Chiara Saraceno quello di una sorella coetanea: reciproca deferenza e a ciascuna il suo campo di studio. Con Renate Siebert, simpatia per le sue origini tedesche e per i suoi tentativi di costruire una «sociologia del Sud Italia» partendo dalla presenza femminile (esempio: Le donne, la mafia, 1994, Milano, Il Saggiatore). Ricordo poi Ada Cavazzani, un’amica valdese, e per me la comunità valdese ha un significato particolare, nonostante la mia laicità.

 

E, invece, veniamo al presente, ce ne sono molte di più di donne nell’accademia italiana; non sono tantissime le ordinarie, però in ogni caso sono tante le ricercatrici e le associate in sociologia.

Posso parlare per il mio settore di sociologia del lavoro. Enrica Morlicchio tra le prime. Poi Franca Maria Alacevich e Lidia Greco.

Se andiamo sulle straniere, le mie due grandi amiche, Judy Wajcman e Ruth Milkman. Sono sia sociologhe generali che del genere nonché del lavoro e del movimento operaio.

 

Quali sono stati i tuoi maestri o le tue maestre?

Maestre non ne ho avute, purtroppo. Però ho avuto tre maestri: Alessandro Pizzorno, Alain Touraine e David Lockwood. Li cito nell’ordine con il quale li ho conosciuti. Furono maestri di lunghissimo periodo, significativi sia all’inizio che durante che alla fine. Alessandro Pizzorno addirittura mi ha spinto a fare filosofia all’università, e indirizzato alla tesi di laurea su Émile Durkheim, l’ho conosciuto a Pavia. Alain Touraine, incontrato a Parigi, con la sua tematica di centralità del lavoro che parla a nome dei soggetti tradizionali del mondo del lavoro mi ha fatto concentrare su questo aspetto della disciplina. Infine, David Lockwood che nel periodo cruciale dei tre anni di università svolti a Cambridge, in Inghilterra, mi ha introdotto ai dibattiti allora ferventi e mi ha dato importanti strumenti metodologici.

Erano però, oltreché maestri, anche grandi amici.

 

Oggi, andare a studiare all’estero è abbastanza comune, non è difficile né impossibile. Però, quando tu e tuo marito (Michele Salvati) siete andati in Inghilterra la situazione era diversa.

Eravamo in estrema minoranza e andare all’estero era un segno di un qualche preesistente privilegio. Cioè, noi non ce ne accorgevamo, ma eravamo dei giovani in carriera.

A differenza degli altri studenti inglesi e dei pochissimi italiani che c’erano a Cambridge, non ero single ma ero in coppia, e l’Inghilterra di allora era una società fortemente maschilista. Maschilisti erano i collegi di Cambridge, solo per uomini, la gran parte. Ma anche nella vita quotidiana, esempio estremo: le donne venivano chiamate con il solo nome e cognome del marito. Io ero chiamata Mrs. Michele Salvati.

 

Hai dovuto sgomitare, insomma, in modo più o meno metaforico?

In Inghilterra no perché ero, a differenza degli studenti italiani emigrati provvisori, uno dei casi di eccellenza e tale rimanevo anche nel confronto con gli uomini oriundi. Non ero né ostacolata né avvantaggiata dall’essere donna o italiana. Perlomeno non ho mai sentito di esserlo.

 

Quanto sono stati importanti l’Inghilterra, e poi l’America, nel tuo percorso professionale, accademico e intellettuale?

L’Inghilterra è stata decisiva, nel senso che l’unica parte di studi regolari che ho svolto di sociologia sono stati i tre anni inglesi. L’America è stata un’esperienza di vita molto importante più per il carattere «americano» di codesta esperienza che non per il rapporto con la sociologia (ero già regolarmente inserita all’interno della disciplina e dell’accademia). Faccio riferimento al fatto che avevo una figlia e questo sì che aveva limitato le mie chance di carriera per le «banali» difficoltà della conciliazione. E l’ho capito quando sono stata in America. Il tempo trascorso ad Harvard, prevalentemente da sola con mia figlia Marta, mi ha consentito una comprensione maggiore della famiglia e della società, e della società americana in particolare, partendo dalla «vita quotidiana».

Vorrei fare un riferimento a un carattere un po’ tardivo della mia carriera, ho dato per scontata una certa lentezza della carriera (Why so slow?, s’intitola un libro classico sulle carriere femminili di Virginia Valian, del 1999, Cambridge, MA, MIT Press).

Concludo con il dire che, a prescindere dai miei sforzi, è stata la buona volontà degli amici ad aiutarmi nella carriera, cito per tutti Marino Regini, che mi ha permesso di compiere l’ultimo gradino dell’accademia formale, il ruolo da professoressa ordinaria arrivato nel 2000.

 

Come ci sei finita a Salerno, che è stata la tua prima sede universitaria?

I primi insegnamenti di sociologia, come può sembrare di primo acchito strano, non sono stati nel nord industriale, in università centrali, bensì nel profondo sud. Le due nuove università della Calabria e di Salerno assunsero per le loro nuove strutture «giovani» sociologhe e sociologi provenienti dal nord. Potrei dire che era l’unico posto in cui potevo finire, perché era nei nuovi atenei che venivano aperti questi posti.

 

Quando sei stata a Salerno e come sono stati quegli anni, con le tue colleghe e i tuoi colleghi, e con studentesse e studenti?

Dal 1972 al 1976. Sono stati anni molto buoni, proficui dal punto di vista didattico (insegnavo Storia della sociologia classica), il rapporto con studentesse e studenti era stimolante – circa una cinquantina per anno, e nel sud Italia ci fu una specie di ripetizione, in minore, del 1968 del nord e centro Italia. Insegnavo anche a Scienze politiche, quindi ho vissuto sotto i miei occhi quegli eventi. In ogni caso, viaggiavo da Milano, in treno, facendo avanti e indietro, e portandomi sempre mia figlia Marta con me, tanto che, a un certo punto, gli amici hanno scherzosamente iniziato a chiamare mia figlia la «capotreno» per gli innumerevoli viaggi in cuccetta sui treni notte. Ma Marta sembrava divertirsi molto. Quando arrivavamo alla stazione di Salerno, prendevamo poi una carrozza scoperta, trainata da un cavallo, per andare in università.

 

Dove sei stata dopo Salerno?

A Milano nel 1976, in «Statale», e ha coinciso con l’inizio delle scuole elementari di mia figlia Marta; quindi, c’era questo desiderio di stabilità. Infatti, io mi trovavo molto bene a Salerno, come detto, tanto che la domanda per Milano me l’hanno fatta alcuni colleghi perché io non mi brigavo affatto per spostarmi, perché pur pensando che fosse un’esperienza temporanea, non volevo che terminasse, mi trovavo molto bene lì. Conducevo una vita molto simile a quella dei locali.

A Milano, la facoltà di Scienze politiche era proprio in via di costituzione in quel momento, si stavano gettando le fondamenta. Tra l’altro c’è stato di recente il cinquantesimo anniversario della facoltà, a maggio 2022, a cui ho partecipato.

La facoltà è stata anche all’origine di un Centro di studio sull’eguaglianza di genere, probabilmente il primo in Italia, insieme al «CIRSDe» di Torino fondato da Chiara Saraceno, il «Centro Donne» di Milano che era l’abbreviazione di Centro Interdipartimentale Studi e Ricerche Donne e Differenze di Genere.

A Salerno ero «professore incaricato» (l’equivalente di associato, era un contratto precario anche se era molto difficile che questo incarico venisse tolto), mentre a Milano sono diventata associata.

A Milano il posto era stato chiamato per Sociologia urbana, che ho insegnato per un anno senza avere grosse competenze, devo essere sincera. Dopodiché, ci fu l’esigenza logistico-burocratico-amministrativa di creare un istituto di «studi sul lavoro» e c’era appunto l’esigenza di nominare tre docenti per tre discipline, nel nostro caso erano diritto del lavoro, diritto penale del lavoro e sociologia del lavoro e dell’industria. I tre docenti erano Pietro Ichino, Carlo Smuraglia ed io.

La sociologia del lavoro è sempre stata la mia passione. Dalla tesi di laurea su Durkheim a Pavia, passando per Touraine a Parigi, e infine il lavoro con Lockwood a Cambridge. E l’inserimento in questo piccolo istituto di studi sul lavoro, nel quale era necessaria e strumentale la mia presenza per raggiungere il numero minimo di tre docenti, ha, a maggior ragione, influenzato il carattere lavoristico del mio percorso di ricerca e insegnamento.

 

Cosa si provava a essere le prime e i primi a insegnare e a studiare sociologia in Italia?

La sociologia aveva delle radici molto antiche, ma molto ristrette. Più gli studi di antropologia che di sociologia vera e propria. Il padre del fumettista e vignettista Altan (Carlo Tullio-Altan) era per tutti «il» docente in Italia di antropologia.

Sull’essere i primi, senz’altro una ansia da performance, perché la visibilità era elevata. Ma anche un desiderio di professionalità e di riconoscimento, che detto così possono sembrare la stessa cosa. Se vogliamo la posizione del primo arrivato assomiglia al caso dei membri di una società, un esempio di tokenism, nel senso che la posizione in cui entrare è superiore a quella di chi entra e quindi si trova soggetto alla ben nota logica del tokenism. Sul tokenism sappiamo già tutto ed è inutile che ne parliamo. La logica del tokenism sembra molto opprimente, come dire è un «you cannot win», o ti assimili all’élite in cui vuoi entrare o ti escludi. Poco studiato, invece, è l’ingresso del token quando il token origina in una condizione sociale superiore, che sarebbe quella del sarto giapponese che arriva a Londra e spiazza tutti nella posizione più prestigiosa. Quindi, il token difficilmente è contento, oscillando tra una posizione subalterna e una imitazione del desiderio della carriera di sottomissione al modello dominante.

 

Veniamo allora ai tuoi temi di ricerca di quegli anni.

I miei temi di ricerca: il cui nocciolo è la costituzione del soggetto individuale e collettivo, la sua rappresentanza e l’impatto sulle politiche sociali. Dunque, la contiguità dei vari momenti/argomenti è maggiore di quanto sembri.

Inizialmente, la sociologia classica e la riflessione sulla divisione del lavoro che porta in termini Durkheimiani, che mette in luce, la difficoltà di trovare una solidarietà «organica» entro le società sviluppate. Ho trattato queste tematiche per diversi anni, nello studio comparato dei movimenti operai. A fianco e dopo vi è stato il femminismo, con operazioni esplicitamente trasversali, studiando il femminismo sindacale. Al soggetto donne, nel corso degli anni, si sono aggiunti altri soggetti quali i migranti, soprattutto le donne migranti in cerca, e in lotta, di riconoscimento e inclusione. Insomma, l’intersectionality come prospettiva teorica e di pratica politica. Va detto che il passaggio dal rispettato e rispettabile movimento operaio a quello femminista è stato percepito da molti colleghi uomini come un abbandono delle sfide e delle ambizioni pregresse. Dunque, secondo loro, il risultato sarebbe stato diverso se il cammino fosse stato temporalmente al contrario. Parliamo qui del caso italiano, della sociologia italiana, poiché in altri paesi la situazione era ben diversa.

 

Ma questi temi di ricerca te li sei scelti o te li hanno «imposti»?

Li ho scelti io. Per ricordare il mio maestro, Alessandro Pizzorno, un tema di ricerca viene scelto a partire da problemi della letteratura oppure in reazione a un fatto sociale. Si tratta qui di una scelta del secondo tipo: il femminismo emergente negli anni Settanta.

 

Parliamo di AIS e parliamo del tuo ruolo in AIS, quindi soprattutto di AIS-ELO, ma anche, più in generale, della tua partecipazione dentro l’Associazione Italiana di Sociologia.

Iniziamo con il dire che l’associazionismo disciplinare può rispecchiare più o meno anche una gerarchia di interessi disciplinari. Anche qui, la tradizione italiana si presenta come diversa da quelli di altri paesi, poiché, appunto, la disciplina sociologica non è esistita in accademia fino agli anni Sessanta. La nascita tardiva dell’Associazione Italiana di Sociologia è ovviamente un fatto sociale che esprime una nuova identità, quella di essere sociologhe e sociologi. Nasce bipartisan e i sociologi compaiono divisi, in una divisione che in realtà si vedeva come tricotomica più che dicotomica.

Il primo momento, che è stato quasi un momento di fervore collettivo, si svolse a Bologna nel novembre del 1971, ci diedero il nome di «Giovani Sociologi». C’erano Anna Anfossi, Magda Talamo e Laura Balbo, oltreché la mia amica Simonetta Piccone Stella. Poi, tra gli uomini, ricordo gli amici Alessandro Cavalli, Alberto Martinelli, Guido Martinotti, Massimo Paci, Arturo Parisi, Marino Regini ed Emilio Reyneri. Se erano chiari e generalmente riconosciuti i fratelli maggiori (Pizzorno, Gallino, Ardigò) non erano chiare le gerarchie tra i fratelli minori. Come è noto la divisione del lavoro non lo è tra pari, ma più una gerarchia o comunque a questo si arriva.

Come sappiamo AIS è stata ufficialmente costituita il 5 aprile 1982 da Giovanni Statera, Francesco (Franco) Leonardi e Franco Crespi. Tra i primi presidenti di AIS ci sono stati proprio Achille Ardigò e Luciano Gallino. Ma poi anche la mia amica Laura Balbo, prima donna, e poi un altro amico come Antonio de Lillo. A tal proposito, suggerisco la lettura di «25 anni dell’Associazione Italiana di Sociologia. Materiali per scriverne la storia» di Antonio Scaglia, Quaderni del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università degli Studi di Trento, 2007, 39, 7-33.

Veniamo a Economia, Lavoro e Organizzazione (ELO) che era la componente più di sinistra (ma non marxista) tra le sezioni dell’AIS ed era nel contempo quella più maschile e più professionale, nel senso che ci teneva a smarcare la sociologia accademica rispetto alle correnti culturali nelle quali la pratica era più cultural-giornalistica. Sono stata una delle fondatrici di ELO, tant’è, se ben ricordo, pur essendo entrata nel Direttivo nazionale di AIS, che mi sono dimessa da quella carica per andare a fondare ELO poiché questa mi sembrava una rappresentanza ideologicamente e professionalmente più precisa. Ricordo anche il mio triennio di direzione (1995-1998) di ELO come un periodo pieno di eventi culturali, nazionali e internazionali e di iniziative extra-disciplinari. Era poi il periodo in cui la tematica di genere entrava nella sociologia italiana. Qui ci fu la famosa battuta: ricordo che quando organizzai con Giuseppe Bonazzi e Chiara Saraceno un convegno nazionale a Milano sulla utilità della categoria di genere come strumento di analisi nelle scienze politico e sociali, la lettera di Bonazzi rivolta al Presidente del CNR per ricevere un contributo economico ebbe come risposta: «Certo, il contributo verrà dato, ma da quando in qua ti occupi di grammatica nei tuoi studi?». Il «genere» venne confuso, tant’è che Bonazzi rispose: «Grazie, ma genere vuol dire le donne!». Tale, dunque, era l’arretratezza culturale delle scienze sociali in Italia. Da questo convegno ne usci un bel libro Donne e uomini nella divisione del lavoro. Le tematiche di genere nella sociologia economica, Milano, Franco Angeli, 1992.

A questo punto, vorrei parlare di una parola chiave, nella mia vita «personale» e in quella accademica: il concetto di pari opportunità. Termine che ho contribuito a far sviluppare in Italia, ed è diventato sempre di più una chiave di volta per interpretare la costituzione dei soggetti e la definizione delle politiche sociali. Fu anche una esperienza professionale quando contemporaneamente fui inserita nel «Comitato Nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento e uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici» (in breve «Comitato Nazionale di Parità») istituito presso il Ministero del Lavoro; e anche quando fui nominata Presidente del «Comitato Pari Opportunità» dell’Università di Milano; e, infine, il biennio in cui fui nominata rappresentante del governo italiano presso il neonato «Istituto Europeo per l’Eguaglianza di Genere» (EIGE, acronimo inglese di «European Institute for Gender Equality») a Vilnius, in Lituania.

Infine, vorrei anche ricordare che nel 1990 fui eletta nel Consiglio Comunale di Milano, come indipendente tra le fila del Partito Comunista Italiano (PCI). Sindaco era Paolo Pillitteri (chiamato scherzosamente il «sindaco cognato»), il quale mi affidò la delega «alla condizione femminile», sono rimasta in carica fino al 1993 e decisi di non ricandidarmi alle successive elezioni. Fui molto contenta quando, il 7 dicembre 2002, mi fu conferita la Medaglia d’Oro (meglio nota come Ambrogino d’Oro), massima onorificenza del Comune di Milano.

Insomma, sia la mia vita accademica che quella da militante, da attivista e più personale è stata dedicata alle pari opportunità.

 

Permettimi, Bianca, di aggiungere alla tua lista anche la nomina a «Socia Onoraria» di AIS, avvenuta nel 2020, proprio a riconoscimento della tua incessante partecipazione all’interno dell’Associazione.

È interessante ricordare che tu sei stata una delle prime in Italia a insegnare «pari opportunità». Non gender studies, ma iniziando appunto con le pari opportunità. I tuoi colleghi non opposero nessuna resistenza al fatto che tu avevi trasformato sociologia del lavoro in sociologia del lavoro e delle pari opportunità, come sei riuscita a fare questa cosa, a istituzionalizzare le pari opportunità?

Semplicemente, non se ne erano accorti. Perché sembrava una cosa tanto irrilevante che non c’era bisogno di discuterne. Sicuramente il fatto che ero ordinaria ha favorito questa operazione.

 

Abbiamo parlato, all’inizio dell’intervista, di come tu venga definita «madre» della sociologia italiana. Ti volevo fare la domanda inversa: tu che maestra sei stata?

A questa domanda, forse, puoi rispondere più tu di me.

È difficile trattare della barriera che c’è tra l’aiutato e l’aiutante ed è sicuramente stato difficile anche per me. Con i miei allievi, ho sempre cercato di aiutarli, in particolare quando ne avevano bisogno, ai più diversi livelli. Tra loro, i migliori, oltreché degli aiutati si sono poi trasformati in miei aiutanti. Ho imparato molto da loro. Alcuni allievi erano più bravi di altri, e i rapporti gerarchici sono diventati di paritaria collaborazione. Possiamo citare Anna Rita Calabrò, Asher Colombo e Guglielmo Meardi.

Paradossalmente, ci sono quelli che hanno fatto la scuola di sociologia (la scuola «CoSPoS», situata all’interno dell’«Umanitaria» di Milano). Io ero istruttrice e come borsisti avevo dei quasi coetanei come Lorenza Zanuso, Ida Regalia, Marino Regini, Emilio Reyneri. Per la verità, pure io volevo fare la borsista ma fu Alessandro Pizzorno (Direttore della scuola) che, tornata da Cambridge, mi disse che era più appropriato per me il ruolo di istruttrice. Insieme a me ricordo che c’era anche Carlo Donolo e così anche Gian Primo Cella. Alessandro non insegnava ancora a Milano, fu ad Ancona la sua prima cattedra.

 

Ci avviamo verso la fine della nostra intervista, parliamo allora del presente, come vedi la sociologia italiana, o la sociologia in generale, oggi?

Della sociologia si potrebbe dire che è una disciplina con un paradigma debole. Una serie di concetti, passaggi, rapporti tra più sfere, nella storia della scienza. Il riferimento classico è Thomas Kuhn, il quale ha ben descritto come un paradigma viene formato e quando non è più sufficiente a spiegare i fenomeni che intende spiegare si trasforma in un’altra teoria. Avevo scritto di questa cosa addirittura nel saggio in memoria di Aris Accornero pubblicato sulla rivista Sociologia del Lavoro (2020, 158, 7-20), citando appunto Thomas Kuhn: il paradigma resiste poco alle diverse prove, il momento che secondo Kuhn indica la difficoltà di rendere conto di alcuni fenomeni spiegati dal paradigma stesso, induce all’abbandono del paradigma vigente e alla frettolosa ricerca di un paradigma nuovo.

Un altro concetto che vorrei citare e che mi sembra molto importante è quello di generazione: in generale distinguendo tra periodi storici che hanno un ruolo forgiante di identità (esempi, il Palazzo d’Inverno e la Bastiglia) che, indipendentemente dalle differenze d’età, unificano persone nate in momenti diversi in una sola categoria. Un imprinting che abbraccia una fascia temporale variabile. Un esempio, oggi, è il ’68 del Novecento con gli attuali movimenti sociali.

Vedo tutt’ora come la sociologia sia una materia molto importante. La sociologia è stata un elemento di comprensione autorevole delle società dopo la Seconda guerra mondiale, mentre oggi, a un confronto di importanza, lo è di meno a vantaggio dell’economia e degli studi politici. Quindi c’è una minore centralità della sociologia in quanto l’arco dei problemi a cui si indirizza è molto più variegato, cioè la sociologia è più ampia dell’economia e anche della politologia, in quanto spiega fenomeni più complessi e differenti. L’enfasi sulla «vita quotidiana» e sul lungo periodo è molto variabile. Lo stesso termine, vita quotidiana, è stato usato per indicare fenomeni diversi accomunati dalla loro quotidianità (una teorica di queste posizioni è Dorothy E. Smith che ha scritto, nel 1987, The Everyday World as Problematic: A Feminist Sociology, Boston, Northeastern University Press). Avvenimenti molto importanti si condensano spesso in un periodo breve. Ci sono periodi in cui sembra non accada niente e altri in cui sembra che accada tutto. Facciamo esempi recenti nel caso italiano: la Seconda guerra mondiale, l’uscita dal Fascismo, la lotta partigiana. E altri, appunto, in cui sembra non accade niente, come gli anni Cinquanta. Ma spesso non è vero, e sono ricostruibili dei reticoli sociali o delle reti sociali, e a una indagine più approfondita si notano le reti più fitte che svelano relazioni meno evidenti. A tal proposito segnalo che recentemente la sociologa statunitense Ruth Milkman, allieva di Michael Burawoy, riprende il concetto di generazioni di Karl Mannheim, proprio per fondare una prospettiva diversa dalla quale guardare alla formazione di diversi movimenti e ai nuovi conflitti sociali che si sono formati negli Stati Uniti degli ultimi dieci anni. È proprio da questo incrocio di esperienze che intendo partire con una nuova ricerca.


1

I termini «token» e «tokenism» sono stati introdotti da Rosabeth Moss Kanter nel 1977 con il libro Men and Women of the Corporation, New York, Basic Books.

  • Articolo
  • pp:243-254
  • DOI: 10.1485/2281-2652-202426-13
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