AIS

2024/26

Società digitale: interrogativi, aree di ricerca e ruolo della sociologia


La verità è ciò che noi cerchiamo di scoprire in un determinato modo,
e che noi riconosciamo come verità per come la scopriamo.
Ma come facciamo a sapere che il metodo è buono? Perché persegue la verità.
(Ian Hacking)

Introduzione

Quasi un decennio fa parlando di datificazione e di sociologia della quantificazione alcuni studiosi (Espeland e Stevens, 1998) affermavano che i sociologi sono generalmente restii a indagare la quantificazione come fenomeno sociale a sé stante. Con la crescente datificazione della società contemporanea grazie anche allo sviluppo delle tecnologie digitali e alla diffusione dei Big Data, si sta verificando un cambiamento radicale del modo in cui si fa ricerca e di come si produce conoscenza sociologica. Nella società digitale, assistiamo a una progressiva ed esponenziale tendenza alla traduzione delle interazioni sociali in dati digitali. Le interazioni sociali mediate dalle tecnologie divengono dati a disposizione e accessibili anche a coloro che si relazionano in queste interazioni digitalmente oggettivizzate. Infatti, le piattaforme, le applicazioni e gli altri sistemi digitali consentono di agire in ambienti predeterminati, in cui le possibilità di azione e reazione vengono delimitate attraverso specifiche architetture e interfacce grafiche. Spesso, è anche possibile accedere ai propri e altrui dati, e reagire a essi attraverso un ventaglio di possibili azioni. In questo modo le interazioni vengono «inscatolate», rappresentando di fatto le uniche possibili all’interno di quello specifico sistema digitale. 

Nonostante lo sviluppo del digitale abbia comportato, come sappiamo, una sorta di rivoluzione scientifica, ovvero il passaggio al «quarto paradigma», la sociologia della quantificazione però fatica a trovare un oggetto di studio ben definito, concetti teorici e metodologie condivisi. Sono molteplici i quesiti che si aprono parlando di società della datificazione e ognuno di questi trova una sua propria declinazione empirica. Una prima domanda, per esempio, può riguardare il processo che dà forma alla produzione di numeri e quando e come i numeri possono contribuire a modificare la realtà sociale. Forse, data la mole dei dati a disposizione sarebbe più opportuno indagare come governare la quantificazione. Questo perché i numeri giocano un ruolo importante e crescente nel governare la dimensione sociale e individuale.

La premessa è che i dati sono socialmente costruiti. Nonostante la retorica popolare contraria (Anderson, 2008), non esistono cose come i «dati grezzi». I dati non esistono prima dell’azione sociale, ma attraverso l’azione sociale (Bowker, 2013). E i dati non sono neutrali nel descrivere la realtà (Neresini, 2015), agiscono su ciò che descrivono, e retroagiscono su chi li utilizza e li costruisce. Inoltre, una volta stabilizzati, essi diventano autonomi, indipendenti dalle procedure di costruzione e senza memoria delle proprie origini. I dati non rappresentano quindi la realtà sociale, anzi partecipano alla sua costruzione. Essi non hanno solo una funzione simbolica, come vorrebbe l’epistemologia realista, volta a costruire un dato pezzo di realtà, ma anche una funzione connotativa e denotativa, perché contribuiscono attivamente alla formazione di fatti significativi per la scienza sociale e normativi per la società. Come sostengono Gitelman e Jackson (2013), i dati sono sia strutturati in modo attivo che prodotti in contesti specifici, essi sono oggetti e soggetti della conoscenza. Infine, e questo è determinante nella società digitale, i dati generano reazioni adattive negli attori a cui si riferiscono.

E allora come dovremmo governare a nostra volta i numeri? Dobbiamo semplicemente accettare la loro proliferazione, in qualsiasi forma, come inevitabile, o ci sono modi migliori o peggiori per usarli?

1 Gli effetti performativi e trasformativi della quantificazione

Prendiamo, per esempio, le classifiche che annualmente vengono prodotte per stilare graduatorie circa le città italiane dove la qualità della vita è più elevata o i ranking delle più prestigiose università italiane. Queste forme di quantificazione, pur nella loro semplicità, sono fortemente trasformative e offrono spunti interessanti per capire come i numeri possano provocare reattività e rimodellare le mappe cognitive individuali. Per Hacking (1999) i dati sono fatti sociali che resistono al cambiamento e generano reazioni da parte dei soggetti con cui si relazionano. Le classificazioni effettuate nelle scienze sociali possono, se messe in atto nelle istituzioni, cambiare il modo in cui gli individui percepiscono sé stessi. Prendendo per esempio le classifiche di merito degli atenei italiani, rettori, professori, direttori, studenti iscritti o in procinto di iscriversi sono i principali destinatari e «consumatori» di tali numeri e attraverso la lente delle classifiche, oltre ad acquisire informazioni sul loro mondo professionale, a seconda dei ruoli, agiscono di conseguenza. Questi ranking sono realizzati da enti esterni come istituti di ricerca o redazioni giornalistiche, e valutano le università o le città sulla base di una serie di indicatori caratteristici attribuendo un peso specifico a determinati fattori: per esempio, nel caso delle università, vi è una combinazione tra differenti parametri come ricchezza dell’ateneo, qualità della ricerca, selettività degli studenti o la reputazione internazionale. Il dibattito crescente sull’accuratezza delle classifiche, legato alla diversità nelle metodologie di rating, indica la mancanza di consenso univoco in questo campo. Esiste, infatti, una letteratura che analizza i rating evidenziandone gli errori, le ingenuità metodologiche, le inaffidabilità. Nonostante la scarsa solidità delle basi scientifiche, la grande potenza mediatica e il forte impatto economico di tali classifiche giustificano politiche di concentrazione delle risorse con l’effetto perverso di aumentare le disuguaglianze tra gli atenei e l’accesso all’istruzione universitaria.

Per usare un termine della filosofia linguistica (Austin, 1975) che dice che le parole a volte sono anche azioni, i numeri sono «performativi». Inoltre, i dati, non importa quanto grandi o piccoli, sono caratterizzati da rapporti di potere. Bourdieu (1979) ha criticato il processo di codifica come parte del potere simbolico espresso dallo Stato, perché «il potere simbolico è un potere di costruzione della realtà». Egli considerava i numeri che rappresentano i fenomeni come il centro dei dibattiti pubblici e dell’azione politica. Diversamente, Foucault (1980) con il suo concetto «potere-conoscenza» ha chiarito che il potere si fonda sulla conoscenza e si avvale della conoscenza e che, d’altro canto, il potere riproduce la conoscenza plasmandola secondo le sue intenzioni.

L’effetto performativo e trasformativo di queste e di altre forme di quantificazione si può concentrare direttamente sull’individuo e sulla dimensione della sua vita quotidiana. Si pensi alle interazioni sui social media, in cui è possibile osservare in tempo reale visualizzazioni, commenti, reazioni ai contenuti, agli utenti e alle loro reti. Una delle tendenze che va in questa direzione è il cosiddetto Quantified Self, un variegato insieme di strumenti di auto-osservazione che si muove tra l’ambito delle tecnologie indossabili e quello dell’Internet delle Cose. Nel Quantified Self il concetto di informazione viene applicato alla vita quotidiana e anziché sulla tecnologia si concentra sulla persona. Negli Stati Uniti, ha generato vere e proprie comunità, dedite a misurare calorie consumate, chilometri percorsi, qualità del sonno, fino ad aspetti molto dettagliati della propria vita quotidiana (Neff e Nafus, 2016). Come sostiene Deborah Lupton (2015) il self-tracking, ovvero monitorare, misurare e registrare elementi del proprio corpo e della propria vita come forma di auto-miglioramento o di auto-riflessione, è una pratica derivante da tecnologie digitali che si configurano come il prodotto di processi sociali, culturali e politici più ampi. Le pratiche attraverso cui le persone consapevolmente e intenzionalmente monitorano la propria vita quotidiana, il proprio corpo e i propri comportamenti possono essere finalizzate, da una parte a soddisfare la propria curiosità sui modelli comportamentali o corporei che ne derivano; dall’altra parte possono avere uno scopo più specificamente orientato agli obiettivi, dando un significato alle informazioni che si sceglie di raccogliere, al fine di individuare modelli in grado di migliorare la salute, la forma fisica, il benessere emotivo, le relazioni sociali o la produttività lavorativa. La conoscenza del sé attraverso i numeri può essere intesa come una modalità intrigante di usare informazioni che derivano dall’auto tracciamento (self-tracking) per obiettivi personali di miglioramento della propria autostima e della propria vita, ma può essere intesa anche come un’impresa non esclusivamente volontaria ma, al contrario, incoraggiata e addirittura imposta agli individui per soddisfare obiettivi d’altro tipo generando profitto per coloro che li utilizzano a livello commerciale o facilitando la gestione e il governo delle persone. Inoltre, come sottolineato da Beer e Burrows (2013), questi dati hanno una vitalità propria nell’economia dei dati digitali in virtù del fatto che circolano, mettono in atto nuove forme di conoscenza e vengono utilizzati e riproposti in molti modi diversi. Questi sono anche a disposizione di agenti non umani, che possono processarli per fini economici, per regolare l’accesso a future interazioni mediate digitalmente, per prevedere comportamenti. In altre parole, hanno una propria vita sociale, del tutto indipendente dagli esseri umani che li hanno originariamente generati (Lupton, 2016). Da una prospettiva sociologica questa particolare famiglia di nuove tecnologie di quantificazione pone l’attenzione su una serie di domande che si sovrappongono e che proponiamo come nuove piste di ricerca. Perché le persone sono attratte dall’auto-tracciamento? Come interpretano e usano i dati che producono? In che modo i concetti di corpo, di sé, di relazioni sociali e di comportamenti sociali vengono costruiti e negoziati attraverso questi dati? Neff e Nafus (2016) pongono l’attenzione sul modo in cui il self-tracking influisce sul sé. Secondo i due studiosi le persone usano il self-tracking per raggiungere una serie di obiettivi: monitorare e valutare sé stessi (sono stato produttivo oggi?), suscitare sensazioni (come mi sento se raggiungo un particolare livello di glucosio nel sangue?), soddisfare curiosità estetiche (quali schemi di movimento posso rintracciare in una mappa dei miei giri in bicicletta?), risolvere un problema (quali cibi scatenano le mie emicranie?) e coltivare abitudini (riesco a fare 10.000 passi al giorno?). La domanda che possiamo porci è quanto i numeri sono liberatori o disciplinanti? È anche possibile che l’auto-quantificazione produca un soggetto che non è né liberato né oppresso, ma semplicemente diverso. Il solipsismo dell’attenzione costante ai propri numeri può contribuire a creare un soggetto coinvolto in sé stesso che si impegna meno con il mondo esterno grazie alla possibilità di avere un più vasto accesso al proprio mondo interno (Nafus e Sherman, 2014).

2 Società digitale e governo dei numeri

Alla luce di quanto detto appare chiara l’evidenza che i numeri hanno il potenziale di alterare potentemente le traiettorie di individui e di organizzazioni. Organizzazioni sovranazionali, Stati, agenzie, organizzazioni, aziende e istituzioni hanno da sempre costituito la loro autorità e legittimazione producendo conoscenza sotto forma di dati, seguendo metodi e forme di assemblaggio diversi, che vedevano una combinazione variabile di tecniche (per esempio censimenti, survey, log, archivi ecc.) e di attori (pubblici/privati, nazionali/sovranazionali, governi/istituzioni), dando vita a diversi regimi di dati (Desrosières, 1998; Hacking, 1990; Porter, 1986). Molti studiosi hanno analizzato l’evoluzione storica di questi regimi di dati (Desrosières, 1998; Supiot, 2015), e il modo in cui i cittadini hanno sfidato le categorie sociali dei regimi di dati e i loro effetti (Anderson e Fienberg, 2000; Kertzer e Arel, 2002; Nobles, 2000). Ma queste analisi si riferivano a uno specifico regime di produzione dei dati guidato dal pubblico, dove «lo stato, o meglio le organizzazioni, le istituzioni, le agenzie, gli agenti e le autorità che compongono il complesso campo del governo, hanno mantenuto a lungo un monopolio effettivo sui regimi dei dati» (Ruppert et al., 2017, 3). Questo scenario è stato messo sempre più in discussione dall’affermarsi dei big data, per cui una grande varietà di attori svolge ruoli chiave nella governance dei dati. Con la crescente raccolta e diffusione dei dati da parte delle aziende di comunicazione, logistica e informatica (Thrift, 2005) il valore associato ai dati è cambiato. In un regime di dati governato da attori pubblici, i dati erano considerati un bene pubblico, e più il bene è diffuso maggiore è il suo valore. Al contrario, nel mercato privato la scarsità attribuisce valore al bene. Pertanto, più il bene è raro, maggiore è il suo valore. Ciò significa che la privatizzazione dei dati ha completamente sovvertito il legame tra dati e valore, e possiamo anche aggiungere quello tra dati e potere.

Quando poi vengono utilizzate intelligenze artificiali e algoritmi ad autoapprendimento, il controllo umano sul procedimento di analisi dei dati viene ridotto al minimo, se non completamente, limitando fortemente perfino le fasi di input e di utilizzo degli stessi dati. Conseguentemente, le operazioni svolte, le correlazioni e anche le stesse informazioni che vengono utilizzate nel trattamento, rimangono materia oscura al titolare; gli stessi sviluppatori dell’algoritmo non sono a conoscenza di quali passi siano stati compiuti con esattezza e quale sia stato il «ragionamento» del software. A questo proposito Cathy O’Neil (2016) sviluppa il concetto di Weapons of Math Destruction fornendo numerosi esempi di modelli utilizzati da decisori pubblici, opachi, dannosi le cui caratteristiche definiscono appunto le WMD (Armi di Distruzione Matematica). La tendenza è infatti quella di creare algoritmi ad autoapprendimento che risultino imperscrutabili, sia dagli utilizzatori che dagli sviluppatori, le cosiddette black boxes. Attraverso una serie di esempi, O’Neil ci mostra come gli algoritmi stiano diventando un pervasivo strumento di ausilio alla decisione per gli esseri umani. Uno strumento particolarmente insidioso dal punto di vista etico. Gli algoritmi non sono che «opinioni tradotte in matematica» (letteralmente «opinions embedded in mathematics») incorporano i pregiudizi di coloro che sviluppano i modelli matematici e, successivamente, li traducono in codici. Inoltre, osservando i fenomeni sociali attraverso l’enorme mole di dati disponibili, i modello matematici «apprendono» e reiterano le ingiustizie già in atto nella società. Dal punto di vista delle questioni etiche e della privacy, siamo di fronte a trattamenti di dati personali le cui modalità sono nascoste agli stessi titolari. Alle domande: in che modo le informazioni vengono collegate? Quali di esse vengono utilizzate? Non è tecnicamente possibile dare una risposta – almeno a priori: ne consegue immediatamente che, non potendo informare il soggetto coinvolto, il requisito della trasparenza non può essere soddisfatto. In questo stato di connessione perenne in cui siamo immersi, come direbbe la studiosa Helen Nissenbaum (2011), non esistono più una sfera privata e una pubblica, ma una pluralità di spazi, all’interno dei quali le informazioni acquistano significato a seconda del contesto in cui vengono veicolate, degli attori che le ricevono, delle aspettative sociali che vengono investite in esse. Per questo, il vero problema non è legato all’informazione in sé, ma al contesto in cui viene resa pubblica. Più che invocare una generica tutela della privacy, sarebbe opportuno riflettere proprio su tale mancanza di «integrità contestuale» a cui sono sottoposti quotidianamente i nostri dati personali.

La pervasività dei dispositivi computazionali modifica radicalmente lo spazio personale e il «territorio comportamentale», inteso come un luogo o un oggetto che soddisfa certi bisogni o motivi e dove la proprietà è chiaramente trasmessa attraverso qualche forma di personalizzazione (Shklovsky et al., 2014, 2348). Come mostrano diversi studi (Shklovski et al., 2014), i dispositivi mobili modificano l’ampiezza dello spazio personale, perché costituiscono di fatto «un’estensione del corpo» di chi prende decisioni, permettendogli, grazie alla tecnologia che amplia i confini del sé, di intercettare l’ignoto nella zona tradizionalmente off limits dello spazio strettamente personale determinando squilibri di potere tra individui, individui e istituzioni, individui ed entità organizzate. Non si tratta, quindi, solo di erosione della privacy, bensì di una più complessa dinamica, che investe trasversalmente molti ambiti della vita socioeconomica, ben sintetizzati dal concetto di contesto, inteso come ambiente sociale strutturato, caratterizzato da attività canoniche, ruoli, relazioni, strutture di servizio, norme (o regole) e valori interni (obiettivi, fini, scopi) (Nissembaum, 2011).

Vi è quindi la possibilità che il contesto, inteso come ambiente sociale strutturato, perda la sua integrità. L’integrità contestuale è, infatti, definita in termini di norme informazionali: è preservata quando le norme informazionali sono rispettate e violata quando le norme informazionali sono violate (Nissenbaum, 2011). Le norme informazionali sono quelle che riguardano la trasmissione, la comunicazione, la distribuzione e la disseminazione delle informazioni. L’integrità contestuale viene meno quando per ignoranza o intenzionalmente quelle norme sono disattese o trascurate (Shklovski et al., 2014).

Ogni quantificazione di un qualsiasi fenomeno fornirà sempre una visione parziale, anche se a volte utilissima, dello stesso. In questo momento stiamo assistendo a un’esplosione di analisi e modellizzazioni che, oltre a non tenere in debito conto di come sono generati e raccolti i dati, cioè di quali sono le grandezze effettivamente misurate, sono completamente o quasi esclusivamente data-driven. Ossia cercano di «far parlare» i dati senza preoccuparsi troppo della peculiarità del fenomeno oggetto di studio. Questo è in linea con il paradigma dominante «data-centric» secondo cui alcune tecniche e algoritmi statistici stanno dimostrando più di altri il loro potenziale in più di un ambito di applicazione. Tuttavia, nell’attuale contesto sociale, molte di queste analisi e modellizzazioni hanno uno scarso valore, soprattutto predittivo, e sarebbe auspicabile ritornare a focalizzare l’attenzione su modelli theory-driven, ovvero su modelli che diano conto sia di come sono generati e raccolti i dati, sia delle specifiche conoscenze sociali.

Il dibattito in corso raccoglie e rilancia una critica crescente tra gli studiosi, che da qualche anno seguono l’uso di modelli matematici, algoritmi e metriche, alla base di molte politiche pubbliche e attività economiche, per misurare e decidere secondo criteri di efficienza. La critica si sofferma su molti aspetti, tra i quali il fatto che questi oggetti che producono numeri con supposta oggettività sono in uso crescente, e che hanno altresì un carattere prescrittivo e performativo, vale a dire una crescente capacità di influenzare o addirittura creare ciò che descrivono.

Il governo dei numeri, che secondo Zuboff (2019) si costituisce come capitalismo della sorveglianza, ha inciso sulla organizzazione del lavoro, trasformandolo dall’ideale tayloriano, in cui il lavoratore vendeva ore del suo tempo, a un sistema basato su obiettivi misurati, nel quale il lavoratore è chiamato a rispondere in modo globale, adattandosi alle esigenze del lavoro con una logica cibernetica, dove gli indicatori che ne misurano l’operato fungono da termostato. In un sistema caratterizzato dal capitalismo della sorveglianza (come direbbe la Zuboff) i numeri si sostituiscono alle leggi, le basi di coesione sociale si dissolvono in un mondo in cui ciascuno è in competizione con il suo vicino, con una ri-feudalizzazione delle relazioni sociali dove solo la protezione di un (più) potente offre rifugio (Supiot, 2015).

Allo stato attuale l’urgenza della sfida richiede una presa di coscienza e una mobilitazione di esperti, cittadini e forze sociali. Queste ultime debbono farsi carico di iniziative legislative per identificare e combattere pratiche algoritmico-numeriche eticamente inaccettabili nel mercato del lavoro, in quello dell’educazione, della ricerca, nella politica, nel sistema della giustizia.

La modellizzazione matematica e la quantificazione sono, in ultima analisi, attività sociali. Come tali, non possono essere svolte unicamente dai modellisti o dai tecnici, ma richiedono processi inclusivi in tutte le fasi – dallo sviluppo del modello alla comunicazione dei risultati, fino alla traduzione in policy.

3 Società digitale e ricerca sociale

L’introduzione delle tecnologie digitali in un numero sempre crescente di istituzioni e pratiche sociali ha accresciuto gli interessi della ricerca empirica per la società digitale, e ha attratto l’attenzione della sociologia e dei sociologi. La società digitale non offre però semplicemente un altro fenomeno sociale nuovo, dei nuovi oggetti di ricerca empirica per una sociologia che utilizza gli stessi strumenti. Come hanno evidenziato, in vario modo, gli studiosi che potremmo raggruppare sotto l’etichetta di «sociologia digitale», la società digitale sfida alcuni dei principali assunti e concetti chiave che stanno alla base del metodo della ricerca sociale e della teoria sociologica, i quali sono stati sviluppati per ricercare realtà sociotecniche molto diverse, e per cercare riposte a problemi sociali differenti in condizioni molto dissimili. In questo editoriale vogliamo concentrarci su una caratteristica imprescindibile della società digitale, che ha delle implicazioni importanti per la sociologia e per la ricerca sociologica: la materialità.

La riflessione teorica sulla materialità e sulla relazione tra persone e cose si è concentrata sull’inseparabilità di soggetti e oggetti, che si co-costituiscono in un processo dinamico (Miller, 1987, 33), che accade continuamente e non è mai «risolto». All’interno della teoria dell’attore-rete (ANT), per esempio, la materialità è un effetto relazionale (Law, 2015), e anche nella teoria dell’assemblaggio (Deleuze e Guattari, 1980), la materialità emerge quando più apparati entrano in relazione tra loro. Affrontare la materialità del digitale è utile per la ricerca sociale in quanto, da un lato, orienta i ricercatori a pensare come gli oggetti digitali hanno effetti in particolari relazioni e contesti, e dall’altro, ci fa riflettere sulla materialità delle nostre tecniche di ricerca, evidenziando i limiti delle tecniche attuali e dominanti. Considerare la materialità delle tecnologie digitali consente a noi sociologi di capire quale ruolo vogliamo assegnare alla tecnologia, nella ricerca sociale e nel suo metodo.

Esaminando i diversi filoni di ricerca che si sono sviluppati nel tempo, è possibile rintracciare almeno tre grandi linee di ricerca che si occupano tutte, anche se in forme e con accezioni diverse, della materialità del digitale. Ognuna di esse predilige un particolare modo di fare ricerca, che si avvale, in maniera più o meno intensiva, di tecniche digitali. La prima, che è centrata sulle piattaforme (van Dijck et al., 2018), si focalizza sul ruolo che social media, motori di ricerca e applicazioni hanno nella strutturazione, riorganizzazione e governabilità delle interazioni sociali, e nel cambiamento culturale. L’analisi delle piattaforme viene spesso svolta attraverso metodi che si basano sulla premessa che gli ambienti digitali (come blog, motori di ricerca e, ovviamente, piattaforme) possano essere considerati come tecniche, piuttosto che semplici oggetti di studio (Rogers, 2009). I ricercatori pertanto traggono i loro strumenti dagli ambienti digitali che se ne avvalgono per raccogliere, ordinare, organizzare, classificare e valutare i loro dati – come nel caso di API, algoritmi, tag, retweet, Mi piace, hashtag ecc. Il focus di questa prima grande linea di ricerca è principalmente la mappatura dei discorsi online e delle relazioni sociali in rete (Marres, 2017). La seconda, che è invece centrata sui dati, si avvale delle tracce digitali per spiegare modelli e dinamiche sociali. In questo caso, i big data e le piattaforme digitali sono visti come finestre sulla realtà sociale. Il metodo è guidato dai dati, e si focalizza sulla possibilità di tracciare il comportamento umano con precisione senza precedenti. Gli strumenti sono quelli della computational social science (Lazer, 2009), che è più incentrata sulla quantificazione e sulla descrizione, che sulla ricerca delle cause dei fenomeni, ma anche su una serie di modelli bayesiani e fuzzy, che attraverso la strutturazione di processi causali generativi possono adattarsi ai dati della rete. In questo caso, i ricercatori tendono a sottolineare una minore discontinuità nel metodo, perfezionando tecniche che già venivano utilizzate in passato (per esempio, l’analisi del contenuto e l’analisi delle reti). Un ultimo grande filone di ricerca è infine centrato sull’analisi delle pratiche di costruzione e uso della tecnologia. Qui il digitale è di interesse perché in relazione con gli individui, ed è l’intreccio tra gli oggetti digitali, le piattaforme e gli attori umani nei loro specifici contesti sociali a rappresentare il fulcro della ricerca sociologica. L’uso delle tecnologie digitali nei contesti lavorativi, formativi, o di vita quotidiana, è quindi il principale oggetto di studio di questo filone di ricerche. Dal punto di vista del metodo, si prediligono tecniche etnografiche e qualitative, con un interesse spiccato verso l’apparato concettuale e metodologico degli studi STS, da sempre interessati alla sociomaterialità.

Sebbene con gradi e sensibilità diverse, tutti e tre i filoni di ricerca hanno un’attenzione specifica al digitale come oggetto materiale, che non solo diventa l’oggetto di studio della sociologia, ma è anche tecnica attraverso cui si studia. E questo accento sulla materialità del digitale va colta come un’opportunità per la sociologia e per il suo metodo. Infatti, ci obbliga a riflettere su quale ruolo assegnare alla tecnologia nella ricerca sociale, una questione che da sempre è stata al centro di dispute epistemologiche. Non si possono dimenticare le critiche di empirismo astratto e tecnicismo rivolte da Mills a Lazarsfeld, e le profonde divisioni tra qualità e quantità tracciate proprio sul ruolo della tecnica nella raccolta, elaborazione e analisi dei dati sociali. Alcune posizioni ingenue (Rogers, 2013) ritengono la tecnologia il motore dell’innovazione e del progresso della conoscenza, e promuovono l’idea per cui le discipline scientifiche si collocano all’estremità passiva, e che il digitale sia l’unica forza di innovazione metodologica (Marres, 2017). Ma la metodologia occupa la posizione centrale in un continuum tra epistemologia e tecnologia (Gallino, 1978), se il metodo dimentica le implicazioni epistemologiche diventa mera tecnologia, qualcosa che i ricercatori non possono controllare intellettualmente. Se, al contrario, il metodo dimentica la tecnologia, diventa una mera filosofia del sociale, che non ha alcun potere di incidere sull’attività di ricerca. Se non si riflette adeguatamente sul ruolo della tecnologia nella ricerca sociale, ci concentreremo sulle rotture anziché sulle connessioni, con il risultato che la continuità tra le tradizioni della ricerca sociale e la ricerca sociale digitale non sarà più riconosciuta. La materialità del digitale ci obbliga a prendere posizione riguardo al ruolo della tecnologia nell’indagine sociale (Orton-Jhonson e Prior, 2013; Daniels e Gregory, 2016), e ci esorta a promuovere l’integrazione di metodi ad alta intensità tecnologica con fonti di dati e metodi tradizionali, adottando una postura metodologica che sia da un lato pluralista (n.b., non dualista!) riguardo alle tecniche che devono far parte della nostra cassetta degli attrezzi, e dall’altro pragmatica, e allo stesso tempo critica, verso le basi empiriche che si producono dentro e attorno agli ecosistemi digitali delle nostra società.

4 In questo focus

Come si è cercato di sintetizzare nei paragrafi precedenti, nella società digitale l’intreccio tra tecnologie digitali e modi di vivere, lavorare e interagire è sempre più inestricabile. I contributi che ospita questo focus offrono una panoramica ricca e diversificata sui domini e le tecnologie coinvolte in questo intreccio, e sugli apparati teorici e metodologici della sociologia che sono necessari per osservarlo. Tutti sottolineano l’importanza di un approccio critico e integrato per affrontare le sfide e le opportunità legate alle tecnologie digitali, promuovendo uno sviluppo tecnologico sostenibile e inclusivo.

Halford e Southerton esplorano il ruolo che la sociologia può svolgere nel dibattito sull’impatto delle tecnologie digitali sulla società e propongono di considerare le tecnologie come intrinsecamente legate a considerazioni sociali, economiche e politiche. Questo perché le tecnologie non sono agenti indipendenti ma sono plasmate e definite dalle pratiche sociali in cui sono incorporate. Il suggerimento è che l’approccio sociologico debba essere integrato nei processi più ampi di costruzione del futuro. Ciò richiede collaborazioni interdisciplinari e alleanze con attori al di fuori del mondo accademico, come organizzazioni comunitarie e attivisti. È cruciale coinvolgere coloro che sono attualmente marginalizzati nei processi decisionali per creare futuri più equi e sostenibili. Scardoni mobilita una prospettiva sistemica alla digitalizzazione, presentando una breve panoramica del pensiero del sociologo francese Jacques Ellul. Secondo l’autore, il suo concetto di «sistema tecnico» si rivela infatti particolarmente utile per l’analisi delle trasformazioni digitali, che si caratterizzano per la loro considerevole interdipendenza, e si collocano in un processo di lungo periodo. L’articolo sostiene quegli studiosi della digitalizzazione che si soffermano sugli elementi di continuità piuttosto che sulle «rivoluzioni» portate dal digitale. Camorrino intende mettere in rilievo alcune analogie tra il «cosmo» digitale e quello delle nuove forme della spiritualità. Un compito che l’autore stesso definisce particolarmente arduo, ma che ci fa capire che entrambi i «cosmi» da lui indagati rappresentano forme diverse del processo di «reincanto» della società digitale. Questa sua proposta appare notevolmente interessante perché può aprire nuovi percorsi alla ricerca sociale digitale, ancora tutti da indagare.

Tre articoli del focus puntano specifiche tecnologie, andando a ricostruire sia le narrazioni dominanti, che le pratiche d’uso. L’articolo di Acampa esamina le narrazioni emergenti riguardo all’Intelligenza Artificiale (IA) e, in particolare, a ChatGPT, sviluppato da OpenAI. La metodologia adottata, che combina Text Analysis e Semantic Network Analysis, offre un’analisi dettagliata e sfaccettata delle opinioni emergenti. L’uso di dati raccolti dai social media fornisce una panoramica autentica e non filtrata delle percezioni pubbliche evidenziando la complessità delle narrazioni sull’IA al fine di evitare una dicotomia semplicistica tra utopia e distopia. L’articolo di Blotta, invece, basato su un’analisi qualitativa di materiale documentale ed etnografico evidenzia come le grandi multinazionali della ICT e della logistica stiano avendo un ruolo determinante nella infrastrutturazione cloud della sovranità digitale italiana. Gandini e colleghi, infine, esplorano gli approcci epistemologici e metodologici per studiare gli algoritmi di personalizzazione e raccomandazione dei contenuti sui social media, con un focus particolare su TikTok. Propongono un protocollo metodologico basato sulla creazione di nuovi account TikTok e sull’interazione controllata con i contenuti personalizzati proposti dalla piattaforma. Attraverso questo protocollo, i ricercatori possono indagare come l’algoritmo di TikTok personalizzi i contenuti per gli utenti, mettendo in luce le dinamiche che governano queste raccomandazioni.

Chiudono il focus di questo numero 26, tre articoli che rivolgono l’attenzione ad alcuni domini specifici di ricerca sociale digitale. L’articolo di Musso e Gilardi esplora le forme di violenza e discriminazione contro le donne nel contesto delle tecnologie digitali. Le autrici esaminano varie tipologie di abusi online, tra cui cyberstalking, cyber-harassment, revenge porn e deep-fake, sottolineando come queste forme di violenza siano spesso un’estensione di pratiche di abuso tradizionali. Le piattaforme web, secondo le autrici, non sono neutrali ma favoriscono la diffusione di contenuti misogini e sessisti a causa delle loro logiche economiche e politiche. Esse criticano l’idea che le soluzioni tecnologiche possano risolvere da sole il problema della violenza di genere online e propongono un approccio integrato che combini interventi legislativi, educativi e tecnologici. Albanese analizza come i movimenti per la giustizia climatica, come Fridays For Future ed Extinction Rebellion, utilizzino le tecnologie digitali per promuovere il cambiamento sociale. Albanese evidenzia come questi movimenti definiscano la coerenza e l’utilità pratica degli strumenti digitali che propongono come alternativa a quelli mainstream, nel contesto del perseguimento di una giusta transizione ecologica. L’autore mette in luce l’importanza di una sostenibilità digitale che tenga conto delle implicazioni ambientali e sociali delle tecnologie digitali. Infine, Matteucci discute il mondo degli eSport come un ambiente unico dove si realizzano dinamiche relazionali e azioni complesse che sono osservabili nel ruolo assunto dal corpo tra analogico e digitale, che non è semplicemente una simulazione del reale o una riduttiva finzione. Il corpo negli eSport entra in gioco a livello fisico e mentale, identitario e intersoggettivo, estetico e comunicativo.

Come curatori di questo focus – che ricordiamo è il risultato di quelle tre intense giornate di studio che si sono tenute all’Università degli Studi di Milano-Bicocca dal 13 al 15 dicembre 2023, in occasione del convegno di inizio mandato del direttivo AIS 2023-2025 su «Società digitale. Riflessioni epistemologiche e metodologiche sull’uso e sulle conseguenze sociali delle tecnologie digitali» – noi crediamo che i contributi ospitati in questo fascicolo possano ispirare e attivare ulteriori ricerche su questo intreccio, oramai inestricabile, tra tecnologie digitali e società.

Riferimenti bibliografici

Anderson, C. (2008). The End of Theory: The Data Deluge Makes the Scientific Method Obsolete. Wired Magazine, 16(7), 16-07.

Anderson, M. e Fienberg, S.E. (2000). Race and ethnicity and the controversy over the US Census. Current Sociology, 48(3), 87-110.

Austin, J.L. (1975). How to do things with words. Cambridge, MA: Harvard University Press.

Bourdieu, P. (1979). Symbolic power. Critique of Anthropology, 4(13-14), 77-85.

Bowker, G. e Star, L. (1999). Sorting things out: Classification and its consequences. Cambridge, MA: MIT Press.

Daniels, J. e Gregory, K. (a cura di) (2016). Digital sociologies. Bristol: Policy Press.

Deleuze, G. e Guattari, F. (1980). Mille Plateaux. Capitalisme et Schizophrénie. Paris: Les Editions de Minuit.

Desrosières, A. (1998). The politics of large numbers: A history of statistical reasoning. Cambridge, MA: Harvard University Press.

Espeland, W.N. e Stevens, M.L. (1998). Commensuration as a social process. Annual review of sociology, 24(1), 313-343.

Foucault, M. (1980). Power/knowledge. New York, NY: Pantheon Books.

Gallino, L. (1978). Dizionario di Sociologia, voce «Neopositivismo e Sociologia». Torino: Utet, pp. 463-475.

Gitelman, L. e Jackson, V. (2013). Introduction. In Gitelman L. (ed.). Raw data is an oxymoron (1-14). Cambridge, MA: MIT Press.

Hacking, I. (1999). The Social Construction of What?, Cambridge, MA: Harvard University Press.

Kertzer, D.I. e Arel, D. (eds.) (2002). Census and identity: The politics of race, ethnicity, and language in national censuses (No. 1). Cambridge: Cambridge University Press.

Law, J. (2016). 1 STS as Method. The handbook of science and technology studies, 31. Cambridge, MA: MIT Press.

Lazer, D., Brewer, D., Christakis, N., Fowler, J. e King, G. (2009). Life in the Network: the Coming Age of Computational Social Science. Science. CCCXXIII, 5915, 721-723.

Lupton, D. (2015). Digital sociology. Abingdon: Routledge.

Marres, N. (2017). Digital sociology: The reinvention of social research. Hoboken, NJ: John Wiley & Sons.

Miller, D. (1987). Material Culture and Mass Consumption. Oxford and Cambridge, MA: Basil Blackwell.

Nafus, D. e Sherman, J. (2014). This One Does Not Go Up to 11: The Quantified Self Movement as an Alternative Big Data Practice. International Journal of Communication, 8, 1784-1794.

Neff, G. e Nafus, D. (2016). Self-tracking. Cambridge, MA: MIT Pres.

Neresini, F. (2015). Quando i numeri diventano grandi: che cosa possiamo imparare dalla scienza. Rassegna Italiana di Sociologia, 56(3-4), 405-431

Nissenbaum, H. (2011). A contextual approach to privacy online. Daedalus, 140(4), 32-48.

Nobles, M. (2000). Shades of citizenship: Race and the census in modern politics. Redwood, Cal.: Stanford University Press.

O’Neil, C. (2016). Weapons of math destruction: How big data increases inequality and threatens democracy. New York, NY: Crown Random House.

Orton-Johnson, K. e Prior, N. (eds.) (2013). Digital sociology: Critical perspectives. Heidelberg: Springer-Verlag.

Porter, T.M. (1986). The Rise of Statistical Thinking, 1820-1900. Princeton: Princeton University Press.

Rogers, R. (2009). The end of the virtual: Digital methods (Vol. 339). Amsterdam: Amsterdam University Press.

Ruppert, E., Isin, E. e Bigo, D. (2017). Data politics. Big Data & Society, 4(2), 1-7.

Shklovski, I., Mainwaring, S.D., Skúladóttir, H.H. e Borgthorsson, H. (2014). Leakiness and creepiness in app space: Perceptions of privacy and mobile app use. In Proceedings of the SIGCHI conference on human factors in computing systems (2347-2356).

Supiot, A. (2015). La gouvernance par les nombres. Paris: Fayard.

Thrift, N. (2005). Beyond mediation: three new material registers and their consequences. Materiality, 231-255.

Van Dijck, J., Poell, T. e De Waal, M. (2018). The platform society: Public values in a connective world. Oxford: Oxford University Press.

Zuboff, S. (2019). The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power. New York: PublicAffairs.

Indice

Archivio della rivista