Inauguriamo la rubrica «l’intervista» pubblicando l’intervista che Luciano Gallino ci ha rilasciato nel gennaio 2012 in occasione della sua nomina a Presidente onorario dell’Associazione Italiana di Sociologia. In questa intervista il Professor Gallino tocca molti temi e affronta diverse importanti questioni. Ripercorre le tappe più significative della sua prestigiosa carriera di studioso, riflette sullo stato di salute della sociologia italiana e analizza alcuni punti nodali che sono oggi al centro del dibattito internazionale nelle scienze sociali.
Luciano Gallino è uno dei più autorevoli e prestigiosi protagonisti degli studi sociologici italiani, attento analista dei problemi e delle contraddizioni del sistema economico e sociale contemporaneo. Nato a Torino nel 1927, ha iniziato la sua carriera di operatore e di studioso di sociologia presso la Olivetti svolgendo un ruolo di primo piano in quella che è stata una delle stagioni più felici delle scienze sociali in Italia, quando esse riuscivano a orientare le politiche pubbliche e a incidere sui processi di modernizzazione della società.
Già Fellow Research Scientist del Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences di Stanford in California, è stato docente di discipline sociologiche in Italia per circa quaranta anni, fino al 2002. È stato dal 1968 il primo Direttore dell’Istituto di Sociologia di Torino, e dal 1999 Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione e della Formazione. Ha fondato e presieduto dal 1987 al 1999 il Centro di Servizi Informatici e Telematici per le Facoltà Umanistiche dell’Università di Torino. Ha ricoperto prestigiosi incarichi istituzionali: già presidente del Consiglio Italiano delle Scienze Sociali, ha presieduto l’Associazione Italiana di Sociologia dal 1987 al 1992; è inoltre socio dell’Accademia Europea e dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Dirige dal 1968 il periodico Quaderni di Sociologia. Dal 2007 è il responsabile scientifico del Centro online Storia e Cultura dell’Industria, progetto che promuove la conoscenza della storia industriale e del lavoro del Nord Ovest italiano dal 1850. È stato editorialista per alcuni fra i più importanti quotidiani nazionali (attualmente per la Repubblica).
Dal 1960 a oggi ha pubblicato (per le maggiori case editrici nazionali: UTET, Laterza, il Mulino, Einaudi, ecc) circa quaranta volumi su temi relativi alla teoria sociale, alla sociologia economica e del lavoro, alla sociologia della scienza e alle tecnologie della formazione. Il suo fondamentale Dizionario di Sociologia è stato tradotto e pubblicato in lingua spagnola. Ricordiamo fra le sue ultime opere: Globalizzazione e disuguaglianze (2000, tradotto in spagnolo), L’impresa irresponsabile (2005), Italia in frantumi (2006), Tecnologia e democrazia. Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici (2007), Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità (2007), Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia (2009), Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi (2011).
Cominciamo la nostra conversazione ripercorrendo gli anni della sua formazione culturale. Come e perché ha scelto di dedicarsi alla sociologia in anni in cui nel nostro Paese questa disciplina di studi era guardata, per opposte ragioni, con una certa diffidenza tanto dalla cultura crociana quanto da quella di ispirazione marxista?
Alla fine degli anni Quaranta all’università di Torino parlava di sociologia, in un gruppo ristretto di studenti e laureandi (tra cui Franco Ferrarotti), solo un filosofo, Nicola Abbagnano, che io ho conosciuto soltanto tempo dopo. Per cui ho incontrato sul serio la sociologia nei primi anni Cinquanta, frequentando la splendida biblioteca aperta a Torino dall’USIS (United States Information Service). Per vivere facevo allora il traduttore di opere narrative e di critica letteraria. In alcuni critici, su cui ho scritto anche dei saggi – Lionel Trilling, Kenneth Burke – mi avevano colpito i complessi rapporti che stabilivano tra letteratura e società. Cercando di approfondire come la letteratura riflette la società, e come la società influisce sulla prima, mi sono imbattuto in varie opere di sociologia: tra le prime Society, Culture and Personality di Sorokin (1947) e Foundations of Sociology di Lundberg (1939). Sempre all’USIS scoprii The Authoritarian Personality di Adorno e altri (1950). Da quest’opera trassi un duraturo interesse per la teoria critica della società, i rapporti tra ideologia e formazione della personalità, e soprattutto quelli tra politica ed economia. Per capire meglio la teoria critica dovetti poi inoltrarmi nello studio del marxismo, della sua crisi politica come della sua permanente validità di fondo quanto ad analisi del sistema economico.
Ci può parlare delle persone che sono state importanti per la sua formazione culturale? Quali sono gli autori che ritiene siano stati più significativi per i suoi studi? Ci può indicare tre libri che a suo avviso non dovrebbero assolutamente mancare nel bagaglio di conoscenze di chi oggi si occupa di scienze sociali? E perché?
L’autore su cui ho speso più tempo è stato forse Talcott Parsons, di cui ho anche seguito alcuni seminari negli Stati Uniti a metà degli anni Sessanta. La sua quadripartizione del sistema sociale in differenti sottosistemi interconnessi in molteplici modi mi è stata utile per non perdere mai di vista che economia e politica non sono soltanto in rapporto tra loro, ma pure con il sistema socio-culturale e con la comunità. Mentre la sua distinzione di diversi livelli dell’azione sociale – biologico, psicologico, sociale, culturale – mi ha sollecitato ad esplorare per un lungo periodo i confini tra sociologia e altre discipline, in specie la psicoanalisi, ma anche la biologia. Un altro autore determinante per la mia teorizzazione sociologica è stato Marx, in specie per la sua concezione della società come formazione sociale le cui componenti strutturali e ideologiche sono alla permanente ricerca di reciproca congruenza. Il concetto di formazione sociale è alla base di tutte le mie opere principali. Può essere definito come un concetto marxiano rivisitato e rimodellato alla luce del concetto parsonsiano di sistema sociale.
Tra i libri inaggirabili per chi si occupa di scienze sociali indicherei quindi il Capitale di Marx, anzitutto perché ha analizzato ed esposto come nessun altro il funzionamento dell’economia capitalistica, fino alla crisi attuale (da cui il recente boom delle vendite di esso nelle librerie di Londra e New York). Ma anche per la concezione che propone dell’economia e del lavoro salariato come alienazione della vita. Due linee di riflessione che rimangono fertili anche se uno respinge, come il sottoscritto, la concezione messianica della storia dello stesso autore. Poi suggerirei il Sistema sociale di Parsons, e forse anche il suo precedente Struttura dell’azione sociale. Infine non dovrebbe mancare in questa mini-biblioteca di base La grande trasformazione (1947) di Karl Polanyi. La sua nozione di contro-movimento che si oppone alla mercificazione della terra, del denaro e del lavoro attuata dall’economia e dalle politiche liberali (che oggi diremmo neo-liberali) è fondamentale per comprendere l’evoluzione sociale degli ultimi due secoli. Nonché per tener conto che il contromovimento sociale avverso il disordine neo-liberale può prendere oggi come ieri due direzioni opposte: quella progressista o social-democratica (per usare un termine un po’ desueto), oppure quella reazionaria e fascisteggiante. Si veda quel che sta accadendo alla nostra epoca in Ungheria e in Grecia.
Lei ha iniziato giovanissimo la sua carriera di sociologo presso la Olivetti. Ci può raccontare come questa esperienza ha influito sulla sua formazione scientifica? Che cosa ha significato per le scienze sociali e, più in generale, per la modernizzazione del nostro Paese il complesso di idee e iniziative culturali e politiche che si sono raccolte intorno alla figura di Adriano Olivetti?
In primo luogo ho dovuto approfondire le conoscenze in tema di economia, teoria dell’impresa, organizzazione del lavoro. Le ho messe a frutto in un libro sull’evoluzione tecnologica ed organizzativa della Olivetti, apparso nel 1960. Numerosi saggi sui temi suddetti, raccolti in un grosso volume che con il precedente presentai agli esami per la libera docenza nel 1962, traevano tutti origine da studi e ricerche compiute nell’ufficio studi in cui Adriano Olivetti mi aveva collocato, dopo avermi assunto a Torino nell’autunno del 1955. In totale, a parte una parentesi americana nel biennio 1964-65, ho compiuto studi e ricerche in quell’ufficio studi di Ivrea, del quale divenni responsabile nel 1960 e che lasciai nel 1971, per quattordici anni. Quasi tutto quello che ho scritto dopo non sarebbe stato scritto, o avrebbe avuto un’impostazione di certo diversa, senza quell’esperienza.
Adriano Olivetti ha grandemente contribuito allo sviluppo delle scienze sociali come fondatore delle edizioni di Comunità, oltre che come manager che nel 1955 aveva istituito il primo ufficio studi ad esse dedicato all’interno di un’azienda italiana. Negli anni Cinquanta Comunità, che allora l’ingegner Adriano seguiva da vicino, pubblica opere centrali di sociologia del lavoro (Friedmann), di economia (Schumpeter), di scienze politiche (Sabine), di urbanistica (Mumford), più un grande dizionario di economia (curato da Napoleoni). Dopo la scomparsa del fondatore nel 1960, Comunità inizia a pubblicare i classici della sociologia, la maggior collana del genere che sia stata pubblicata al mondo. Chiunque abbia studiato scienze sociali in Italia negli ultimi sessant’anni deve qualcosa alla casa editrice fondata da Adriano Olivetti.
Di contro, come potenziale modernizzatore della società italiana Adriano Olivetti ha avuto minor fortuna. Nei quindici anni in cui egli fu di essa amministratore delegato e presidente, dalla fine della guerra alla prematura scomparsa, la Olivetti moltiplicò produzione ed occupazione a tassi impressionanti, grazie ad una combinazione senza pari di ricerca e sviluppo, innovazione del prodotto, design, organizzazione del lavoro, potenza dell’apparato commerciale. Realizzando, con tale combinazione, utili elevatissimi. I quali però, anziché venire passati per intero agli azionisti o spesi in compensi iperbolici per i manager, diventavano per la maggior parte scuole, case per i dipendenti, biblioteche, asili e colonie all’avanguardia, e ogni genere di servizi sociali. Alla base, vi era una concezione dell’impresa come istituzione che chiede molto ai suoi dipendenti, e per tal motivo considera suo dovere restituire molto. Se si fosse diffusa, tale concezione dell’impresa unita alla capacità imprenditoriale di produrre utili anzitutto con l’innovazione del prodotto, avrebbe cambiato in meglio la struttura dell’industria italiana e del mondo del lavoro. Ai tempi dell’ingegner Adriano, si noti, non erano poche le imprese che in diverse regioni italiane, pur essendo di minor scala (la Olivetti giunse ad avere in Italia 16.000 dipendenti, e altrettanti all’estero), condividevano e praticavano gli ideali olivettiani. Oggi si contano sulle dita di una mano.
C’è un altro ambito in cui Adriano Olivetti può essere visto come un modernizzatore sconfitto. È quello della pianificazione territoriale. Nei primi anni Cinquanta promosse un ambizioso piano urbanistico del Canavese, fu poi presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, diede lavoro a dozzine dei maggiori architetti italiani affinché contribuissero a una saggia ripartizione sul territorio delle attività industriali, commerciali e residenziali, a minimizzare il suo uso di risorsa finita e non riproducibile, a difenderne la bellezza. Le sue idee e iniziative sono state completamente ignorate, da imprenditori e politici non meno che da architetti e amministratori locali. Non è l’ultima delle cause dell’imbruttimento del nostro paese.
Nella celebre conferenza che tenne nel 1917, La scienza come professione, Max Weber si proponeva di descrivere «come si configura la situazione di un laureato che abbia deciso di dedicarsi professionalmente alla scienza nell’ambito della vita accademica». Come affronterebbe Lei oggi la stessa questione? Quali consigli e quali riflessioni consegnerebbe a un giovane che si volesse dedicare oggi alla ricerca, in particolare nel campo delle scienze sociali?
La ricerca richiede specializzazione. Nondimeno l’indagine specialistica ha bisogno di un punto ampio e stabile di riferimento. Per uno studioso di sociologia esso deve consistere in una teoria della società. Non si tratta soltanto di andare al di là della banalità per cui tutto è connesso con tutto (come scrive Adorno nel primo dei suoi scritti sociologici). Il ricercatore dovrebbe aver sempre presenti due connessioni. Sul piano intellettuale deve tener conto che ogni categoria o concetto che usa è stato plasmato nel quadro di determinati rapporti sociali. Mentre sul piano della realtà occorre che abbia coscienza che perfino nel frammento di rapporti e comportamenti sociali che sta studiando è presente la società intera. Che per di più non è mai un tutt’uno, quanto un insieme di formazioni sociali in conflitto tra loro.
Un ricercatore sociale dovrebbe altresì essere all’altezza delle complesse esigenze che pone la interdisciplinarità. La separazione stessa delle scienze sociali in molteplici discipline, ciascuna delle quali si suddivide a sua volta in una miriade di settori particolari, è pur essa un frutto necessario della specializzazione, ma si trasforma in una iattura quando il ricercatore opera come se il mondo fosse formato unicamente dai particolari fenomeni che la sua disciplina isola da tutto il resto. Il più spettacolare insuccesso di una scienza sociale del nostro tempo - quello dell’economia mainstream, che con poche eccezioni non ha saputo prevedere né capire né spiegare la crisi iniziata nel 2007 e tuttora in corso – deriva principalmente dal fatto che essa era ed è totalmente priva di interessi e pratiche interdisciplinari.
Uno dei temi più controversi al centro del dibattito pubblico sull’Università (già ai tempi della citata conferenza di Weber) è la questione della valutazione della qualità scientifica. Nel suo ultimo libro Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi (Torino, 2011) Lei sostiene che l’estensione del principio dell’efficienza aziendale a settori come sanità, scuola e università corrisponde ad una precisa tecnica di «assoggettamento» biopolitico che mira foucaultianamente a modellare l’intera vita sociale in funzione dei valori e degli interessi del finanzcapitalismo. L’enfasi sulla valutazione universitaria può essere considerata anch’essa come parte di questo disegno governamentale complessivo? E in che modo, per entrare nel merito della questione, si può coniugare l’esigenza di criteri di valutazione oggettivi e trasparenti con il rispetto della specificità epistemologica delle scienze umane e sociali?
L’idea che esistano criteri di valutazione oggettivi e trasparenti per qualsiasi ramo dello scibile è un artefatto della ragione strumentale dissociata paradossalmente da una concezione oggettiva della ragione. La prima riflette esclusivamente sui rapporti tra mezzi e fini, quali che essi siano. La seconda riflette sui fini che appare bene perseguire nella faticosa opera di costruire e costruirsi una nozione di essere umano, di società, di natura che renda la vita degna di essere vissuta. Onde perseguire i suoi fini la ragione oggettiva ha bisogno della ragione strumentale, ma se questa si afferma, a partire dalla scuola e dal’università, come la fonte dominante di razionalità, il risultato è una vita intellettualmente e moralmente assai più povera di quanto potrebbe essere.
Lei ha fondato quasi venticinque anni fa il Centro di Servizi Informatici e Telematici per le Facoltà Umanistiche dell’Università di Torino. Ci può raccontare quali erano gli obiettivi e quali sono stati i risultati di questa iniziativa? In che modo le tecnologie digitali della comunicazione modificano il nostro modo di apprendere e i nostri modelli cognitivi?
Ho scoperto l’informatica e l’elettronica a Ivrea nei secondi anni Cinquanta. Ne tratta ampiamente già il mio libro del 1960 sulla Olivetti. Da queste esperienze ho ricavato fin d’allora la convinzione che essa avrebbe potuto contribuire a migliorare e innovare l’insegnamento e la ricerca anche delle discipline umanistiche. Per realizzare una simile idea nell’università occorreva un centro che gestisse la relativa tecnologia in un numero adeguato di aule e un gruppo di docenti che se ne facesse carico. Non fu facile realizzarlo, perché negli anni Ottanta, quando iniziai la campagna quinquennale che avrebbe portato all’istituzione del CISI nel 1992, quasi tutti i docenti delle facoltà umanistiche, per tacere di quelli delle facoltà scientifiche, pensavano che l’informatica fosse uno strumento riservato alle seconde. Oggi gli studenti che frequentano le aule informatiche del CISI sono migliaia l’anno, e nessuno si sogna di sostenere che l’informatica e la rete non siano mezzi di studio indispensabili anche per le discipline umanistiche.
Sui rapporti tra tecnologie informatiche e formazione universitaria rinvio per brevità a un mio saggio, “Tecnologie della cultura e società in rete” (Quaderni di Sociologia, 1/2003).
Nella nuova organizzazione del Consiglio Nazionale delle Ricerche le scienze sociali sono state assorbite nel dipartimento «Identità culturale», il che a giudizio di qualificati osservatori avrebbe comportato una sorta di declassamento della sociologia nell’ambito della scienza ufficiale italiana. Quale riflessione si sente di fare sulla condizione di salute della sociologia italiana ora che ha assunto l’autorevole ruolo di Presidente Onorario dell’Associazione Italiana di Sociologia?
L’assorbimento in parola, per di più in un dipartimento del CNR dal nome desolatamente banale, è stata una decisione assai dannosa per la sociologia (oltre che, mi lasci dire, intrinsecamente stupida). Da un lato rende più difficile ottenere risorse per la ricerca. Già si doveva competere nell’organizzazione precedente del CNR con economisti, politologi, antropologi sociali ecc. Nel dipartimento rinominato è ovvio che le discipline che hanno titolo a domandare risorse per un tema talmente generico come l’identità diventano una folla. In secondo luogo, non avere un riconoscimento esplicito entro il CNR rende più arduo ottenere il riconoscimento sociale, politico, pubblico di cui la nostra disciplina continua ad aver bisogno.
Fine dell’homo sociologicus (Alain Touraine), superamento del «nazionalismo metodologico» (Ulrich Beck), avvento della network society (Manuel Castells), antiutilitarismo (Alain Caillé) e decrescita felice (Serge Latouche) sono solo alcuni dei contributi interpretativi che hanno avviato negli ultimi anni un percorso di autoriflessione della sociologia sulla propria funzione sociopolitica, oltre che sui propri saperi, euristiche, metodi e pratiche di ricerca. Quali sono, a suo parere, le principali sfide e priorità con cui le scienze sociali sono chiamate a fare i conti oggi? Come ritiene che occorra ripensare lo statuto epistemologico della sociologia per interpretare «tempi turbolenti» come quelli che stiamo vivendo (per citare il titolo dell’ultimo convegno organizzato lo scorso settembre dall’ European Sociological Association)?
Il mondo sta attraversando una gravissima, quadruplice crisi: economica, sociale, antropologica, ecologica. In sintesi: 1) esiste uno squilibrio enorme tra le potenzialità tecnologiche ed economiche di cui disponiamo, e le effettive condizioni di vita di tre quarti della popolazione del pianeta; 2) il lavoro salariato è la forma lavoro, l’elemento cui si riferisce ogni tipo di riconoscimento sociale, la base indispensabile della sussistenza individuale e collettiva, diventato assolutamente universale nel momento in cui l’economia non riesce più a crearlo in misura sufficiente – come ebbe già a notare Hannah Arendt a metà del Novecento; 3) il genere di esistenza umana insieme con la personalità (o se si vuole il carattere sociale) della persona che la civiltà del tardo capitalismo tende globalmente a produrre è molto al disotto degli ideali che la modernità si è posta fin dai suoi esordi. Ed è anche totalmente inadeguata, sotto il profilo intellettuale, morale, culturale, per far fronte alle crisi qui indicate; 4) sono sempre più numerosi i segni attestanti che l’attuale rapporto tra uso delle risorse naturali e il modello economico fondato sullo sviluppo senza fine non è sostenibile, e che il tempo per cambiarlo a fondo si sta facendo drammaticamente breve.
Non arriverò a dire che tutti i sociologi dovrebbero adottare il paradigma della world system theory in ogni ricerca che fanno. Ma di certo dovrebbero dedicare un maggior impegno allo studio dei diversi aspetti della crisi, delle sue cause, dei modi in cui essa tocca differenti gruppi di popolazione, e dei metodi da seguire per conformare e diffondere nel pubblico una maggior conoscenza e coscienza di essa.
Il numero pubblicato nell’ottobre 2011 di Quaderni di Sociologia, la rivista che Lei dirige da oltre quaranta anni, è dedicato in forma monografica al tema «Le scienze sociali e l’Europa». Alcuni sostengono che l’Europa è ancora oggi un’entità più culturale che politica. Altri, invece, sono convinti che essa sia solo il frutto di un’artificiosa ingegneria istituzionale, ma che manchi di una fisionomia culturale condivisa. Altri, infine, hanno sottolineato l’esigenza di «provincializzare l’Europa» riconoscendo la natura contingente e situata del suo modello di sviluppo, perciò inadatto a rendere conto di «altre modernità» possibili nei contesti postcoloniali. Che cosa significa per le scienze sociali rapportarsi ad un oggetto di studio come l’Europa?
Vorrei anzitutto ricordare che i Quaderni di Sociologia sono stati fondati nel 1951 da Nicola Abbagnano e Franco Ferrarotti, che si era laureato con lui l’anno prima con una tesi su Veblen. Il sottoscritto divenne caporedattore di essi nel 1962 e poi direttore nel 1968, quando Ferrarotti, assorbito da altri impegni, lasciò la rivista.
Venendo alla domanda, per molte buone ragioni è necessario che un maggior numero di cittadini arrivino a condividere l’idea che l’Unione Europea è un grandioso progetto politico, economico, sociale, culturale che presenta elementi unici al mondo. Uno di questi elementi, forse quello che potrebbe avere la maggior forza unificante per i cittadini Ue, è a mio avviso il modello sociale che si ritrova nella Ue e, in tutto il mondo, solamente in essa. Penso che studiare e rafforzare le basi di questo sia un impegno più fertile, anche per le scienze sociali, che non la ricerca di una cultura condivisa – posto che un’altra ricchezza dell’Europa è proprio la molteplicità delle sue culture.
L’espressione «modello sociale europeo» suona un po’ astratta, ma è ricca di significati concreti. Essa designa un’invenzione politica senza precedenti, forse la più importante del XX secolo. Essa significa che la società intera si assume la responsabilità di produrre sicurezza economica e sociale per ciascun singolo individuo, quale che sia la sua posizione sociale. Produrre sicurezza economica richiede la costruzione di sistemi di protezione sociale avendo in vista una serie di eventi che possono sconvolgere in qualsiasi momento la vita di chiunque. Sappiamo quali sono: la malattia, l’incidente, la disoccupazione, la povertà, la vecchiaia. Detti sostegni si chiamano pensioni pubbliche non lontane dall’ultima retribuzione; un sistema sanitario nazionale di alta qualità, accessibile a tutti, quali che siano le loro disponibilità economiche; vari tipi di sostegno al reddito in caso di difficoltà; un esteso sistema di diritti del lavoro, e altre cose ancora. Negli ultimi cinquant’anni il modello sociale europeo ha migliorato la qualità della vita di decine di milioni di persone ed ha permesso loro di credere che il destino dei figli sarebbe stato migliore di quello dei genitori.
Nessun altro paese al mondo, o aggregazione o confederazione o unione che sia, può esibire qualcosa di simile al modello sociale europeo. Esso ha costituito sino ad oggi un formidabile baluardo per contenere i costi umani e sociali della crisi apertasi nel 2007. Entro l’Unione Europea non vi sono al momento quaranta milioni di persone la cui sussistenza dipende dai bollini alimentari mensili erogati dallo stato, come avviene invece negli Stati Uniti. Non ha nemmeno decine di milioni di persone impossibilitate a ricevere, in caso di bisogno, un’adeguata assistenza sanitaria perché non potrebbero mai pagare un’assicurazione del costo di parecchie migliaia di euro l’anno. Superfluo aggiungere che nulla di vagamente approssimabile al modello sociale europeo esiste nei paesi emergenti, dalla Cina all’India, o in quelli più avanzati sulla strada dello sviluppo, dal Brasile alla Russia. Pertanto, una prima buona ragione per riconoscere nel modello sociale un elemento fondativo dell’unità europea consiste dunque nella sua unicità.
Di certo nemmeno il modello sociale europeo può restare fermo. I mutamenti demografici; le trasformazioni della famiglia; i progressi della medicina a fronte dei suoi crescenti costi, che impongono scelte difficili in merito a chi curare di preferenza, e in ordine a quali patologie; la necessità ma anche la difficoltà di innovare i sostegni al reddito in presenza di un numero crescente di “esuberi” strutturali in tutti i settori produttivi: tutto ciò richiede sicuramente grandi innovazioni del modello sociale europeo. Pertanto le scienze sociali hanno una responsabilità di prim’ordine nello studiare i punti di forza e di debolezza del modello stesso e mettere in luce atteggiamenti e comportamenti di differenti gruppi sociali, nel nostro paese come in altri, in relazione ai modi da tenere per mantenere i primi e porre rimedio ai secondi.
Gli anni del postmodernismo hanno coinciso con la progressiva erosione dell’impegno sociale nella sfera pubblica e con il prevalere di soluzioni individuali a problemi collettivi. Di recente, però, osserviamo segnali di rinnovato impegno civico e protesta sociale (pensiamo ai cosiddetti indignados di tutto il mondo, ma anche alle recenti campagne di mobilitazione referendaria per restare al nostro Paese), che spesso provengono da soggettività e movimenti estranei alla scena tradizionale della democrazia rappresentativa. Si tratta di fenomeni impulsivi di antipolitica, come spesso si dice, o possiamo leggerli come forme di ripoliticizzazione della sfera civile che incarnano nuove e più radicali istanze di democrazia partecipativa oltre gli istituti della rappresentanza politica tradizionale?
Credo si possano interpretare in generale come forme embrionali di ritorno alla politica, che spiccano per il fatto che i partecipanti alle manifestazioni mostrano di aver capito le origini della crisi economica e sociale in corso assai più di tanti politici. Lo dimostra la concretezza delle rivendicazioni che avanzano. Per andare un po’ indietro nel tempo, nel 2006 gli studenti francesi non hanno più protestato contro l’elitarismo della cultura universitaria, rivendicazione piuttosto astratta, come i loro padri nel ’68; invece con le loro imponenti manifestazioni hanno affossato il progetto di legge sul primo impiego che rendeva più facile il licenziamento nei primi due o tre anni (anche se imponeva che il primo impiego fosse nominalmente a tempo indeterminato). Così pure sono state concrete, e a modo loro politiche, le proteste degli studenti inglesi del 2011 contro l’aumento delle tasse universitarie imposto dal governo conservatore.
E poi c’è il movimento nato con il nome di M-15 (dal giorno della sua nascita, 15 maggio 2011), un movimento di esplicita protesta politica contro la disoccupazione, la precarietà, lo strapotere della finanza. È sorto inizialmente in Spagna, da cui il nome di indignados, ma da lì si è rapidamente esteso ad altri paesi europei come Irlanda, Grecia e Italia. Negli Stati Uniti esso ha preso il nome di OccupyWallStreet (OWS) con decine di migliaia di aderenti in numerose città oltre che a New York. Nell’Unione Europea il movimento ha correttamente interpretato le misure di austerità imposte dai governi come forme di una lotta delle classi possidenti e benestanti condotta dall’alto verso il basso. Come ha scritto qualche tempo fa un giornale economico sicuramente liberale, il Financial Time, con le loro politiche i governi europei hanno scelto di salvare le banche, i ricchi e il credito privato e di caricarlo sulle spalle dei contribuenti, il che significa in larga misura sulle classi dei lavoratori e sulla classe media.
Le proteste richiamate sopra avevano effettivamente una forte connotazione politica, benché i partecipanti provenissero da classi differenti: impiegati e studenti, poliziotti e funzionari della pubblica amministrazione, artisti e informatici. A Zuccotti Park, dove per settimane si sono accampati gli OWS di New York, si è notato perfino qualche imprenditore. È vero che nelle prime manifestazioni, quelle di Atene, circolavano messaggi ancora generici, anche se tutto sommato congruenti con la situazione del paese. I cartelli in tema di austerità dicevano «noi non pagheremo, non privatizzeremo, non risaneremo il debito pubblico». L’invito era: «fate pagare i responsabili della crisi». In seguito dalle manifestazioni degli indignati sono emersi, sia in Usa che altrove – a Londra, per esempio, nell’ottobre 2011 - slogan più mirati, tipo: «occupiamo le case che le banche hanno sequestrato con metodi fraudolenti»; «trasferisci i tuoi soldi dalle grandi banche a banche locali»; «di fronte a una depressione le politiche fiscali e monetarie procicliche sono insensate»; «rifiutiamo gli aumenti delle tasse universitarie e l’asservimento alle imprese della ricerca accademica». Bisogna riconoscere che nell’insieme tutte queste erano manifestazioni chiaramente interpretabili come segnali omogenei di un risveglio politico di massa, poste in atto da folle eterogenee di decine di migliaia di persone che hanno capito che i problemi del debito, della previdenza, dell’istruzione superiore, della sanità, alla fine dei bilanci da risanare, sono in realtà un macigno scaricato dall’alto sulle loro spalle - finché potranno o vorranno reggerlo. Nonostante tali segnali, penso che trascorrerà ancora molto tempo prima che essi acquistino un reale peso politico, il quale presuppone lo sviluppo di nuove forme di raccordo tra i movimenti della società civile ed i partiti.
Oggi constatiamo che la globalizzazione ha funzionato più in termini di «finanziorami» che di «ideorami», per usare le parole dell’antropologo Arjun Appadurai. Ha propiziato, cioè, la movimentazione dei flussi finanziari su scala planetaria, e quindi l’esportazione della formazione economico-sociale capitalista, più di quanto non abbia agevolato la diffusione di forme di cultura differenti e plurali. E così ha finito per costituire un fattore di omogeneizzazione piuttosto che di eterogeneizzazione culturale. Nel suo libro del 2000 Globalizzazione e disuguaglianze Lei delineava un articolato quadro delle questioni legate al passaggio dal «mercato-luogo» al «ciber-mercato». A più di dieci anni da quel libro quali ulteriori riflessioni farebbe sul tema della globalizzazione? In particolare, ritiene possibile che si realizzi una globalizzazione diversa da quella finanziaria, intesa come «disgiunzione» e pluralizzazione delle forme di vita?
La omogenizzazione di vari strati della cultura mondiale è stata favorita molto più dalla televisione, dal cinema, dalla musica leggera, dalla pubblicità, dai consumi di massa che non dal capitalismo finanziario. Un processo iniziato negli anni Trenta e che poi ha avuto sviluppi impetuosi, con una palese egemonia dei prodotti culturali americani, dopo la fine della guerra. Lo storico Eric Hobsbawm ne parlava già nel Secolo breve, un’opera del 1995. Nella stessa direzione hanno operato le pratiche nel campo del management, dell’organizzazione del lavoro, della distribuzione che le corporation transnazionali hanno diffuso in tutto il mondo. Ma, per quanto importanti, si tratta pur sempre di strati esterni della cultura. La prova? Se uno compie un viaggio di alcuni giorni in un qualsiasi paese straniero, anche in Europa, ha l’impressione che gli alberghi, i supermercati alimentari, i fast food, i grandi magazzini che vendono insieme libri e televisori, dvd e macchine fotografiche, siano uguali a quelli incontrati in altri dieci paesi. L’impressione è fondatissima. Però se in quel paese uno ci vive un anno o due, si rende conto che al di là della somiglianza della scenografia in cui tutti viviamo, molte cose, nella testa delle persone, sono assai diverse dalle nostre. E questi strati profondi della cultura influenzano potentemente i comportamenti. Si veda quel che succede in ambito elettorale, nell’Unione Europea come negli Stati Uniti. È facile concludere che se decine di milioni di elettori votano per le formazioni politiche rappresentanti la medesima ideologia neoliberale grazie alla quale milioni di essi o dei loro parenti o amici hanno perso la casa o il lavoro o la pensione, ciò si deve alla potenza della televisione o all’abilità comunicativa dei politici. Ma è un errore. Al fondo di quei voti apparentemente insensati vi sono complessi e rispettabili elementi morali, religiosi, concezioni del bene e del male, schemi interpretativi – cioè atavici e stratificati e insondabili tratti di cultura, assai più che valutazioni ponderate del programma di questo o quel partito. No, a dispetto della globalizzazione la cultura profonda non è affatto in via di omogenizzazione.
Nel suo penultimo libro Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi (Torino, 2011) Lei analizza il tipo di accumulazione di capitale che ha caratterizzato gli ultimi decenni. In che cosa consiste il finanzcapitalismo? Quali sono i profili di novità che esso presenta rispetto al capitalismo industriale? Quali le poste in gioco? E in che senso Lei afferma che l’attuale crisi economica «è diventata una vera e propria crisi di civiltà»?
Il finanzcapitalismo è uno stadio del capitalismo in cui la produzione di denaro a mezzo di denaro ha preso il sopravvento sulla produzione di merci a mezzo di merci. Una delle sue caratteristiche più innovative consiste nell’essere fondato sul debito. Le banche – meglio: i grandi gruppi finanziari – spingono famiglie e imprese a contrarre debiti molto al di sopra delle loro possibilità di ripagarli. Concedendo debiti le banche creano denaro dal nulla: sono i debiti che creano la maggior parte dei depositi, non il contrario. Tuttavia, oltre un certo limite fissato da accordi interbancari e dalle banche centrali, per poter continuare a concedere debiti, da cui traggono corposi flussi di reddito, le banche hanno bisogno di denaro fresco. Se lo procurano in due modi. Anzitutto trasformando i crediti (che sono debiti per chi li ha ricevuti, tipo un mutuo per la casa) in titoli commerciali e vendendoli a società di scopo da loro stesse istituite. È l’operazione nota come titolarizzazione o cartolarizzazione. In tal modo i crediti escono dal bilancio, mentre ci entra il capitale ricavato vendendoli, per cui la banca in questione può concederne altri. In secondo luogo le banche stesse contraggono debiti, chiedendo prestiti ad altre banche, agli investitori istituzionali (fondi pensione, fondi comuni, compagnie di assicurazione), alle banche centrali, ai fondi monetari. Concedendo e contraendo montagne di debito, le maggiori banche occidentali erano giunte nel 2007 ad operare in media con un rapporto di 1:33 tra capitale proprio e capitali presi in prestito. Con un simile rapporto (o leva finanziaria), se un solo singolo creditore chiede gli sia restituita d’urgenza una somma pari al 3 per cento dei capitali che una banca gestisce, l’intero capitale proprio viene azzerato e la banca va a fondo. È quello che è avvenuto a decine di banche americane ed europee dal 2008 in avanti, ed è tuttora il problema alla base della crisi in corso, camuffata come crisi del debito pubblico, mentre in realtà è una crisi del sistema finanziario.
Nel mio libro ho parlato di crisi di civiltà perché l’idea che si possa fondare l’intera economia sulla creazione di denaro invece che sulla produzione di valore d’uso è diventato il paradigma dominante nelle imprese industriali, nelle amministrazioni pubbliche, nei governi, nelle famiglie, perfino nella vita dei singoli individui. Una simile idea non può costituire la base durevole di una civiltà.
In L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza (Milano, 2011) David Harvey sostiene che nell’economia capitalista le crisi sono «i razionalizzatori irrazionali di un sistema esso stesso irrazionale», e che in particolare la crisi che stiamo vivendo viene utilizzata per smantellare il ruolo dello stato e per spingere verso la personalizzazione delle spese per la riproduzione sociale. In che cosa, secondo Lei, questa crisi è simile e in che cosa è, invece, diversa da quelle che l’hanno preceduta nella storia del capitalismo?
La crisi in atto è simile a quella del 1929 (tenendo presente che la crisi del 1997-98 e del 2000-2002, quella delle dot.com, erano solo anticipazioni di quello che stava per succedere) perché essa nasce oggi come allora dalla dissennata espansione ed emancipazione da ogni vincolo del sistema finanziario; l’una e l’altra, va sottolineato, promosse vigorosamente dalla politica. È diversa per le maggiori dimensioni economiche e geografiche, e ancor più perché i governi Usa e Ue – diversamente dal governo americano degli anni Trenta - appaiono del tutto incapaci di controllarla e superarla, ciò che richiederebbe riforme radicali dell’architettura finanziaria. Le cosiddette riforme di cui si parla nella Ue, al pari di quella introdotta in Usa nel 2010, equivalgono ad un’aspirina per curare un cancro.
Nei mesi scorsi la rivista storica della sinistra americana The Nation ha inaugurato un dibattito aperto intitolato Reimagining Capitalism lanciando la seguente domanda: «Immaginate di poter reinventare il capitalismo, da dove comincereste? ». Lei come interverrebbe nel dibattito? Da dove pensa che bisognerebbe ricominciare per «incivilire il finanzcapitalismo», per citare una sua espressione?
Nel corso del Novecento il capitalismo fu incivilito almeno due volte, negli anni Trenta con il New Deal di F. D. Roosevelt, poi nel periodo 1945-1980 con le grandi innovazioni nel campo dello stato sociale sviluppate dai paesi dell’Europa occidentale sulla scia del piano predisposto (si noti: nel 1942, durante la guerra) dall’economista inglese W. H. Beveridge – che era un conservatore – nonché della de-mercificazione del lavoro per via legislativa, ispirate dalla Dichiarazione di Filadelfia del 1944. Chi si proponga di incivilirlo una terza volta dovrebbe tener conto dei mutamenti che ha fatto registrare dopo il 1980, quelli che hanno portato il sistema finanziario ad esercitare un dominio assoluto sull’insieme dell’economia. Sarebbe quindi necessaria una riforma radicale del sistema finanziario, capace di ridurre il suo perimetro; separare le attività di investimento produttivo da quelle speculative; diminuire la inaudita complessità del sistema che rende impossibile qualsiasi forma di regolazione; ridurre drasticamente la emissione e la circolazione dei derivati, in specie quelli scambiati “al banco”; eliminare la maggior parte della finanza ombra. Una riforma in tale direzione è stata avviata nel 2010 dal governo degli Stati Uniti, la quale però, oltre ad essere in sé assai timida, è stata pressoché bloccata dai repubblicani. Nell’Unione Europea i provvedimenti in discussione che vengono presentati come riforme (il MiFID 2, riguardante le linee giuridiche, e il MiFIR, riguardante l’ordinamento) sono, come dicevo sopra, del tutto insufficienti alla bisogna. Ma attraverso una riforma profonda del sistema finanziario la Ue dovrà prima o poi passare, se vuol salvare sia l’economia, sia la democrazia reale nei nostri paesi, al momento gravemente intaccata dalle politiche di austerità imposte dal sistema stesso, e dalle derive verso l’estrema destra che si osservano ormai in numerosi paesi.
«C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo» ha dichiarato il miliardario statunitense Warren Buffett. Il caso italiano mostra una situazione del tutto particolare. Nel nostro Paese non sembra esserci tanto un problema di deficit di ricchezza complessiva. Basti pensare che con l’1% della popolazione mondiale produciamo circa il 5% del PIL mondiale. Il vero problema italiano è la disuguaglianza dei redditi, che mina la coesione collettiva e ostacola le dinamiche di inclusione sociale. Da un recente studio OCSE emerge che l’Italia (dopo la Polonia e il Portogallo) è il Paese che presenta il più elevato tasso di disuguaglianza di redditi di mercato (calcolato in base all’indice di Gini) tra i 29 Paesi oggetto della ricerca. In particolare, risulta che il coefficiente di disuguaglianza si è accresciuto significativamente negli ultimi 25 anni. Come spiega questa tendenza? Quali le cause e quali le conseguenze sociali? E oggi quali sono le classi su cui si sta abbattendo di più la crisi?
La forte crescita delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza che si osservano nei paesi sviluppati è stata causata principalmente dalla redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto cui hanno contribuito, tutt’insieme, la finanziarizzazione dell’economia, le politiche del lavoro e la globalizzazione (che è l’aspetto internazionale delle medesime). Basti pensare alla riduzione della quota salari sul Pil che si è verificata in tutti i paesi dell’OCSE. In una trentina d’anni la quota salari, cioè l’incidenza sul Pil dei redditi da lavoro - ivi compresa la remunerazione del lavoro autonomo, il cui reddito viene stimato come se i lavoratori autonomi percepissero la stessa remunerazione dei salariati - è diminuita di parecchi punti. In 15 paesi OCSE, i più benestanti, la quota dei salari sul Pil è diminuita in media di 10 punti tra il 1976 e il 2006, scendendo dal 68 al 58 per cento. In Italia (come in Irlanda e Giappone) il calo ha toccato i 15 punti, scendendo dal 68 al 53 per cento. Si tratta per i lavoratori di una colossale perdita di reddito, visto che oggi un punto di Pil vale, per l’Italia, circa 16 miliardi di euro. Il reddito si è quindi spostato verso gli strati superiori di reddito, cioè verso il 10, il 5, e soprattutto verso l’1 per cento della popolazione. Negli Stati Uniti il reddito pro capite in termini reali di metà della popolazione è fermo nientemeno che dal 1973 – il che vuol dire quasi quarant’anni di stagnazione. Per contro il reddito dell’1 per cento superiore è aumentato di centinaia di migliaia di dollari a testa. Quando gli “indignati” se la prendono con l’1 per cento, non hanno scelto la cifra a caso.
Le conseguenze stanno nelle cronache. Decine di milioni di famiglie hanno perso la casa, in Usa, in Spagna, nel Regno Unito. Poiché percepivano un reddito insufficiente, si sono enormemente indebitate per comprarla, non sono riuscite a pagare le rate del mutuo, e le banche gliel’hanno sequestrata. Decine di milioni di lavoratori hanno perso il lavoro, a causa del dirottamento degli investimenti dagli impianti produttivi ai prodotti finanziari e ai supercompensi dei manager (300-400 volte il salario medio). Altre decine di milioni hanno un’occupazione precaria. Sono aumentati i poveri, con un tasso record in Usa: il 15 per cento della popolazione, 45 milioni di persone. Mentre nell’Unione Europea le politiche di austerità indotte non dall’eccesso di spesa sociale, bensì dalla crisi finanziaria che ha nelle disuguaglianze una delle sue radici, alimentano i contromovimenti sociali, per dirla ancora con Polanyi, tanto di sinistra quanto di estrema destra – con una preoccupante prevalenza, sembrerebbe al momento, di questi ultimi.
In Bancarotta. L’economia globale in caduta libera (Torino, 2010) il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha scritto che la crisi che l’economia globale sta vivendo dal 2007 è paragonabile al momento in cui, quando una persona vede la morte in faccia, comincia a ripensare priorità e valori. In questo senso quali a suo giudizio sono le opportunità da cogliere e gli obiettivi da perseguire in futuro? In particolare, per quanto riguarda la situazione contingente, qual è la sua personale ricetta per uscire dal circolo vizioso tra politiche di austerità e crisi dei debiti sovrani?
Le politiche di austerità traggono origine da difetti strutturali del sistema finanziario, piuttosto che essere giustificate da un presunto eccesso di spesa sociale. I deficit dei bilanci pubblici, il cui peso è stato enfatizzato proprio per distrarre l’attenzione da tali difetti, derivano principalmente da quattro fonti. Le prime tre, distribuite su un periodo pluridecennali, sono gli sgravi fiscali concessi in varie forme ai contribuenti più ricchi; l’elusione fiscale, con il trasferimento nelle “isole del tesoro” di decine di trilioni di dollari, e l’evasione fiscale; le delocalizzazioni, a causa delle quali il grosso delle imposte vengono pagate dalle corporation all’estero, dove gli utili sono prodotti. Trent’anni fa nei maggiori paesi occidentali le imposte versate dalle corporation costituivano oltre un quarto delle entrate fiscali dello stato; oggi sono scese a meno del 10 per cento. La quarta fonte del deficit, più recente, sono i fondi pubblici spesi o impegnati per salvare le banche: tra i 15 e i 20 trilioni di dollari in Usa, intorno ai 3 trilioni di euro nella Ue.
Ne segue che allo scopo di rendere meno oppressive le politiche di austerità le strade principali sono: una riforma radicale del sistema finanziario che lo riporti ad essere ciò che dovrebbe, ovvero un mezzo al servizio dell’economia anziché un despota sopraffattore com’è diventato; una ragionevole redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori e delle classi medie, volta a invertire la redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto in corso nei paesi occidentali da prima del 1980; una riforma che metta la Bce in condizione di operare come una vera banca centrale, allo stesso titolo delle banche centrali di Stati Uniti, Regno Unito, Giappone, Svizzera. Una banca che presta denaro a interesse prossimo a zero agli stati in difficoltà, creandone la quantità necessaria, mentre il trattato Ue ora glielo impedisce. Con il risultato che sono le banche a prendere in prestito dalla Bce centinaia di miliardi all’1 per cento di interesse, che poi prestano ai privati, agli enti territoriali o gli stati, in questo caso in forma di obbligazioni, pretendendo un interesse quintuplo.