1. Religione e sociologia
Les formes élémentaires de la vie religieuse di Émile Durkheim hanno dunque cento anni. Pubblicato presso Alcan a Parigi nel 1912 il volume affronterà presto un percorso complicato, fatto di consensi, dissensi, adesioni, critiche, commenti, interpretazioni, sintesi, estrapolazioni e una lunga serie di altre letture, fedeli e infedeli. Fu, in ogni caso, un evento: per molti studiosi, come vedremo, in vari campi delle scienze sociali; assai meno per i sociologi.
Durkheim non ha mai esaltato nessuno, ma non ha neanche depresso nessuno: un’atmosfera velata avvolge il testo che sia per i contenuti interni che per l’atteggiamento dell’autore e la disposizione dell’ascoltatore si caratterizza ben presto come un testo di meditazione. Tale meditazione non si è mai spenta nel corso del tempo e continua ancor oggi: come spesso accade, ed è stato detto, un buon testo dà la stura almeno ad un migliaio di altri (cfr. Corchia, in preparazione), che non sempre tuttavia contengono un alto livello di originalità, anzi talora sono ripetitivi, spesso senza che i redattori se ne accorgano o vogliano accorgersene.
Sta di fatto che un elemento oggettivo spinge verso retoriche consapevoli e inconsapevoli: ed è la nomenclatura durkheimiana, che prevede termini come società, religione, coscienza collettiva, rappresentazioni collettive, chiesa, fedeli, credenza, rito, sacro, profano, individuo, categorie, scienza, simboli, primitivo, totem, mana, senza contare quelli più specifici derivanti dall’analisi empirica compiuta. Il discorso centenario muove dunque su queste poderose nozioni ed esprime in sé la dinamica dei punti di vista ma anche l’evoluzione degli interessi con le accentuazioni e le variazioni che le sensibilità individuali e la temperie culturale impongono nelle diverse contingenze attraversate da un testo che esprime così la sua longevità e rilevanza, e ribadisce la statura intellettuale dell’autore.
Siamo dunque nel 1912; in precedenza Durkheim aveva già lavorato sui temi che svilupperà compiutamente nelle Forme: in seguito Durkheim si appresterà, non appena le avvisaglie si saranno purtroppo tramutate in guerra dichiarata, a mobilitarsi a modo suo per mantenere elevato il tasso di coscienza collettiva francese, ossia di solidarietà popolare e di coesione ideale contro l’intollerabile minaccia dell’imperialismo tedesco. Qui a voulu la guerre (1915), L’Allemagne au-dessus de tout (1915), Lettres à tous les Français (con Ernest Lavisse, 1916) saranno altrettanti opuscoli pratici per diffondere e consolidare la persuasione della causa giusta e della resistenza necessaria. Fu un patriota, che incorse in due pesanti sventure. La morte del figlio André sul fronte bulgaro dalle parti della sperduta località di Smokvicza ai confini con la Grecia e l’accusa del tutto assurda di qualche sotterranea simpatia con il nemico mossagli dal senatore della Mancia M. Gaudin de Vilaine, essenzialmente a causa del suo cognome tedesco e della sua appartenenza ebraica. Antichi demoni circolavano in maniera manifesta e latente allora come in seguito in Europa.
Non ebbe modo di ritornare sulle sue elaborazioni intellettuali, prendendo eventualmente atto delle critiche e rispondendo ad esse come aveva fatto per La divisione del lavoro sociale (1893) e per le Regole del metodo sociologico (1895) nelle edizioni successive (rispettivamente nel 1902 e nel 1901) agli anni della prima edizione.
La religione di cui aveva discusso non l’aiutò molto nel suo dolore; ricordava che la filosofia non aveva elaborato niente di confortante dopo Epicuro (Toscano, 1995); e morì nel 1917, cinque anni dopo la sua ultima e fondamentale opera.
Dar conto di tutta la bibliografia che prende spunto dal testo è impresa impossibile. Noto a pochi specialisti per i suoi scritti pubblicati su riviste italiane di sociologia prima della prima guerra mondiale, Durkheim è, come gran parte dei classici della sociologia, un autore generalmente conosciuto in Italia solo a partire dagli anni Sessanta, quando la casa editrice Comunità traduce le maggiori opere durkheimiane, affidandone le introduzioni a noti studiosi. Le Forme sono presentate da Remo Cantoni nel 1963 con una introduzione ancora non obsoleta sebbene alquanto ignorata; il testo ha avuto altre due edizioni: presso le case editrici Newton Compton nel 1973 e Meltemi nel 2005.
Dagli anni Sessanta il dibattito in Italia è stato notevole e continua ad esserlo, prevalentemente nel frame della connessione tra religione e modernità.
Noi riprenderemo un segmento della vasta esegetica sul testo[1]. In fondo è del tutto naturale, dati i giganteschi sviluppi fino ad oggi, rivisitare i documenti dell’epoca e riscoprire come fu accolto quando era, per così dire, nella sua culla di neonato. E dunque riascoltare alcune voci del dialogo e se possibile le risonanze che accompagnavano gli interlocutori in quegli anni.
Durkheim aveva infatti quegli interlocutori e quegli interlocutori condividevano le sue stesse preoccupazioni intellettuali e culturali, sebbene con accentuazioni diverse. Esprimevano il clima culturale vigente e le Forme si collocavano in quel clima. Non si tratta di un’operazione archeologica, ma di una modalità contemplativa in cui il gioco delle retrospettive e delle prospettive fornisce elementi comparativi utili e permette di misurare, con l’ausilio delle evidenze dell’accaduto, continuità e discontinuità.
Prenderemo pertanto in considerazione recensioni e saggi che vennero prodotti, in virtù della forte sollecitazione durkheimiana, negli anni immediatamente susseguenti al 1912; è anche il modo per conoscere le opinioni e valutazioni di eminenti personaggi che hanno lasciato tracce significative nei loro campi di elezione e che ritroviamo nella grande vicenda della storia delle scienze sociali[2].
Se, come abbiamo detto, fu un evento, non fu tuttavia inatteso. L’Année sociologique aveva già in molte occasioni ospitato le riflessioni durkheimiane e degli esponenti della scuola su temi etnologici e antropologici, e, anzi, questa era stata e continuerà ad essere una direzione di lavoro consolidata.
Una delle costanti dell’Année sociologique, fondato da Durkheim nel 1896, era l’impegno ad ampliare il campo delle scienze sociali, soprattutto dando spazio alle ricerche sulle fenomenologie delle società primitive. Ed era già uscito un lungo saggio sul totemismo australiano un paio d’anni prima della pubblicazione delle Forme nel quale Durkheim discuteva le grandi tesi sul totemismo e le sue implicazioni non solo sul piano sincronico ma anche diacronico: ossia in termini di etnografia ma anche di sociologia generale e di sociologia della religione.
Qui già si impone una riflessione importante. Sarebbe molto difficile etichettare il testo durkheimiano come un testo di sociologia della religione, per quanto ovviamente debba essere a buon titolo collocato anche in quel campo specializzato della sociologia. È un testo che affronta un enorme tema umano su cui convergono le vocazioni conoscitive di una grandissima quantità di discipline ed una altrettanta vasta quantità di interessi collettivi e individuali. Lo sanno tutti e lo sa in particolare la cultura ottocentesca europea. E c’era una ragione basilare che imponeva di non eludere il tema: l’insieme drammatico di industrializzazione, razionalizzazione, secolarizzazione, laicizzazione, individualizzazione, con un seguito di nuove ricchezze e nuove miserie materiali. È del tutto vero che, come sostiene un gran numero di autori, l’ancien régime è chiamato duramente in causa: esso non è solo un regime politico, è un apparato culturale, un aggregato di regole, di credenze, di fedi, di riti; in altre parole, come direbbe Max Weber, un «ordinamento del mondo» i cui fondamenti di legittimità ossia i fattori di consenso sono ormai fortemente indeboliti e a denunciarlo sono le stesse agenzie della conservazione che irrigidiscono i loro metodi nella reazione, nell’autoritarismo, nel sangue.
Auguste Comte ha fortissime ragioni dalla sua parte – salvo le soluzioni politiche a cui perviene – per argomentare sullo stadio «metafisico» che resiste nelle sue ancora robuste espressioni di classi, di ceti, di gruppi, di professioni, di corporazioni, di confraternite sacre e profane, insistendo a più riprese su tale elenco retrogrado. Il tema della religione, ossia il problema religioso, avanza con la percezione del grande ed inedito mutamento in corso e con la consapevolezza di non poterlo ignorare nella sua storica incidenza e nella sua portata funzionale.
Si può dire che, sul fluido background dei processi reali, una delle misure della perdurante rilevanza del problema religioso deve essere riconosciuta nella centralità del dibattito sulla religione e nella stessa separazione delle prospettive sul tema in quella che è la sociologia formale o sostanziale del tempo. La sociologia, infatti, discutendo e interpretando la religione, ossia il suo essere e il suo dover essere, il suo posto e la sua funzione, si divide. Da una parte Ludwig Feuerbach che ripropone con vecchia energia e nuove aggiunte un modello crudamente materialista e dissacrante rispetto alla tradizione e sulla sua scia, sebbene critico, Karl Marx che elabora tesi più complesse ma non meno drastiche; da un’altra i sociologi della grande corrente positivista ed evoluzionista, da Comte a Spencer, a Durkheim, a Pareto, ad altri autori più o meno noti e comunque tributari, nelle varie aree della vita intellettuale, dei medesimi orientamenti.
Il modello rivoluzionario incontra la religione e la mette sotto accusa senza mezzi termini, individuando nella religione, ossia nelle istituzioni materiali e mentali della religione, un campo di lotta contro l’alienazione; il modello positivista, come era nelle sue premesse naturalistiche, tende a ribadire l’importanza fondamentale della religione nel contesto della organizzazione sociale e pertanto a confermarne l’immanenza e la vocazione aggregativa. A ben vedere ritornano in forme variate e con esiti contrastanti le sollecitazioni illuministiche; e, valendo quelle premesse, è chiamata in causa la dimensione della trascendenza. Nel modello rivoluzionario – adoperiamo questi termini con quella dose di schematismo che serve per facilitare in prima istanza i passaggi essenziali della comprensione – viene meno la trascendenza considerata come uno spostamento altrove, una dilazione falsificata dell’umanesimo ridotto delle sue capacità e delle sue prerogative cosicché il soggetto umano può riappropriarsi di ciò che è suo ed era stato ideologicamente sottratto dall’«invenzione» religiosa; il modello positivista, che potremmo dire anche «riformista» piuttosto che rivoluzionario, impone la considerazione della religione come forza della socializzazione dell’individuo, umanizzando e stabilizzando la religione, ed assegnando la trascendenza, ossia le trascendenze possibili, al campo delle storicizzazioni secondarie della religione, quindi alle sue specializzazioni locali e dunque alla contingenza.
Max Weber tenterà un’altra strada, che assume un po’ dell’una e dell’altra posizione ed elabora una modalità interpretativa nella quale le capacità aggregative della religione vengono riconosciute in un quadro competitivo: la religione, ossia sostanzialmente i gruppi religiosi (ierocratici) sono autentiche forze «politiche» che si battono contro altre formazioni «politiche» egualmente orientate all’ordinamento del mondo, utilizzando i loro metodi di persuasione e di consenso. È qui che ha una superiore importanza la teodicea della sofferenza e della differenza, ossia del dolore e della diseguaglianza. La trascendenza diventa metodo entrando nella concreta pratica del mondo motivando atteggiamenti, comportamenti, istituzioni. Di qui, come sappiamo, nasce il forte interesse weberiano allo studio dell’etica economica delle religioni mondiali.
La tradizione positivista non riscontra dunque nella religione nessun bersaglio «rivoluzionario», sebbene nella religione identifichi un target intellettuale-emozionale di grande rilievo; se alla fine produce un effetto convalidante, la religione subisce una forte revisione all’insegna della immanenza. In questo senso, dal punto di vista europeo e occidentale, la tradizione religiosa è fortemente toccata da questa robusta reinterpretazione e riproposizione.
Naturalmente esordisce Auguste Comte, la cui lezione non può essere trascurata; e non è trascurata da Durkheim.
Egli vede la religione nella storia e questa attraversata dal destino della conoscenza e infine della scienza: Comte non fa che richiamare la regressione degli dei e il loro progressivo allontanamento dal mondo. Ma aumenta del pari la funzione aggregativa e laica della religione che assume per lui il carattere istituzionale più deciso nella chiesa cattolica. Egli ribadisce a più riprese il carattere sociale e socializzante della religione – e ovviamente del cattolicesimo – e loda S. Paolo proprio per queste sue qualità «organizzative», mettendolo a presidiare uno dei mesi nel suo calendario positivista. La «religione dell’umanità» non è poi così peregrina e priva di senso, come peraltro in un certo modo dimostra il percorso della civilizzazione politica dei tempi recenti, qualora emendata da quelle artificiose liturgie che tanto angustiavano la parte scientista della sua scuola e il maggior allievo Littrè, e tanto entusiasmavano altri indomiti positivisti, disposti - come quelli brasiliani riuniti intorno a Miguel Lemos e a Raimundo Texeira Mendes e alla Igreja Positivista di Rua Benjamin Constant Botelho de Magalhães - a seguire alla lettera le singolari normative del catechismo positivista. Sta di fatto che la sociologia di Comte ha posto in primo piano il problema religioso come problema umano e sociale.
Herbert Spencer è più cauto nelle proposte generali; nel suo linguaggio una religione dell’umanità appare semplicemente una deviazione metafisica di un autore che pure ha i suoi meriti. Dovremo annotare che Spencer avvia, in coerenza con una precisa tradizione inglese che darà i suoi frutti in quell’epoca, proprio quelle forme di indagine etno-antropologica sulla religione che saranno poi al centro dell’attenzione durkheimiana. Diremo anche che la sua analisi del cerimoniale ha parecchi punti di interesse nell’ambito della riflessione sul rito e il ritualismo. Infine Spencer dovrà essere ricordato per una sua insospettata conciliazione di evoluzionismo radicale e di spiritualismo non meno determinato. Se è vero, egli dice, che l’evoluzione è, come vien detto nel paragrafo 145 dei suoi First Principles (1861-62), un processo di differenziazione e di integrazione di matter e motion, di materia e moto, l’energia primordiale che spinge questo processo è inconoscibile (unknowable): ed è in questa regione che possono essere collocate tutte le religioni che, al di là di ogni dimostrabilità dei loro assunti, propongono risposte alle domande ultime: inverificabili, è vero, ma fortemente sostenute dalle credenze, attive anch’esse nel complesso energetico dell’evoluzione.
Sulla questione della natura socializzante della religione incontriamo anche un autore scettico e talvolta cinico come Vilfredo Pareto. In accordo con la sua metodologia, la religione come concetto generale appare a Pareto qualcosa di metafisico e pertanto di estraneo alla prospettiva logico-sperimentale. Entrano invece in questo settore le religiones al plurale, ossia quei vincoli che tengono legate strettamente le persone e pertanto consolidano le forme di coesione sociale. Fu un buon numero di queste religiones, dice Pareto, che fece la grandezza dei Romani.
Come si vede, i materiali per le elaborazioni di Durkheim sono già in varie maniere presenti nell’armamentario culturale e sociologico dell’epoca precedente e della sua epoca.
Ma Durkheim può a buon diritto rivendicare una sua originalità, che attinge peraltro alla speciale connessione religione-società. La funzione solidaristica della religione che abbiamo visto comparire negli autori sopra menzionati è portata alla massima evidenza e rilevanza. La religione è un fatto sociale; e la società è un fatto religioso. Non esiste religione senza società, come non esiste società senza religione. Queste ed altre affermazioni possono apparire ridondanti se si chiama in causa il desueto verbo latino religare o religere che è alla radice del sostantivo: il che semplicemente espone il dato che la religione è un legame come la società è un legame. Può esistere infatti una società senza legami tra i soci, suoi membri?
La nitidezza dell’assunto deve trovare conforto nella efficacia della prova. La prova dell’assunto è esattamente il lavoro empirico a cui si appresta il nostro autore, che farebbe valere in questo caso, come negli altri delle sue ricerche scientifiche, le regole del metodo sociologico che ha codificato nel 1895.
Naturalmente è sull’argomento sostanziale e su quello procedurale che si focalizza l’attenzione degli studiosi già negli anni seguenti al 1912, quando l’opera compare all’orizzonte. Il lato epistemologico è tenuto alquanto in sordina, se non del tutto ignorato: appariva presumibilmente come una faccenda troppo interna agli addetti ai lavori, peraltro incerti e oscillanti, per prendere posizione in maniera generalmente significativa. Noi ci soffermeremo, come abbiamo detto, su alcuni dei maggiori lettori dell’opera durkheimiana in quell’epoca, e vedremo come già allora gran parte dei rilievi che formeranno successivamente il corpus interpretativo, analitico e critico sul testo durkheimiano siano prontamente esposti. Qualcosa del genere accadeva anche nel caso di Weber e della sua ricerca sulle relazioni tra L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, che, come si ricorderà, era stata pubblicata nel 1904, otto anni prima delle Forme: i critici non furono né pochi né poco autorevoli, e Weber fu obbligato a dare risposte nella seconda edizione (1920) della sua ricerca. Nonostante tutto, quel volume continua ad essere denso di significato e di sollecitazioni; è semplicemente un’opera. Una riflessione deve essere pertanto compiuta sulle opere in quanto tali, quelle che appunto rivendicano di essere opere, al di là dei limiti e dei meriti che rivelano a breve o a lunga distanza.
Le opere diventate in qualche modo classiche vivono di segni, di simboli, di aloni, vivono di consenso oltre il dissenso, di autorevolezza al di là di ogni debolezza, di rispetto senza alcuna imposizione. Esse hanno raggiunto una sorta di carisma dell’opera che diventa davvero opera. È lì come una specie di aureola che circonda un monumento esemplare. Se dovessimo usare una delle categorie durkheimiane, partecipano del sacro della disciplina. Ogni disciplina infatti ha bisogno dei suoi emblemi sacri, dei suoi eventi tutelari. Il riconoscimento è fondamentale: ossia il riconoscimento dell’importanza dell’opera, esso stesso un fatto complesso, essendo mobilitato dal contenuto, dalla forma, dalla elaborazione, dal tempo, dalla cultura in cui si colloca, insomma dalla storia speciale dell’opera e dalla storia generale.
Per quanto l’importanza dell’opera non sia univocamente interpretata né diffusamente sentita allo stesso modo, la chance ermeneutica è già riconoscimento, ossia riconoscimento dell’opera in quanto degna di essere interpretata e reinterpretata. Riprenderemo le critiche dei critici, ma, per quanto la cosa sia perfettamente legittima dal punto di vista conoscitivo, rileveremo che non sminuiscono il valore dell’opera. D’altronde a quel valore contribuiscono quelle stesse critiche dei critici, i quali si rivelano piuttosto inclini, nella maggior parte dei casi, a convenire sui meriti particolari o complessivi dell’opera. Nessuno oggi si metterebbe a contestare il percorso disegnato da Durkheim nella sua opera. Si sa bene che molte cose sono obsolete, altre sono poco fondate, altre ancora inadeguate o poco attendibili.
Ma l’opera non ne è scalfita o ne è scalfita solo superficialmente. Rimane integra nella sua potenza persuasiva. Vive oltre gli accidenti dei contrasti, è non solo un’opera, è un’atmosfera, che in qualche modo si separa dalle puntuali insufficienze rilevate per ottenere e riaffermare la sua dignità. È una sfida e continua ad essere una sfida per l’intelligenza di specialisti e gente comune. Lo stesso insieme delle proposte critiche finisce con l’essere parte dell’opera, della quale costituiscono in un certo senso le note a pie’ di pagina, scritte a più mani ma cooptate in un medesimo spirito, lo spirito dell’opera. L’opera diventa dunque un fatto e, anzi, per usare ancora il linguaggio durkheimiano un fatto sociale. Non è del tutto vero che l’autore, come vuole Roland Barthes (1967), muore o deve morire; in realtà molti autori, non solo l’autore, entrano nell’opera, sono cooptati dall’opera, che diventa in qualche modo collettiva. Appartiene come compito e compimento alla grande avventura della cultura. Tra gli oppositori ad oltranza di Durkheim, che pure ci possono essere, non si troverebbe forse nessuno che consegnerebbe volentieri l’opera all’oblio. Ed è una testimonianza, se si vuole, a contrariis della sua perdurante fertilità intellettuale. Possiamo dunque ben celebrarne il centenario.
2. Analisi e critica
Come abbiamo detto, le elaborazioni durkheimiane durano a lungo, prima del dispiegamento sistematico nelle Forme. Di tale intenso lavoro preparatorio prendono atto già alcuni commentatori, dandone un resoconto critico in quegli anni. Nel 1911 compare sul numero 67 della Revue de Synthèse Historique diretta da Henri Berr un lungo saggio di Paul Lacombe (1845-1919), storico prolifico ed eclettico, ritenuto il precursore di Braudel e anche dell’antropologia francese, dal titolo Etudes sur la génésique. Le totémisme et l’exogamie d’après M. Durkheim (1911) nel quale Lacombe discute della questione posta dall’«éminent professeur en Sorbonne». Per quanto lo stile di Durkheim sia «sobrio, preciso, di una proprietà d’espressione impeccabile» anche nella trattazione delle idee più delicate e vaghe e sia dunque un modello del genere, Lacombe non è affatto persuaso dalla spiegazione durkheimiana dell’esogamia (p. 5) e – si annuncia qui un rilievo che sarà ripetuto da molti in seguito – non è convinto neanche della concezione del totemismo, su cui Durkheim si baserà in maniera essenziale nelle Forme: «Dubito, dice Lacombe, del concetto di consustanzialità e di divinità ereditaria che M. Durkheim con la sua intelligenza di uomo civilizzato, attribuisce ai selvaggi australiani» (p. 9). D’altra parte la sua tesi è che l’esogamia sia un’istituzione politica piuttosto che un’istituzione religiosa come vuole Durkheim (p. 14).
Il dibattito è entrato, come si vede, già nel merito, i punti di vista si confrontano e si scontrano, e le prospettive si differenziano tecnicamente. Fu pertanto un dibattito tra specialisti che non esibivano nulla, sapendo tutti il fatto loro.
Lo psicologo americano James H. Leuba (1868-1946), di cui si ricorda A Psychological Study of Religion (1912), discute la concezione della religione e della magia in Durkheim e Hubert e Mauss in un lungo articolo pubblicato in inglese sull’American Journal of Sociology (vol. XIX, n. 3, nov. 1913) e tradotto in francese sulla Revue Philosophique de la France e de l’Etranger diretta da Theodore Ribot. Leuba nota in esordio che è finito il tempo in cui della religione si occupavano solo i filosofi e i teologi; oggi etnografi, sociologi, psicologi prendono parte attiva a questo genere di ricerche e uno dei contributi più significativi e originali viene appunto dalla scuola dell’Année sociologique. Tale tributo iniziale non impedisce di dichiarare il proprio disaccordo con le ipotesi avanzate: ed esattamente sul punto che presenta la religione «come un fenomeno sociale fondamentale indipendente dalla credenza negli dei e così fortemente apparentata con la magia che non esiste alcun mezzo efficace per differenziarle». Qui Leuba riprende le tesi durkheimane con dovizia di particolari: per quanto scriva nel 1913, non ha avuto modo di prendere in considerazione le Forme, e le sue riflessioni si basano essenzialmente su tre saggi, due di Durkheim (1897-98 e 1909[3]) e l’altro di Hubert e Mauss (1902-02), comparsi negli anni precedenti e che rivelano una grande continuità di interessi tra quegli autori.
Al di là del dissenso sul tema della religione – che Leuba ritiene non possa essere definita senza mettere in campo l’idea di dio, da Durkheim ritenuta non essenziale –, al di là del dissenso sulla magia – che non può essere solo qualcosa della medesima natura alla religione, sebbene inferiore dal punto di vista organizzativo –, ciò che sottolinea Leuba è, date per scontate le controversie di lunga data sulla relazione tra sociologia e psicologia, una questione metodologica che interessa tutta la prospettiva durkheimiana e dunque chiama in causa le stesse Regole da Durkheim teorizzate e praticate. Leuba appare, sotto questo aspetto, antesignano. Rimanendo nel campo di riflessione eletto da Durkheim, ciò che deve riguardarci, dice Leuba, non è se i riti siano o meno indipendenti dalla vita sociale, ma «se – e fino a che punto – si possono comprendere pienamente osservandoli dall’esterno come degli atti espliciti e manifesti, e senza ricorrere all’interpretazione psicologica degli stati di coscienza che essi esprimono» (p. 348). E, andando avanti, osserva che «la comprensione completa della religione – come anche della vita sociale in generale – esige non solamente lo studio dei risultati esteriori prodotti dalla vita comune presso gli esseri coscienti, ma ancora l’interpretazione di detti risultati in termini di coscienza» (ibid.).
Leuba non trascura di osservare che Durkheim stesso fa riferimento a più riprese a fenomeni e termini che hanno a che vedere con la coscienza: nel suo lessico sono frequenti espressioni come la conscience social, l’âme collective, il sentiment collectif, ecc. Se poi si insiste sulla definizione dei fatti sociali come consistenti «en de manière de faire et de penser» è inevitabile ricorrere a prospettive psicologiche per analizzarli compiutamente: «La sociologia, conclude Leuba, per essere completa, deve contemplare lo studio psicologico delle relazioni sociali e non può accontentarsi dello studio delle forme sociali mediante il metodo oggettivo». Naturalmente questa conciliazione sarà possibile quando le due discipline avanzeranno nelle loro conoscenze e nelle loro ricerche: e bene fa Durkheim a reclamare diritto di cittadinanza al metodo oggettivo ad oggi trascurato e tuttavia capace di risultati pregevoli (p.357). Al di là del patriottismo disciplinare, si possono scorgere buoni elementi per un’introduzione alla esigenza moderna di contemperare i metodi quantitativi e quelli qualitativi, la spiegazione e la comprensione, ossia Durkheim e Weber.
Di tutt’altro tono è la lettura della concezione durkheimiana che troviamo in un volume del 1913, che non prende atto delle Forme, ma che si basa su tutto la produzione precedente di Durkheim. È un libro di Jean-Martial Besse (1861-1920), monaco benedettino, monarchico, esperto di storia delle istituzioni religiose, dal titolo Les religions laïques. Un romantisme religieux, nel quale passa in rassegna una serie di autori che discutono di religioni laiche; tra questi Durkheim. Besse ci serve per capire, al di fuori dell’accademia propriamente detta, quale fosse in una parte dell’opinione pubblica più tradizionalista, anzi più reazionaria e più fortemente orientata, la percezione della persona e della personalità di Durkheim. Durkheim espone in una conferenza all’Ecole des hautes étude sociales le sue idee. Eccole, nella versione di Besse: «la società è Dio e la morale è l’esercizio stesso della religione. È questa che lega l’uomo alla divinità». Durkheim è il reale erede di Comte; è lui il gran sacerdote dell’umanità, il gran pontefice della religione laica (1913, p. 236).
Ma da dove viene l’autorità di questo signore? Besse ripercorre la carriera di Durkheim, che da professore di pedagogia in un liceo di Bordeaux prende possesso della scienza sociale a partire dal 1892, con La divisione del lavoro sociale e Le regole del metodo sociologico. Mette in piedi l’Année sociologique e si fa una schiera di allievi che dipendono da lui. Ma è stato il dreyfusimo a far la fortuna di Durkheim; sebbene «il n’est, lui, qu’un médiocre». Giunto alla Sorbona diventa «le régent de la maison». Il personale ha paura di lui, visto che siede nel consiglio dell’Università di Parigi e nel Comitato consultivo dal quale passano le nomine per l’insegnamento superiore. I professori della sezione di filosofia sono sotto il suo tallone e vengono trattati come semplici funzionari: «Quest’uomo ha licenza di soddisfare il suo istinto autoritario e dogmatico. Le ambizioni della sua sociologia coprono tutte le sue audacie» (p. 239); in virtù della sua grande tenacia, ha raggiunto il monopolio nell’insegnamento: «Egli è un uomo della sua razza. Quelli della sua razza l’hanno aiutato e lo sostengono. Egli lavora per essa, cercando di assimilarle la Francia. Ma qual è il valore intellettuale di quest’uomo. Deprivato della sua posizione ufficiale, separato da Bouglé, da Delvolvé, in una parola da tutta la sua clientela, isolato dalla feudalità finanziaria che lo protegge, questo dottore in sociologia si trova ridotto a se stesso, ossia veramente a poca cosa» (p. 240). Besse insiste su una nota dal suono assai sinistro: «M. Durkheim è ebreo, non bisogna dimenticarlo. La sua razza lo domina. Si è appropriato della sociologia, per farne, deformandola, una sociologia ebrea». Lavora per il popolo di cui è esponente come i suoi correligionari che fanno del socialismo il loro impegno: «hanno cominciato prima di Karl Marx e continuano dopo di lui» (p. 245). Infine «la società di cui M. Durkheim predica il realismo, svanisce in un’astrazione, in uno con l’umanità di cui trattano altri profeti sociali». Rispetto a queste astrazioni, esistono le società al plurale, le società vere e diverse, composte di gruppi, di professioni, di famiglie, di individui. È inutile ricorrere, per riconoscere la loro esistenza materiale, ad entità astratte naturali o personali: «San Tommaso offre loro unità e realtà di coordinamento» (p. 246). Come si può capire, il fondamentalismo pregiudiziale di questo autore può assai difficilmente essere ridotto alla ragione, per quanto tomistica!
Uscito il testo, Gustave Belot (1859-1929), filosofo, pedagogista e ispettore generale dell’istruzione secondaria, ne fa un’analisi assai attenta in un saggio (1913) che si sviluppa, alquanto pletoricamente, per una cinquantina di pagine. Egli esordisce osservando che l’interesse per la religione è assai aumentato negli ultimi anni e che per quanto le difficoltà non manchino c’è da sperare che vi possa essere un riavvicinamento tra «la science et les croyances» (p. 330). In questa direzione muove la teoria di Durkheim, che non intende insidiare la religione, ma al contrario riconoscerne il valore e rafforzarne la funzione. D’altronde il proposito non è quello di dare una spiegazione completa della religione, ma di esprimere «la conception sociologique de la fonction religieuse» (p. 332). Bisogna riconoscere subito il valore dell’opera di Durkheim, che «ha un pensiero vigoroso, sistematico, spesso ingegnoso e insieme profondo, esposto in una lingua notevolmente robusta e precisa», come si conviene al linguaggio scientifico corroborato da una grande convinzione (p. 333). Il nostro non risparmia lodi a Durkheim, annota puntualmente le differenze tra il pensiero di Durkheim e quello di Comte o con il suo contemporaneo Lévy-Bruhl, e spesso si sovrappone all’autore che commenta, sollevando il sospetto che voglia far valere le sue tesi; infatti alla fine insinua i suoi dubbi; domandandosi se la religione ossia la società, prese come le fonti delle categorie e delle diverse attività, dalla morale all’arte, dal diritto all’etica, dalla scienza alla filosofia, etc. «explique véritablement ce qui à expliquer»: ossia la sostanza di quelle attività e non il problema inverso, e cioè come esse sono divenute in base al processo di differenziazione. Non può tacere infine la sua impostazione: la sola causa adeguata, egli dice, «c’est la totalité même de l’esprit au contact de la totalité du réel»; e ciò che è veramente lo spirito noi lo sappiamo meglio «par ses plus parfaites productions que par ses confuses origines» (p. 379).
Arnold van Gennep (1873-1957), etnografo e studioso del folklore, noto per i suoi Les rites de passage (1909), recensisce sul Mercure de France il testo durkheimiano, facendo valere le ragioni di una conoscenza degli argomenti etno-antropologici su cui Durkheim ha costruito il suo percorso (van Gennep 1913). E qui viene ripresa e potenziata quella critica tecnica che abbiamo visto annunciata e che ritroveremo in altri autori che del pari prendono in considerazione il contenuto più preciso del testo durkheimiano.
In quella parte dell’opera, dice Van Gennep, laddove si discute la teoria generale del totemismo e quella della religione, i documenti sono comparativamente sufficienti e danno ragione a Durkheim in particolare sul fatto che tutte le religioni primitive sono «nettement énergétiques»; ma le pagine dedicate alla trattazione monografica delle tribù australiane rivelano lo stile di una «ethnographie livresque», che obbliga a mettere dei punti interrogativi su ogni pagina. Le idee sull’uomo «primitivo» e sulle società «semplici» sono del tutto erronee, dice Van Gennep, essendo le società australiane assai complesse e assai poco primitive. D’altronde, ribadendo di continuo l’elemento collettivo, ha trascurato del tutto l’incidenza delle credenze individuali sulla formazione delle stesse istituzioni – come lui ha provato nel volume Mythes et légendes d’Australie (1906) che Durkheim ha bellamente ignorato! Durkheim in realtà non possiede dei fatti etnografici se non «le sens métaphasique et plus encore le sens scolastique»; accorda la realtà con i concetti e con le parole, ma non avendo il senso della vita, ossia il senso biologico ed etnografico, «fa dei fenomeni e degli esseri viventi delle piante disseccate scientificamente, come in un erbario» (p. 391).
Il testo varca i confini della Francia. Nello stesso anno 1913 compaiono altri commenti da parte di autori di lingua inglese.
Edwin Sidney Hartland (1848-1927), inglese, studioso anche lui del folklore, fa una recensione (1913) piuttosto accurata e neutra in Man, lascia tutto in sospeso e tuttavia annota quella che sembra a lui essere una distinzione netta tra la scuola francese capitanata da Durkheim e quella inglese: «noi in Inghilterra abbiamo forse dato troppo poca importanza all’influenza della società nella genesi della religione. Abbiamo attribuito troppo esclusivamente all’influenza della natura esterna e delle esperienze della vita individuale su ciò che si assume, a torto o a ragione, sia la costituzione della mente umana». Se invece la scuola francese, all’estremo opposto, ecceda nell’attribuire troppa importanza alla società ignorando gli apporti individuali, questo è un problema che la discussione avviata dal testo durkheimiano dovrà inevitabilmente affrontare, conclude Hartland.
In quell’epoca, Bronislaw Malinowski (1884-1942) lasciata la Polonia, sua terra d’origine, è, da tre anni, alla London School of Economics dove conseguirà il dottorato in antropologia. Ma ha già le idee chiare, ed è in attesa di praticarle recandosi proprio in Australia. Prende a leggere Durkheim e a discutere le sue tesi in uno scritto (1913) che compare in Folklore. Il testo del leader della scuola francese è un evento, esordisce Malinowski; e spiega come per il prof. Durkheim «the religion is the social par excellence» (p. 525). E come Hartland riafferma quella che sembra essere l’opposta prospettiva della scuola inglese, che, al contrario, accentua il ruolo dell’individuo.
Durkheim si basa su un volume, quello di Spencer e Gillen (1899), che sembra offrire i materiali più completi per i suoi assunti. «Nevertheless, to base most far-reaching conclusions upon practically a single instance seems open to very serious objections» (p.326). La distinzione tra sacro e profano, basata su quei documenti, è universale? Non ne è convinto. Tra i popoli melanesiani – che Malinowski si accinge a frequentare nelle sue ricerche – la cosa è almeno dubbia. E non ci si sente a proprio agio, ammette inoltre, nel dover ritenere che il totemismo sia la forma più elementare di religione. Durkheim procede mostrando come «la società sia la sostanza reale, la materia prima, della concezione umana della divinità» (p. 527). Qui, osserva Malinowski, la società sembra essere il soggetto logico di questo assunto, «an active being endowed with will, aims, and desires»: se non la prendiamo come una figura del discorso, dobbiamo ritenerla una concezione interamente metafisica: «La società concepita come un essere collettivo, accreditata di tutte le proprietà della coscienza individuale, è rigettata anche da quei sociologi che accettano la “coscienza collettiva” nel senso della somma di stati coscienti», come fanno, annota Malinowski, McDougall, Ellwood, Davis e in parte Simmel e Wundt.
E prosegue nei suoi rilievi critici in nome di una conoscenza fortemente radicata empiricamente; e si domanda se far dipendere la religione dagli stati di effervescenza collettiva, in cui si annuncia la superiore forza della società, non sia deludente: a parte il sospetto che desta una teoria che fa dipendere la religione da fenomeni di massa, dal punto di vista del metodo qui «we are at a loss» (p. 529). L’imputazione di metafisica è indirizzata un po’ a tutte le maggiori proposte durkheimiane, fino ad evocare l’Assoluto hegeliano. Tirando le somme, teorie che concernono fondamentali aspetti della religione non possono essere basate sull’analisi di una sola tribù, per giunta analizzata in un solo libro. Al contrario di quanto ha sempre sostenuto in base al metodo oggettivo di elezione, che prescrive di trattare i fatti sociali come cose, qui prevalgono le categorie psicologiche, come appunto gli stati di effervescenza: essi «can hardly be accepted as the only source of religion» (p. 531). Ma per quanto molti punti siano criticabili, il volume contiene analisi così robuste del fenomeno religioso che potrebbero essere effettuate solo da uno dei «più acuti e brillanti sociologi viventi» (p. 531).
Nello stesso anno, compare sull’American Journal of Sociology, una recensione di Hutton Webster (1875-1955), antropologo, attento soprattutto al tema della magia su cui scriverà in seguito. Molti hanno affermato, dice Webster, che la religione è un evento sociale: Durkheim ha voluto dedicarsi alla verifica scientifica di queste generalizzazioni: in questo senso il suo volume «may serve as a model study in social anthropology» (1913, p. 845). Ciononostante, egli esagera l’importanza del totemismo nelle istituzioni primitive; e devono servire come avvertenza le ricerche di Frazer, che lo ritiene certamente importante, ma «is not a whole of savage societies». Inoltre l’idea di mana non è una chiave di volta interamente esplicativa del fenomeno religioso e di tutte le sue conseguenze. È finito il tempo, conclude, Webster, di elaborare sistemi che spiegano la totalità delle religioni primitive ricorrendo ad un solo fattore: la venerazione per gli antenati, secondo Spencer, il tabù secondo Reinach, il totemismo secondo Durkheim. L’accuratezza nel rispettare i nomi è inconsueta per i libri francesi, nota infine Webster, per quanto al testo manchi un indice delle materie.
È l’anno 1914. Wilson Dallam Wallis (1886-1970), antropologo americano, anch’egli interessato alla questione della scienza e della religione nelle società primitive, nel Jounal of Religious Psychology dedica un articolo alle Formes (Wallis 1914), contestando a Durkheim una serie di carenze sul piano empirico del tipo di quelle che già conosciamo, aggiungendo che dà una visione della vita primitiva in termini di indifferenziazione e monotonia ma che ha «profoundly misunderstood it» (p. 256) per amor di tesi. Laddove il metodo dichiara di voler essere analitico e induttivo mostra di professare un trattamento teoretico della vita primitiva (p. 257). Wallis è uno psicologo e dunque si pone su un altro versante della interpretazione dei fenomeni sociali: ma, sebbene le sue preferenze vadano verso la considerazione prioritaria dell’importanza dell’individuo, non è lontano dal credere in una rilevanza eguale del gruppo; e la conciliazione dei due punti di vista è senza dubbio possibile e produttiva: «the two point of view are better than either one in co-ordinating the facts of indivdual and social life» (p. 267).
Nello stesso anno, compare sulla Revue de méthaphisique uno studio critico di Harald Høffding (1843-1931) filosofo danese, già autore di un volume dal titolo Philosophy of Religion (1906). Durkheim, dice questo studioso, prende decisamente posizione contro le concezioni intellettualistiche della religione, applicandosi ad un’analisi empirica approfondita, dalla quale emerge che la religione è una forza assolutamente importante nella formazione delle attività umane; non solo, è un potente fattore di elaborazione della cosmologia umana: «Ma la questione che si pone è di sapere se tutte le esperienze concernenti i valori e la conservazione dei valori provengono necessariamente dalla società» (Høffding 1914, p. 340). Per quanto Durkheim faccia un tentativo ingegnoso di spiegare le origini delle categorie, per acquisire la conoscenza più soddisfacente di questa questione, «noi abbiamo bisogno di una lunga serie di esperienze raccolte nei campi più disparati, ed è un gran lavoro ancora da fare» (p. 347). Non si sa se rilevare qualche contraddizione o finanche una sottintesa ironia nelle parole conclusive di Høffding: «lascio questo libro di M. Durkheim con la convizione profonda di aver appreso molto sia dalle parti in cui le mie vedute si avvicinano alle sue che nelle parti in cui si allontanano. A mio avviso, questo lavoro segna un gran progresso, e forse anche, un punto di svolta nello studio filosofico della religione» (p. 348). Uno studio filosofico della religione non era esattamente l’intenzione di Durkheim!
George P. Adams (1882-1961), filosofo ed epistemologo americano, Ph.D. ad Harvard nel 1911, traccia un paragone tra Royce e Durkheim in una breve nota comparsa in The Philosophical Review nel 1916. La ragione di tale impresa sta nel fatto che pur appartenendo a tradizioni diverse, Royce a quella idealista, Durkheim a quella positivista, vi sono tra i due molti punti di contatto. Il primo e fondamentale è che ambedue concordano sul punto che la religione scaturisce dall’esperienza umana: anzi convengono sul fatto che «la realtà espressa dal pensiero religioso è la società» (Adams 1916, p. 299). E naturalmente la società è rappresentata da entrambi nella sua autonomia, consistenza, unicità. Royce, autore di The World and the individual (1900-01) e The problem of Christianity (1913), vede nel processo di civilizzazione l’avanzata di un individuo che per quanto in pace è sempre internamente in lotta con gli altri. Cosicché il contrasto tra esigenze individuali e esigenze collettive esige una conciliazione e anzi una salvazione: ciò accade con il Cristianesimo capace di rinsaldare la religione della lealtà alla comunità. Niente di tutto questo avviene in Durkheim, che preferisce parlare della solidarietà meccanica e della solidarietà organica. Le società evolute hanno nella solidarietà organica la loro base integrativa ed è un fatto che sorregge il passaggio verso la morale; l’idealismo di Royce preferisce ribadire la continuità tra il significato interno e quello esterno della nostre idee.
Anche Ulysses Grant Weatherly (1865-1940), sociologo, tra i padri fondatori dell’American Sociological Association, di cui assume la presidenza nel 1923, prende atto delle Forme appena tradotte in inglese da J.W. Swain per Macmillan nel 1916 in una sbrigativa recensione comparsa sull’American Journal of Sociology (1917). Il libro avrebbe a che vedere «chiefly itself with the religious aspects of Australian sociology» (sic!). Non si può dire, che nonostante l’impegno empirico, Durkheim sia riuscito a sfuggire del tutto a difetti che spesso ricorrono in opere di questo genere. Egli legge «nella mente del selvaggio qualcosa dell’astruso processo mentale dello studioso critico, e cerca di trovare generalizzazioni inclusive che dovrebbero coprire i fatti più eterogenei e contraddittori» (p. 562).
Alexander Goldenweiser (1880-1940), antropologo trapiantato in America dalla natia Ucraina, autore di un testo dal titolo Totemism. An analytical study (1910), è forse l’analista durkheimiano più nitido, preciso, drastico e cortese. Ritorna sulle Forme in due scritti (1915 e 1917), pubblicati rispettivamente su American Anthropologist e su The Journal of Philosophy, Psychology, and Scientific Method. Ha già maturato una notevole esperienza empirica e se ne percepisce la rilevanza nelle argomentazioni, effettuate da conoscitore proprio delle situazioni di cui si occupa Durkheim.
L’opera durkheimiana contiene molto di più di uno studio descrittivo, osserva Goldenweiser, visto che «he had a vision and he brings a message» (1915, p. 719); contiene, per così dire, in una sola molte opere: una teoria della religione, una teoria del totemismo, una teoria del controllo sociale, una teoria del rituale, una teoria del pensiero (ivi, p. 720). Per ciascuna di queste teorie, così come esposte da Durkheim, Goldenweiser ha una serie di rilievi empirici e di obiezioni logiche che lo conducono infine a motivare la sua posizione di lettore profondamente interessato ma anche radicalmente insoddisfatto.
L’aver selezionato l’Australia come sua fonte esclusiva di informazioni è inadeguata a causa della debolezza dei dati; ed è tanto più inadeguata quanto più si tende a generalizzare quei dati.
La teoria della religione di Durkheim è insufficiente perché mette sotto un’unica rubrica disparati aspetti del fenomeno religioso. In particolare il lato individuale e soggettivo della religione non ottiene l’attenzione necessaria. La teoria del totemismo soffre dello scarso rilievo in cui sono tenuti in conto i materiali etnologici che avvertono della speciale complessità psicologica e storica del totemismo: così che la posizione di Durkheim emula per artificialità e unilateralità quella dei vecchi antropologi classici. La teoria del controllo sociale deve essere rigettata sia per la sopravvalutazione del sociale che per la sua sottovalutazione. Se l’individuo è, per un verso, completamente assorbito dalla società, per un altro, la società non è concepita come un assetto storico ma come una folla sublimata. La teoria del rituale è angustamente behaviouristica e razionalistica e fallisce nel dar conto degli effetti dell’esperienza sulla mente. La teoria del pensiero pone un’eccessiva enfasi sulle esperienze socio-religiose come fonti delle categorie, a tutto danno delle esperienze profane del selvaggio e dei concreti fatti e processi della natura. La conclusione è che la tesi per la quale la società è la fonte della religione «must be regarded as unproved» (ivi, p. 735).
Nel secondo scritto, Goldenweiser discute più o meno allo stesso modo, sebbene, data la audience della rivista, in stile maggiormente filosofico. Sintetiche proposizioni che figurerebbero come altrettanti titoli di importanti capitoli durkheimiani riguardanti le definizioni della religione, del totemismo, del mana, del significato della simbologia totemica vengono nuovamente riproposte e contestate punto per punto. La conclusione è che Durkheim non riesce a dare una soluzione soddisfacente ai due problemi al centro della sua analisi, ossia la relazione tra l’individuo e la società e la natura del sentimento religioso: «Per quanto acuta sia l’intelligenza dell’autore e brillante sia la sua argomentazione uno chiude il libro con la malinconica sicurezza che Durkheim ha lasciato questi due perenni problemi esattamente dove li ha trovati» (1917, p. 124).
3. Conclusioni
Mentre si discutono le Forme, sull’Europa e sul mondo si abbatte la catastrofe della prima guerra mondiale; Durkheim, come abbiamo detto, combatte: e combatte con le armi della stessa disciplina che ha così decisamente sostenuto e consolidato. Egli sa che la coscienza collettiva è una forza enorme e qualsiasi pratica vada in direzione del suo potenziamento è arma di inaudita potenza. Si batte per la solidarietà dei Francesi, si batte con la ragione della denuncia dei responsabili del conflitto e con il sentimento dei valori che si difendono. La fede nella giusta causa non può non ottenere i suoi frutti. E li ottenne. Durkheim non fece in tempo a vederli e a goderne: morì nel novembre del 1917. La morte fu l’occasione per ritornare sulla vita: e sull’eredità dello studioso. Lo fa sul Mercure de France Raymond Lenoir (1918), che in seguito darà buoni contributi per la conoscenza di inediti – come le lezioni sullo Stato tenute presumibilmente da Durkheim tra il 1900 e il 1905 – di speciale valore per l’approfondimento di aspetti poco noti del pensiero durkheimiano. In Durkheim il gusto, dice Lenoir, per la meditazione morale e un sentimento realista della vita si equilibrano. E in lui si ritrovano le generose tendenze del grande movimento umanitario francese che non separa certamente la questione sociale dalla questione morale. In un’epoca di mezze-volontà, di mezzi-caratteri, Durkheim è un carattere intero, una volontà intera. Troppo fermo nelle sue idee per avere il dono della seduzione e l’indulgenza verso le debolezze giovanili, «egli ebbe dei collaboratori, non dei partigiani. Egli non sollecitava se non adesioni intellettuali» (p. 898).
Maurice Halbwachs, noto in particolare per i suoi intensi studi sulla memoria, riprende, in un lungo saggio sulla Revue Philosophique dal titolo La doctrine d’Émile Durkheim (1918), tutti i punti nodali dell’elaborazione durkheimiana fino all’opera ultima, mettendo in rilievo le «scoperte» durkheimiane, in particolare la coscienza collettiva, come realtà spirituale la cui azione e i cui prolungamenti penetrano in tutte le regioni della coscienza di ciascun uomo (p. 410). Durkheim dovette opporsi all’inizio un po’ a tutti per far valere le ragioni di una scienza nuova; ma alla fine, la sociologia ha potuto mostrare un «pouvoir assimilateur dans toutes le directions». E ha fatto ben capire che tutte le discipline, analizzando ciascuna di esse una parte della realtà, convergono infine verso un oggetto unico per cui è necessario metterle in contatto e associarle. «On peut dire de maintenant qu’il y a réussi, et qu’il n’est point d’étude se rapportant à la nature humaine qui ne doive bientôt sentir l’influence organisatrice et vivifiante de sa doctrine» (p. 411).
Come abbiamo detto, per quanto sia stata ricostruita una sezione definita del tempo delle Forme, le grandezze concettuali e le debolezze locali sono ben illustrate e formeranno le tracce problematiche durature del testo.
Due punti rimangono da trattare rapidamente, riprendendo motivi che sono variamente apparsi nei commenti della nostra breve rassegna. Il primo riguarda la posizione delle Forme nella carriera intellettuale di Durkheim, il secondo il posto delle Forme nell’attualità sociologica. Le due questioni hanno occupato, come sappiamo, schiere di esegeti; la letteratura durkheimiana è pertanto piena di spunti di grande interesse e ad essa occorre rinviare. Qui tenteremo solo alcune notazioni di sintesi.
Le Forme, rispetto al Suicidio e rispetto alla Divisione del lavoro hanno il medesimo tema di fondo: la coscienza collettiva di una realtà sui generis chiamata società. O una realtà sui generis con la sua coscienza collettiva. Le Forme sono in un certo senso, come ultima opera, un ritorno alla prima, ossia alle origini della coscienza collettiva delle società caratterizzate dalla solidarietà meccanica. Nella Divisione del lavoro Durkheim si era posto il problema del passaggio alla società «vera e propria», caratterizzata dalla divisione del lavoro e dalla solidarietà organica. Dunque la transizione è esplicita; nelle Forme elementari della vita religiosa, il riferimento è a quelle stesse società «primitive» ma il passaggio alle società evolute e moderne è più problematico, sebbene non evitato, visto che specialmente nelle conclusioni Durkheim non esita a parlarne. L’intermezzo del Suicidio (1897) ha un senso particolare ed empirico; ma anche un senso generale e teorico laddove si propone il medesimo tipo di argomentazione in riferimento al test specifico del suicidio. Coscienza collettiva e società sono sempre in primo piano. Con il corollario, già a suo tempo introdotto, della coscienza individuale, ossia della società moderna dove l’individuo assume una sua importanza cruciale e una sua visibile preminenza. Ovviamente anche nella Divisione il problema della coscienza individuale era centrale, come infine è centrale nelle Forme e in particolare nella conclusioni di questo testo.
Sotto molti aspetti, il tipo di impostazione non è cambiato, e i termini fondamentali della prospettiva durkheimiana rimangono costanti. Nelle Forme il problema, già più volte annunciato negli altri due volumi, diventa centrale, definito e definitivo: l’assunto radicale è la società come evento religioso e come fattore costruttivo di religione. Qui nascono problemi ulteriori.
Se e nella misura in cui si assume che la società sia un fatto religioso, la cosa può passare come una efficace tautologia stante il presupposto che non vi può essere una società senza legami materiali e immateriali tra i suoi membri. Semmai sono accentuati, rispetto per esempio al legame espresso materialmente dalla divisione del lavoro sociale, gli elementi simbolici, l’assetto dei valori, l’ordinamento normativo; in altre parole l’elemento spirituale viene in primo piano come proiezione espressiva, come linguaggio della società, soggetto essenziale e fonte dinamica. L’argomento contingente della negazione durkheimiana della psicologia è conseguenza dell’affermazione della priorità della società rispetto all’individuo, che mantiene tuttavia le sue qualità individuali nel quadro della coscienza collettiva moderna, nella quale confluiscono e trovano ragioni le istanze individuali e anche le dinamiche psicologiche personali. È quando Durkheim incontra, in forza della sua prospettiva, le religioni storiche – e le religioni sono tutte storiche nel senso di essere collocate, come organismi interpretativi, nel tempo e nello spazio - che la speciale ambivalenza del discorso sulla religione finisce col suscitare indizi di sospetto.
Da una lato, di fronte alla secolarizzazione moderna, all’Entzauberung che pure tanto importanza ha nel processo di razionalizzazione teorizzato da Max Weber, Durkheim dà man forte alla religione sostenendo che non potrà mai essere eliminata dall’orizzonte come fatto sociale fondamentale, e costruttivo finanche delle massime categorie dell’esperienza e infine della scienza moderna: in questo senso ribadendo il carattere sacro della società contro ogni secolarizzazione possibile; da un altro la nozione di religione viene fatta riposare su un sostrato sociale generale e perenne che giustifica qualsiasi versione religiosa locale senza parteggiare per nessuna: ed è in quel sostrato la radice religiosa autentica. L’idea di Dio, nella quale si specifica e identifica la trascendenza, è ridotta di portata e di credibilità, è secondaria, come apprendiamo dalle stesse annotazioni durkheimiane. Besse non aveva torto nell’inserire Durkheim tra i fautori di una religione laica. Si potrebbe riassumere la cosa in questi termini: se da un canto Durkheim contrasta l’idea della fine della religione nella modernità, da un altro rende nella modernità, come in antico, laica qualsiasi religione. Era quasi ovvio che se da una parte, quella dei laici più o meno radicali, dovesse ottenere rilievi ed opposizioni, da un’altra, dal fronte dei religiosi di tutte le religioni istituzionali, in particolare della tradizione giudaico-cristiana, di contrasti e rifiuti dovesse ottenerne anche di più, vedendosi il «ceto ierocratico» e i fedeli omogeneizzati, ridotti di autorità specialmente nel governo dell’ultramondano, e infine sospinti a pensare che l’oggetto della loro fede, della loro teologia, delle loro liturgie, fosse, non molto diversamente da ciò che predicava Auguste Comte, la società, per quanto quest’ultima contenesse nella sua realtà, come spiega Durkheim a proposito della relazione promotiva tra società reale e società ideale, anche le prerogative ideali.
Se, come accade in maggior misura oggi, si esce dalle diatribe ideologiche sulla religione, la proposta durkheimiana, nella sua complessità dinamica, al di là delle questioni tecniche menzionate, continua ad offrire argomenti di riflessione teorica e sollecitazioni applicative nel corso dello studio delle interazioni simboliche e dei frames di significato, ossia di quelle immani e delicate sequenze immateriali che accompagnano la comunicazione, costruttiva di ogni forma di comunità tra uomini.
Il pensiero di Durkheim continua ad essere linfa vitale per la tradizione sociologica. Ciò che deve essere ben evidente è che tale tradizione non può essere né rigida né tanto meno agiografica. Il sapere sociologico è essenzialmente critico e tale atteggiamento deve essere fatto valere, come espressione di raggiunta maturità, anche in direzione della tradizione sociologica.
Il meeting che abbiamo ricomposto evoca pensieri che autorevoli figure intellettuali di quel tempo consegnano all’intelligenza scientifica per dialoghi ulteriori. Dobbiamo dire che, in quell’epoca o poco prima, anche in Italia sulle scienze sociali ferveva il confronto, come avveniva per esempio nell’Accademia Reale di Napoli nel 1904-05. Oggi, per una serie di cause che sarebbe troppo lungo analizzare in questa sede, tale vocazione dialogica – con gli inevitabili corollari dialettici – langue. Le discipline, dagli scranni della loro sazietà accademica, invocano il criterio multidisciplinare o transdisciplinare, battendosi nel contempo contraddittoriamente per un loro primato. Ciò ha molto a che vedere con gli atteggiamenti di una comunità scientifica che abbia veramente a cuore l’avanzamento della conoscenza mediante quel Trust che altrove esiste, sorregge la comunicazione e modella i meriti a prescindere dal potere. Il centenario delle Forme può essere un’occasione per la sollecitazione e la dilatazione di una conversazione di speciale rilievo sia di contenuto che di metodo: e, come è auspicabile, anche di maniere, sull’esempio di quelle umili e aristocratiche praticate un secolo fa dagli eminenti studiosi della nostra galleria temporanea, contemporanea solo per un lustro a Durkheim, che concluderà la sua esperienza intellettuale ed umana il 15 novembre del 1917.
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