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2012/0

Le «Forme elementari della vita religiosa» 100 anni dopo: nuove prospettive e vecchi cliché (The Elementary Forms of Religious Life 100 Years on: New Perspectives and Old Clichés), di Massimo Rosati


Benché le Forme elementari della vita religiosa siano certamente considerate una delle opere classiche della tradizione sociologica, a cento anni dalla loro pubblicazione esse continuano a risentire di alcuni giudizi critici particolarmente severi. Il paper di Rosati intende mettere in questione due dei luoghi comuni più frequenti: il carattere anti-pluralista del pensiero di Durkheim, Forme elementari incluse, da un lato, e la presunta ‘idolatrica’ identificazione tra dio e società, dall’altro. Una revisione critica di questi due cliché interpretativi aprirebbe la strada ad un ancor più ampio apprezzamento del capolavoro durkheimiano, che può essere vantaggiosamente considerato una fonte classica delle contemporanee riflessioni sulla società postsecolare, nonché una sorta di psicanalisi sociale capace di rammentare alla modernità il ruolo costitutivo del rito e del sacro nella costruzione del legame sociale.

The Elementary Forms of Religious Life 100 Years on: New Perspectives and Old Clichés

Although considered one of the classics of the sociological tradition, The Elementary Forms of Religious Life continues, one hundred years after its publication, to suffer from a degree of interpretive bias. Rosati’s paper sets out to question two of the most common clichés: the anti-pluralistic character of Durkheim’s work, on the one hand, and the allegedly «idolatrous» identification between god and society on the other. The author maintains that a critical review of these  two clichés can potentially extend our appreciation of Durkheim’s masterpiece. Furthermore, from the perspective of contemporary social theory, the article asserts that Durkheim’s 1912 work is a twofold source of inspiration: it both offers on-going reflections on post-secular society, and represents the main point of reference for a sort of social psychoanalysis, capable of reminding Western modernity of the constitutive role of the ritual and the sacred in social life.

I dibattiti intorno ai due classici per definizione della tradizione sociologica, Max Weber ed Émile Durkheim, sono accomunati negli ultimi decenni da una sorta di revisione del canone che ha scosso alle fondamenta (con conseguenze ancora non del tutto metabolizzate dalla comunità sociologica, anche se non soprattutto italiana) vecchie certezze su cui i sociologi si erano oramai accomodati. In entrambi i casi, questa revisione è consistita nel portare in primo piano le opere in cui l’analisi della modernità passa attraverso quella del ruolo, posto e carattere della religione (o delle diverse tradizioni religiose) in essa. Nel caso di Weber, da Rheinart Bendix in avanti, ma soprattutto successivamente con le opere di Friedrich H. Tenbruck, Wolfgang Schluchter e Jürgen Habermas, i Saggi di sociologia della religione hanno progressivamente occupato il centro della scena, e riorientato la lettura tanto di Etica protestate e spirito del capitalismo quanto, soprattutto, di Economia e società (cfr. per sintesi Triggiano 2008; Ferrara 1995; Treiber 1993). Nel caso di Durkheim, che ci interessa più da vicino in queste pagine, una data importante è il 1995, anno di pubblicazione della nuova edizione inglese delle Forme elementari della vita religiosa, ritradotta e introdotta da Karen E. Fields, con l’intento di superare molti dei limiti della vecchia edizione a cura di Joseph Ward Swain del 1915 (cfr. Fields 1995). La nuova edizione Free Press, a cui in inglese ne seguirà una «abbreviata» curata da Mark S. Cladis per i tipi della Oxford University Press (Cladis 2001), darà l’avvio ad una ondata di studi durkheimiani che avranno per oggetto, per lo più anche se non certo unicamente, proprio le Forme elementari (cfr. Allen, Pickering, Watts e Miller 1998). In questa new wave di studi durkheimiani, la ricalibratura del canone – che vede ora, tanto per essere chiari, La divisione del lavoro sociale spodestata dal ruolo di opus magnum dall’opera del 1912 – si accompagna ad una ridefinizione geo-accademica dei centri gravitazionali degli studi durkheimiani; infatti, motore (inesauribile) di questi ultimi è stato, negli ultimi venti anni almeno, il British Centre for Durkheimian Studies di Oxford, il suo direttore William S. F. Pickering, la rivista Durkheimian Studies, e non da ultimo l’editore Berghahn (Oxford-New York), che di concerto con il British Centre for Durkheimian Studies ha pubblicato in inglese molte traduzioni di scritti di Durkheim e Mauss mai prima editi in quella lingua, ha curato ritraduzioni di pagine già note con cura filologica superiore rispetto al passato, e coltivato con particolare attenzione studi di letteratura secondaria. In Italia, una eco di questo revival si è avuta in primo luogo con la nuova edizione Meltemi delle Forme elementari della vita religiosa, che ha colmato, seppure purtroppo per un breve periodo, l’indisponibilità di quella Edizioni di comunità del 1961, e ha cercato al contempo di fornire una nuova contestualizzazione e introduzione al testo (Rosati 2005a), e in secondo luogo con il lavoro di alcuni studiosi che con il British Centre for Durkheimian Studies hanno avuto il piacere e l’onore di collaborare (Paoletti 1998; Guizzardi 2006, 2007, 2009, 2012; Rosati 2000, 2003, 2004, 2005b, 2008; Pickering e Rosati 2008). Poiché, come è noto, c’è un tempo per tutto (anche nella vita accademica e intellettuale), nuovi equilibri si vanno profilando, ma questo centenario delle Forme elementari è ancora, per lo più, all’insegna di letture anglosassoni [1] più che francesi, queste ultime non particolarmente distintesi negli ultimi anni per brillantezza e originalità.[2]

Nelle pagine che seguono, seppur brevemente, intendo soffermarmi su quei punti che, a mio modestissimo avviso, contribuiscono maggiormente a fare delle Forme elementari quella fonte di ispirazione continua di cui ha parlato Pickering (1984, xix). Tra i tanti possibili, selezionerò, da un lato, due punti che permettono di attualizzarne l’eredità, e due vecchi cliché il cui superamento rimuoverebbe probabilmente alcune diffidenze che ancora in molti nutrono nei confronti del capolavoro del 1912, dall’altro.

1. Le Forme elementari della vita religiosa come psicoanalisi sociale: rito, sacro e mode...

Il primo punto che vorrei affrontare riguarda la chiave di ingresso più vantaggiosa con cui accostarsi allo studio dell’opera di Durkheim. Altrove (Rosati 2005a e 2009) ho provato a mostrare come le Forme elementari vadano lette, in primo luogo, come un trattato sul sacro e sul rito, e come il détour etnografico che portava Durkheim a compiere un lungo viaggio nel passato dell’umanità, in apparente contraddizione con gli studi precedenti tutti centrati sulle caratteristiche peculiari delle società moderne (La divisione del lavoro sociale e Il suicidio, ma anche quelli dedicati all’educazione), fosse giustificato – come suggerito da Robert Bellah ormai anni orsono (Bellah 1965) – da una logica simile a quella che guidava l’impresa freudiana: si trattava di compiere un viaggio nelle fonti inconsce dell’agire religioso dei fedeli e della vita sociale, con l’obiettivo di capire meglio la «natura religiosa dell’uomo» e, in realtà, l’identità, la natura, le patologie e il futuro dell’uomo moderno, essendo quest’ultimo, come chiarito fin dalla prima pagina del libro, il vero fine dell’analisi durkheimiana (Durkheim 1912, trad. it. 51). Sebbene con una strategia teorica molto diversa, il suggerimento di Bellah (le Forme elementari come psicoanalisi sociale) è stato più di recente raccolto e sviluppato dalla sociologia culturalista di Jeffrey C. Alexander, che poggiando sulle Forme elementari come Urtext (Santoro 2006, p. 12) intende «rendere visibile l’inconscio sociale, rivelare agli uomini e alle donne i miti di cui sono plasmati» (Alexander 2006, trad. it. p. 21)[3]. Ancora Bellah, da ultimo nel monumentale Religion in Human Evolution, ha inteso proseguire il programma durkheimiano mostrando alla modernità (anche occidentale) come «nothing is ever lost» (Bellah 2011, p. 13), e come dunque nonostante dopo la rottura assiale e con lo sviluppo della modernità pensiero teorico e razionalismo abbiano assunto il predominio rispetto a cultura mimetica e narrativa, né sacro né rito siano fuoriusciti dall’orizzonte sociale. Se una tesi di questo genere oggi ci appare quanto meno familiare, nonostante tanto sociologicamente quanto normativamente non cessi di creare pruriti, ciò dipende in buona misura dallo choc che a suo tempo procurarono i «selvaggi» portati alla Sorbona da Durkheim, e assunti quasi a modello ed esempio di quel che la modernità occidentale doveva imparare a non disprezzare se voleva conservare le sue stesse conquiste, in primis il suo culto per un individualismo morale e non atomistico. Rimango infatti convinto che lo “sguardo da lontano” che Durkheim volgeva sulla società moderna tramite il détour etnografico che lo portava tra gli aborigeni australiani – uno sguardo in cui si percepisce anche un riflesso della sua profonda cultura ebraica (Rosati 2012) –, desse luogo nelle Forme elementari ad una circostanziata, amara analisi e riflessione, di segno né nostalgico né conservatore, sui rischi corsi da una modernità anche solo transitoriamente senza riti e priva della capacità di produrre sacro. Quel che rende ancora attuale il capolavoro durkheimiano è, in primo luogo, il fatto che non smette di mettere la modernità allo specchio, di farla riflettere sul carattere costitutivo di rito e sacro (Rosati 2009) per la tessitura del legame sociale, per l’esistenza stessa dei gruppi sociali e della vita associata. Nei cento anni che ci separano dalla pubblicazione delle Forme elementari, il sacro ha in realtà ripreso il suo posto nella vita sociale in molti modi, alcuni dei quali certamente mostruosi, come già Marcel Mauss, senza il quale le Forme elementari non sarebbero forse esistite, dovette tragicamente constatare davanti al nazismo (cfr. Allen in corso di stampa). Tuttavia, mettere in conto a Durkheim la violenza del sacro sinistro (sul concetto, cfr. Riley 2010) è scorretto da almeno due punti di vista: testuale, poiché come proverò a mostrare più avanti sulla scorta dell’analisi di Fields e Pickering, Durkheim non sostenne mai un’idolatrica equivalenza tra Dio e società; interpretativo, perché la grandezza di Durkheim stette da un lato nell’andare alla radice dei meccanismi di funzionamento della vita sociale (sacro e rito), dall’altro nel mostrare che anche la società moderna non poteva pensarsi se non ingenuamente del tutto secolarizzata.

2. Le fonti classiche della modernità postsecolare: vs. il cliché di un universalismo anti-pluralista

La questione della continuità o discontinuità all’interno dell’opera durkhemiana, tra La divisione del lavoro sociale e le Forme elementari, è come è noto una delle più dibattute nella letteratura specialistica (Pickering 1984; Steiner 2005). In particolare, gli interpreti discutono il ruolo avuto, nella cosiddetta «rivelazione del 1895», dalla letteratura etnografica (cfr. Zerilli 2001). Certamente, rivedere il rapporto tra le due opere alla luce di una centralità maggiore rispetto al passato accordata alla seconda, significa anche tornare criticamente sulla tesi che annovera Durkheim tra i padri putativi delle teorie della secolarizzazione (Goldstein 2009). Infatti, se La divisione del lavoro sociale può essere interpretata come un pezzo di teoria della modernizzazione – e quindi ipso facto della progressiva perdita di rilevanza sociale della religione –, il quadro che emerge dalle Forme elementari è certamente più complesso. Da una parte perché, come già detto e come ovvio, le Forme elementari aprono la strada all’analisi delle trasformazioni del sacro nella modernità (dal sacro civile e politico alle forme di individualizzazione della religiosità moderna, concettualmente non in immediata sintonia con la definizione durkheimiana di religione, ma tutt’altro che escluse dalla visione prospettica che Durkheim aveva della traiettoria del sacro nella modernità, cfr. Durkheim 1912, trad. it. p. 97); dalle forme di estetizzazione del sacro (Tiryakian 2009) alle sue radicalizzazioni politiche care agli autori del Collège de Sociologie (Richman 2002, Riley 2010), ma dall’altra perché, come forse meno ovvio, è il ruolo stesso delle religioni tradizionali che appare nelle Forme elementari più incerto. Quest’ultimo punto merita un supplemento di indagine, anche perché apre la strada ad una lettura di Durkheim come fonte classica della modernità postsecolare.[4]

La letteratura su Durkheim è attraversata da una serie impressionante di cliché, che Pierre Birnbaum si è incaricato di passare in rassegna e criticare; solo per citarne alcuni: Durkheim teorico del corporativismo di destra, precursore niente di meno che del fascismo, apologeta della pacificazione sociale, scrupoloso servitore della Terza Repubblica, ebreo assimilato in toto identificatosi con l’ideologia repubblicana (Birnbaum 2008, p. 87). Anche all’interno del ristretto circolo di specialisti del pensiero di Durkheim, in cui molti di questi cliché non hanno più alcun corso, l’idea di un Durkheim strenuo difensore di un’idea repubblicana di integrazione come assimilazione, fiero avversario di «tradizioni, abitudini, modi di pensare oramai superati» (Birnbaum 2008, p. 85) è ancora maggioritaria e largamente indiscussa. Rispetto a questa convinzione consolidata, la posizione di Birnbaum rappresenta una eccezione.[5]

Il problema della «assimilazione totale» – dal punto di vista biografico come anche quale categoria centrale nel quadro del pensiero di un autore il cui principale rovello teorico fu sempre la solidarietà sociale (Rosati 2002) – viene indagato da Birnbaum con riferimento a molti ebrei francesi in epoca moderna. In termini generali, Birnbaum nota come «l’assimilazione totale, che alcuni anni fa credevo potesse essere data per scontata, non mi appare più oggi tale» (Birnbaum 1995, p. 66). Infatti, figure come Durkheim, Lévy-Bruhl, Mauss, Aron, e molte altre, sono attraversate da una certa tensione tra una concezione razionalistica e universalistica della società moderna, da un lato, e il «senso di appartenenza ad una certa comunità», dall’altro (1995, p. 67). Nel caso di Durkheim, Birnbaum indaga tale tensione analizzando la concezione che il sociologo di Epinal aveva dell’antisemitismo come patologia di una società disfunzionale, la sua teoria del capro espiatorio, le sue reazioni alle volgari accuse della destra nazionalista antisemita, il suo ruolo nell’Affaire Dreyfus, e successivamente nella difesa degli ebrei di Russia. Particolarmente sensibile a ogni segno biografico e teorico di attenzione prestata da Durkheim alla presenza e al ruolo dell’ebraismo nella vita sociale, ancora nel 1995 Birnbaum sembra concludere che Durkheim era fondamentalmente un «dreyfusardo, un repubblicano, un ebreo assimilato», il cui pensiero è stato «diffamato dalla stampa antisemita», ma che si è mantenuto attento alle sue radici proprio come reazione agli attacchi antisemiti. Al tempo stesso, la risposta di Birnbaum lascia spazio al dubbio. Infatti, lo studio della questione sociale in Francia tra il 1895 e il 1900, accanto alla formulazione di una coscienza collettiva costituita da valori universalistici, avrebbe forse lasciato spazio anche ad una considerazione «tollerante» di credenze e appartenenze che non potevano essere accomodate una volta per tutte nei limiti di una concezione della società universalistica nel senso repubblicano (francese) dell’espressione. La domanda che si pone Birnbaum è la seguente:

Durkheim fece mai un passo al di là della pura teoria per suggerire che l’assimilazione repubblicana potesse lasciare spazio al riconoscimento delle differenze? Per quanto sia difficile provare in modo rigoroso che questo sia ciò che accadde, la sola possibilità ci incoraggia a guardare alla impressionante macchina sociologica che edificò sotto una nuova luce (1995, p. 94).

In altri termini, c’è spazio nel pensiero di Durkheim per il riconoscimento delle differenze? O egli faceva viceversa propria una idea di spazio sociale «vuoto» e «liscio»? Memorie, identità tradizionali, sono dissolte una volta per tutte in un pensiero metodologicamente nazionalista e/o in valori presuntivamente universalistici come, al culmine del suo pensiero, il culto dell’individuo? Sulla centralità del culto dell’individuo, astratto e universale, morale nel senso kantiano, concordano la maggior parte degli interpreti. Che sia per via «liberale» o per via «comunitarista» (cfr. Cladis 1992), la letteratura per lo più concorda senza esitazioni nel rinvenire nel culto dell’individuo l’erede, dal punto di vista durkheimiano, di quelle tradizioni religiose oramai dissoltesi sotto gli effetti corrosivi della secolarizzazione (Strenski 2010, p. 57). Senza nulla togliere alla centralità del culto dell’individuo, altrove ho cercato di mostrare come questo non sia del tutto compatibile con la concezione della religione difesa da Durkheim nelle Forme elementari, essenzialmente in virtù del suo carattere di credenza povera di riti, e come lo stesso Durkheim, dal punto di vista biografico, ne lamentasse verso la fine della sua vita l’inutilità (cfr. Rosati 2009, capp. 1 e 2). A fronte di questo scetticismo sul carattere ultimo e definitivo del culto dell’individuo quale risposta durkheimiana ai bisogni di solidarietà delle società moderne, si aggiunge da parte mia un dubbio sulla sostenibilità della tesi di una incompatibilità del pensiero durkheimiano con la persistenza, nello spazio sociale moderno e nella «macchina sociologica» di Durkheim, di forme di pensiero, usi e costumi, tradizioni in altri termini, particolaristici. Detto in altri termini: a risultare non del tutto convincente è sia la tesi del culto dell’individuo come forme astratta e universalistica di religione moderna pienamente soddisfacente dal punto di vista durkheimiano, sia quella della dissoluzione, sempre dal punto di vista durkheimiano, del pluralismo delle religioni tradizionali, dissolte appunto in un universalistico culto del soggetto morale. Se, per il primo punto, sono costretto a rimandare a precedenti lavori, per il secondo vorrei tornare un momento alle riflessioni di Birnbaum.

In ricerche recenti su «esilio, illuminismo e de-assimilazione» (Birnbaum 2008), Birnbaum compie un altro, prudente, passo in direzione dell’apertura nei confronti di una tesi anti-assimilazionista con riferimento a Durkheim. A colpire lo storico e sociologo francese, è il richiamo durkheimiano all’esempio del suicidio di Masada, cui Durkheim allude citando Giuseppe Flavio (Durkheim 1897, p. 165; Flavio 2006) – un evento, sottolinea Birnbaum, al tempo molto poco noto e presente alla coscienza pubblica (Birnbaum 2008, p. 82) –, così come in generale la profonda conoscenza che Durkheim aveva del Pentateuco, il libro più citato già nella Divisione del lavoro sociale. Il complesso delle opere di Durkheim, dalla Divisione del lavoro sociale al Suicidio, ma ancora esempi nelle Forme elementari e in altri scritti sparsi, contengono riferimenti importanti, impliciti o espliciti, all’ebraismo, e mostrano come Durkheim fosse impegnato in un dialogo costante con quest’ultimo. Nella Divisione del lavoro sociale, il Pentateuco viene citato come fonte per un modello paradigmatico di solidarietà meccanica, ma altrove, come nel caso delle Due leggi dell’evoluzione penale (Durkheim 1899-1900), la sua forza «repressiva» appare già mitigata a fronte di un carattere più mite e democratico al cospetto della coscienza collettiva di altre società antiche. Inoltre, e gli esempi potrebbero essere moltissimi, nel Suicidio Durkheim guarda all’uomo ebreo come a colui che «assomma così i vantaggi della forte disciplina, caratteristica degli antichi piccoli gruppi, ai benefici dell’intensa cultura, privilegio delle nostre grandi società attuali. Ha tutta l’intelligenza dei moderni, senza condividerne la mancanza di speranze» (Durkheim 1897, pp. 210-11). E se nelle Forme elementari l’ebraismo non trova un posto esplicito, il suo ruolo di forma religiosa capace di svolgere un’«azione profilattica sul suicidio» e, in generale, di offrire una prospettiva non disperante sulla modernità, viene paradigmaticamente preso dal totemismo, che con l’ebraismo condivide la forte natura ritualistica e l’enfasi su una religiosità «incarnata», corporea, centrata sull’azione. Se aprissimo il nostro sguardo al di là di Durkheim, per abbracciare ad esempio anche il pensiero di Mauss e di altri durkheimiani, vedremmo facilmente come nella polemica contro il liberalismo protestante e gli studiosi di scienze delle religioni ad esso ispirato, Durkheim e i durkheimiani usassero totemismo ed ebraismo come esempi privilegiati di concezioni della religione più coerenti con la loro prospettiva sociologica, con quello che Strenski ha chiamato «ritualismo metodologico» (Strenski 1997 e 2006; Rosati 2012). L’importanza del «ritualismo metodologico», ossia della centralità attribuita da Durkheim e dai durkheimiani alla dimensione rituale nella spiegazione dei fenomeni religiosi, sta – tra le altre ragioni – nel fatto che è proprio al culto che, nelle Forme elementari, Durkheim attribuisce la possibilità da parte delle religioni di sopravvivere alla forza secolarizzante delle scienze moderne. Se la componente cosmologica delle religioni non potrà più, per Durkheim, negare sic et simpliciter le acquisizioni delle scienze, sociali in primis, e sarà costretta a trasformarsi, le religioni continueranno tuttavia ad essere depositarie di quello «slancio ad agire», di quella vicinanza all’azione, di cui le scienze sono per parte loro deficitarie (Durkheim 1912, trad. it. pp. 494-95). Piuttosto che immaginare una semplice dissoluzione delle religioni nella scienza, nelle Forme elementari Durkheim immagina il futuro del conflitto tra religioni e scienza nei termini di un «reciproco apprendimento», esattamente quel che Jürgen Habermas definisce come il cuore di un atteggiamento postsecolare. Per quanto conti, anche dal punto di vista biografico sappiamo, del resto, che il rapporto di Durkheim con l’ebraismo fu quanto mai complesso. A fronte di interpreti che tendono a ricondurlo ai canoni di una sostanziale assimilazione ai valori del repubblicanesimo della Terza Repubblica (Pickering 1994, Fournier 2007), ancora Birnbaum (cfr. anche Fields 1995) fa notare come l’epistolario con il nipote e collaboratore Mauss (Durkheim 1998) evidenzi la perdurante vicinanza negli anni di Durkheim ai riti del mondo ebraico, cui attribuiva il vantaggio, al di là della sfera religiosa, di mantenere la coesione del gruppo e della famiglia (Birnbaum 2008, p. 121).

Ma non è tutto. A militare in favore dello scetticismo verso un atteggiamento teorico da parte di Durkheim anti-pluralista, orientato all’idea di un dissolvimento dei particolarismi identitari entro valori universalistici ciechi nei confronti delle differenze, è non solo la sua posizione nei confronti di specifiche tradizioni religiose come l’ebraismo, i dubbi nei riguardi dell’astratto e de-ritualizzato culto dell’individualismo, o ancora l’enfasi su una religione non privabile neanche in contesti moderni della componente ritualistica, ma forse ancor più la logica intima delle Forme elementari. Nella sua Introduzione all’edizione inglese del 1995, Karen Fields sottolinea con forza come le Forme elementari, più di ogni altra opera durkheimiana, mostrino quanto la solidarietà per sua stessa logica poggi sulla affermazione della differenza. Che cosa altro sarebbe infatti il principio totemico se non l’affermazione di una differenza? Nello svelamento dei meccanismi (scientificamente osservabili) di costituzione della soggettività via costruzione sociale di identità collettive centrate su simboli e rappresentazioni particolari (che in quanto tali distinguono e differenziano), risiederebbe per Fields l’elemento critico e dirompente di un’opera che agiva da «provocazione» nei confronti di una modernità contenta di se stessa (Fields 1995). Il pluralismo, in quest’ottica, rappresenta il cuore pulsante, il respiro stesso secondo Karen Fields, delle Forme elementari.

3. Dio e società: equazione o relazione simbolica

L’altro grande cliché che ha indotto molti critici ad una certa diffidenza verso la logica delle Forme elementari, oltre che più in generale verso la sociologia durkheimiana, mi sembra essere (in aggiunta al presunto misconoscimento del pluralismo[6]), l’altrettanto presunta idolatrica identificazione ed equazione tra Dio e Società. Il luogo classico della critica di idolatria, già avanzata dai contemporanei di Durkheim (cfr. Pickering 1984), è nelle note pagine di Raymond Aron, laddove si concludeva l’analisi delle Forme elementari con l’affermazione secondo cui «in ultima analisi, mi sembra inconcepibile definire l’essenza della religione con l’adorazione che l’individuo dedica al gruppo, perché, almeno ai miei occhi, l’adorazione dell’ordine sociale è proprio l’essenza dell’empietà. Stabilire che i sentimenti religiosi hanno per oggetto la società trasfigurata, non è salvare, ma degradare l’esperienza umana di cui la sociologia vuole dare ragione» (Aron 1965, p. 334). A questa critica, certamente grave in sé e ancora di più dalla prospettiva ebraica di Aron e dello stesso Durkheim, il pensiero di Durkheim è stato riscattato, a mio avviso, in due modi diversi da Karen Fields e da William S.F. Pickering. Nella sua Introduzione all’edizione del 1995 delle Forme elementari, Fields fa notare una fondamentale affinità tra la prospettiva di Durkheim e la concezione biblica della religione. Alla luce di questa affinità, lungi dall’essere l’espressione di un atteggiamento idolatrico, la presunta equazione durkheimiana tra dio e la società esprimerebbe in termini sociologici il fondamentale carattere mondano dell’ebraismo stesso, una religione che anziché essere orientata ad una fuga dal mondo, concepisce i precetti, le mizvot, come un modo per completare la creazione divina. Secondo Karen Fields,

L’affermazione secondo cui dio e la società are one and the same può essere letta anche in altro modo. Si consideri il modo in cui Dio, o «il dio», diede i Dieci Comandamenti (Esodo 20). Si noti che i primi cinque riguardano i rapporti tra gli uomini e Dio, e i secondi cinque quelli tra gli uomini. Inoltre, il passaggio non contiene nessun invito a considerare l’uno o l’altro set di comandamenti come dotato di uno status superiore all’altro, obbligatorio in un senso in cui non lo sarebbe l’altro – o, per quanto conti, come pensato in modo separato. Nel contesto di quel mondo teologico, le concezioni di dio e della società sono inseparabili. Dire che god and society are one and the same non significa dire nulla di più di quel che ha detto Dio stesso, attraverso Mosè. A me sembra che le Forme sono interamente dentro quel mondo (Fields 1995, p. xxxviii).

A partire da una lunga e meticolosa analisi filologica, cui in questo contesto posso solo rimandare (Pickering 1984, pp. 227-261), Pickering arriva a conclusioni del tutto simili. Notando che mai, in nessun luogo delle Forme elementari o in altra opera, Durkheim afferma che Dio e la società sono la stessa cosa,[7] o che mai egli usa l’espressione «deificazione della società», Pickering rimprovera ai critici di aver compiuto frettolosamente un passo – lo stabilire un’equazione, in luogo di un parallelismo –, che Durkheim non avrebbe mai compiuto. L’affermazione stessa secondo cui dio sarebbe la società ipostatizzata e trasfigurata simbolicamente, sancirebbe per Durkheim l’affermazione di una relazione simbolica (Pickering 1984, p. 232), di un rapporto non di identità ma di interconnessione e condivisione di una stessa logica (il rapporto dio/fedeli, da un lato, e società/individuo, dall’altro) – una stessa logica che muove, d’altro canto, dalla contingenza e fragilità dell’esistenza di Dio e della società, la cui sopravvivenza dipende dalla capacità di auto-trascendimento e completamento dell’opera di Dio da parte degli individui e dei fedeli (Poggi 2000, Rosati 2005a). Così, secondo Pickering,

quel che Durkheim afferma è poco più che l’esistenza di una significativa interconnessione tra dio e società, che i due termini non sono realtà separate così isolate l’una dall’altra tanto da non essere strettamente correlate. Esse infatti sono intrecciate. E per provare questo punto, egli arriva ad affermare, usando il linguaggio che poi ci è diventato familiare, che dio è il clan ipostatizzato (Pickering 1984, p. 234).

La meticolosa analisi testuale del più grande studioso di Durkheim degli ultimi trenta anni quanto meno, arriva ad una conclusione che è perfettamente compatibile e coincidente con quella di Karen Fields. La critica di Aron, e di molti altri critici contemporanei (cfr. Pickering 1984, p. 232), sembra come saltare frettolosamente al di là di quel ritmo e di quei movimenti che pure caratterizzano le Forme elementari, che non a caso passano di continuo dall’analisi interna al funzionamento delle credenze e delle pratiche religiose, a quella della società e dei suoi rapporti con gli individui, esattamente a cercare le tracce di una comune logica, di un modo per disvelare, attraverso lo studio della religione, il funzionamento della scatola nera della vita associata. Durkheim muove costantemente da un piano all’altro, e invita i lettori ad un esercizio di andirivieni tra i due, come quando paradigmaticamente analizza criticamente il «circolo logico» tra individui e fedeli di cui parlava Robertson Smith (Durkheim 1912, trad. it. p. 408). Una relazione simbolica che, come Karen Fields suggerisce, Durkheim poteva vedere solo a partire da una concezione della religione profondamente debitrice della sua cultura ebraica.

4. Conclusione

Le Forme elementari sono quasi unanimemente riconosciute oggi come uno dei grandi classici della tradizione sociologica. Non solo per il contributo dato all’analisi sociologica dei fenomeni religiosi e del sacro in sé, o per il posto che hanno nel pensiero durkheimiano, ma per gli innumerevoli campi in cui hanno rappresentato un contributo pionieristico di straordinario valore, capace di aprire nuove piste di ricerca, da allora consolidatesi in aree di studio con una loro propria (parziale) autonomia; solo per fare alcuni esempi, ovvi o meno noti: dallo studio del ruolo dei simboli nella vita sociale a quello dei rapporti tra memoria e società; dal rapporto tra religione, scienza e senso comune all’analisi del totemismo; da una teoria delle rappresentazioni sociali ad una stimolante sociologia dell’arte; dalla teoria dell’homo duplex ad una teoria sociologica dell’anima. Nelle brevi considerazioni svolte in queste pagine, ho cercato di sostenere che un modo, uno tra i molti possibili, per valorizzare ancora oggi e per il futuro l’importanza di questa opera che non finisce di trasmettere stimoli ad ogni rilettura, è quello di considerarla come il punto di partenza di una sorta di psicanalisi sociale che scandagli le profondità della vita collettiva, per mostrare il ruolo a tutt’oggi costitutivo di rito e sacro. Un approccio di questo genere, naturalmente, non può non confrontarsi criticamente con ingenue autorappresentazioni secolarizzate della modernità occidentale, e invitare a guardare in generale ai rapporti tra religione, vita sociale e politica con uno sguardo diverso rispetto a quello che caratterizza molti dibattiti anche contemporanei. Inoltre, ho provato a mostrare come, una volta rivisto criticamente uno dei tanti cliché interpretativi legati al pensiero durkheimiano e alle Forme elementari in particolare, che vuole il pluralismo (degli interessi e dei valori) sotto-rappresentato e considerato con diffidenza da Durkheim, il pensiero di quest’ultimo possa essere considerato una delle fonti della nuova autorappresentazione postsecolare della modernità occidentale. Non solo sacro e rito continuano a far parte dell’orizzonte che abitiamo, ma anche le religioni tradizionali, i particolarismi identitari collettivi possono (senza che scattino istinti riflessi che ne fanno immediatamente forme regressive) essere riconosciuti e analizzati dalla teoria sociale. Il pensiero di Durkheim rappresenta, a mio avviso, una via particolarmente fruttuosa non solo all’analisi del sacro antropologicamente inteso, ma anche a quella della fenomenologia del pluralismo culturale e religioso contemporaneo, nonché ad una considerazione dei rapporti tra forme religiose e secolari di vita orientata ad un reciproco apprendimento, in un’ottica postsecolare (cfr. Rosati e Stoeckl 2012). Da ultimo, credo che sgombrare il campo dalla critica di idolatrica ed empia adorazione del sociale, che accompagna ingiustamente le Forme elementari fin dalla loro pubblicazione, sia una condizione, forse prerequisito, indispensabile per una più serena considerazione del contributo che esse possono offrire ancora per il futuro. Il superamento di questo come di altri cliché legati all’interpretazione del pensiero di Durkheim, richiede un’immersione totale nel pensiero del sociologo di Epinal, nelle sue fonti e nelle trama delle conversazioni in cui era inserito al suo tempo; un esercizio non facile e che necessita di grande pazienza, ma che arricchisce, questo il mio personale convincimento, di una prospettiva in linea di principio illuminante da cui guardare alle forme del legame sociale, una prospettiva capace di donare, in linea di principio, profondità e respiro rari alle nostre analisi. Saper far fruttare con il nostro lavoro un simile insegnamento è, naturalmente, tutt’altra questione.

Riferimenti bibliografici

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1

Per una sintesi della letteratura soprattutto statunitense, cfr. Alexander e Smith (2005).

2

Con questo non si intende naturalmente sostenere che non siano stati offerti contributi di spessore in area francofona. In particolar modo, non possono essere omessi quelli di un grande e compianto studioso come Philippe Besnard (2003). Tuttavia, quello che colpisce nella letteratura francese su Durkheim, inclusi i lavori di Besnard, è l’assoluto silenzio sulle Forme elementari della vita religiosa. Oltre ai saggi di Besnard, si veda da ultimo Cuin (2011), in cui di nuovo non si dedica alcuna attenzione specifica all’opera del 1912. Per ragioni di completezza, in area francofona si veda la monumentale biografia di Fournier (2007).

3

Sul rapporto tra sociologia durkheimiana, sviluppi di quest’ultima in Marcel Mauss in relazione alla concezione dei simboli e al loro ruolo nella vita sociale, da un lato, e psicoanalisi, dall’altro, si veda soprattutto Karsenti (2005) e Tarot (1999).

4

In questo contesto non posso entrare naturalmente nella discussione sul postsecolare. Nel considerare brevemente le ragioni per le quali ritengo che il pensiero di Durkheim sia una delle fonti classiche del postsecolare, mi limito a sottolineare due elementi che concorrono a mio parere in modo costitutivo alla sua definizione: in primo luogo, la presenza sulla scena pubblica di (un pluralismo di) religioni tradizionali pubbliche (Casanova 1994), ossia di identità collettive religiose particolaristiche non dissoltesi nell’universalismo della modernità, contro ogni previsione e prospettiva secolarista modernista; in secondo luogo, l’esistenza sia da parte delle tradizioni religiose, sia da parte delle concezioni secolari della vita, di un atteggiamento riflessivo di disponibilità al «reciproco apprendimento» (Habermas 2006). Nel paragrafo 2 cerco di mostrare che questi due elementi definitori del postsecolare siano propri, contro consolidati cliché interpretativi, anche del pensiero durkheimiano.

5

Riprendo considerazioni svolte in Rosati 2012.

6

Contro il presunto disconoscimento del pluralismo, oltre alla logica intima delle Forme elementari su cui mi sono brevemente soffermato sopra, oltre all’atteggiamento non liquidatorio di Durkheim nei confronti delle tradizioni religiose particolari e storiche, vi è la più generale idea durkheimiana di società. Come sottolineato da Gianfranco Poggi (2000) lungi dall’essere quel Leviatano che spesso la letteratura dipinge, l’idea durkheimiana di società è caratterizzata da uno spiccato elemento di contingenza e fragilità, che ne fa una realtà soggetta costantemente a rischio estinzione. Di qui l’enfasi di Durkheim sulla necessità dell’auto-trascendimento da parte degli individui all’interno di gruppi specifici. Inoltre, errata è anche l’identificazione tra società e nazione, sulla scorta di un nazionalismo metodologico ottocentesco (e novecentesco). Altrove ho provato a mostrare come Durkheim articoli sempre l’idea di società o in termini di specifici gruppi sotto-nazionali (famiglie, gruppi professionali etc.) – oltre che naturalmente di società nazionale – o in termini di realtà sovranazionali, dall’idea ancora astratta e sociologicamente esangue di umanità a quella più concreta e specifica di civiltà (quest’ultima quasi del tutto assente all’attenzione della letteratura su Durkheim). Cfr. Rosati (2009, pp. 137-140).

7

Nel passaggio più controverso, in francese la frase suona così: «Si donc il est, à la fois, le symbole du dieu et de la societété, n’est ce-pas que le dieu et la société ne font qu’un?» (Durkheim 1912, p. 295).

  • Articolo
  • pp:13-26
  • DOI: 10.1485/AIS_0_2012/TEORIA_RICERCA
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