1. Introduzione
A partire dal 1998 ad oggi il sistema di reclutamento e di carriera dei docenti universitari italiani è andato incontro a ben quattro riforme, in media una ogni tre anni e mezzo. La riforma del 1998 ha decentralizzato le procedure concorsuali, rendendo le istituzioni universitarie autonome e responsabili della propria politica del personale accademico. L’eccessivo localismo, che si è manifestato principalmente nella chiamata degli idonei appartenenti all’ateneo che bandiva i concorsi (CNVSU, 2007), ha costituito l’argomento-chiave della riforma Moratti del 2005, che reintroduceva un sistema nazionale per l’ottenimento dell’idoneità di prima e seconda fascia: i concorsi per il reclutamento dei ricercatori rimanevano locali e soprattutto veniva abolita la figura del ricercatore a tempo indeterminato sostituita da ricercatori a tempo determinato la cui carriera avrebbe dovuto svolgersi attraverso un vago sistema di tenure-track. Contemporaneamente, la riforma introduceva un secondo momento di valutazione comparativa degli idonei a livello locale. La riforma è rimasta sulla carta poiché i decreti attuativi non sono mai stati adottati. Nel 2010, una nuova riforma universitaria, quella del ministro Gelmini, riprende lo schema della riforma Moratti, ma, nel giugno 2012, il nuovo ministro Profumo annuncia l’intenzione di mettere a punto un decreto che prefigura il ritorno ai concorsi decentralizzati e locali, con qualche modifica rispetto al sistema della riforma del 1998. Mentre scrivo, i contenuti e soprattutto le modalità operative di questo decreto non sono ancora del tutto chiari.
Il risultato più evidente di queste ondate di riforme dal 2005 a oggi è che i concorsi per gli avanzamenti di carriera sono fermi dal 2008 (CNVSU, 2010) e pochi sono stati quelli banditi sia per ricercatori tradizionali, sia per quelli a tempo determinato. Al di là degli effetti, non si può non notare come le riforme successive a quella del 1998 si siano fondate su una rappresentazione del ceto accademico piuttosto negativa, ma superficiale, sebbene non priva di elementi di verità. Si è gradualmente imposta una visione della docenza universitaria che la equipara ad una casta (termine ormai in gran voga nel dibattito pubblico) occupata a e preoccupata di riprodursi come tale, scarsamente produttiva in termini di didattica e soprattutto di ricerca, scarsamente internazionalizzata, molto nepotista, familista e clientelare. Se si considerano i vocabolari di legittimazione (Wright Mills, 1940) di tali riforme, essi si fondano su questi tipi di argomenti, con scarsa se non nulla conoscenza delle cose e soprattutto di uno sguardo comparativo solido ed empiricamente fondato.
L’intento del presente lavoro è offrire un contributo per ampliare la base di conoscenza su questo tema particolare, derivato dai dati della ricerca internazionale Changing Academic Profession (CAP). I risultati per l’Italia sono stati pubblicati nel volume curato da Michele Rostan La professione accademica in Italia (2011).
L’indagine era volta a sondare, attraverso lo strumento della survey, i principali aspetti della professione, delle attività caratterizzanti e delle condizioni in cui esse vengono sviluppate dagli accademici. La survey italiana ha avuto luogo tra la fine del 2007 e i primi mesi del 2008. Sebbene il reclutamento e le carriere non costituissero il principale focus dell’indagine, da alcune domande è possibile derivare informazioni e indicazioni su alcune dinamiche e problemi al riguardo. Inoltre, il questionario era volto a sondare le rappresentazioni dei docenti su vari aspetti della professione accademica, per cui i dati riflettono giudizi, valutazioni, percezioni soggettive e non costituiscono la «realtà oggettiva», tranne che per alcuni aspetti come, ad esempio, il salario o i tempi di carriera.
I paesi europei presi in considerazione in questo lavoro non sono frutto di una scelta, ma di necessità: sfortunatamente, all’indagine non hanno partecipato paesi importanti come Francia e Spagna. Tra i paesi europei partecipanti, che però non considero, c’è l’Olanda; il problema è che i dati non sono ancora del tutto affidabili e quindi non trattabili adeguatamente senza rischi di distorsioni. Il campione di accademici a cui è stato mandato il questionario, relativi a ciascun paese considerato è così composto: Finlandia: 1452; Germania: 1265; Italia: 1701; Norvegia: 1035; Regno Unito: 1565.
2. Dalla laurea alla cattedra
Il tempo è una variabile cruciale per comprendere la dinamica delle carriere accademiche e per valutare le differenze o le somiglianze nei percorsi di carriera dei docenti nei diversi paesi. Allo scopo, vengono presi in considerazione 4 momenti cruciali della carriera, misurandoli attraverso l’età media in cui si sono verificati: l’ottenimento della laurea; l’ottenimento del dottorato di ricerca; l’ottenimento del primo posto di ruolo; gli sviluppi di carriera successivi.
Nella Tabella 1, vengono riportate l’età media del conseguimento della laurea di primo livello (dove esistente), di secondo livello (per l’Italia e la Germania la laurea quadriennale viene considerata tale) e di dottorato (ricordando che per il nostro paese i docenti con questo titolo sono relativamente pochi, dato che i primi dottorati sono stati avviati nel 1983).
Sembrerebbe che i nostri docenti ottengano il titolo più elevato un po’ prima degli altri. Tuttavia, ciò dipende non poco dalle diversità degli ordinamenti didattici dei diversi paesi precedenti alle riforme basate sul Bologna Process (Bachelor/Master), che implicano una diversità nella durata legale degli studi, di cui si deve tener conto nella lettura dei dati.
In Finlandia, fino al 1990, le lauree avevano una durata quinquennale (medicina, 6 anni). Dal 1990, sono stati introdotti corsi sul modello Bachelor/Master in alcuni corsi di laurea. In Germania (solo università), in alcune discipline, la durata era quadriennale, in altre quinquennale e a medicina era di 6 anni. In Norvegia, la variabilità era ancora più alta: si va da corsi quadriennali a quinquennali (a cui successivamente si sono aggiunti corsi triennali) e addirittura di 7 anni, come nel caso delle Scienze umane, per conseguire il titolo di magister artium. Il Regno Unito si è caratterizzato fino a tempi recenti per differenze interne nella durata legale degli studi: ad esempio, in Inghilterra il sistema su due livelli Bachelor/Master ha una lunga storia, mentre in Scozia i corsi erano quadriennali fino all’introduzione dello schema di Bologna.
Relativamente al dottorato, come accennato più sopra, i docenti italiani con tale titolo rispetto agli altri sono relativamente pochi. Inoltre, si deve ricordare che in Italia ci si laureava almeno 2-3 anni oltre la durata legale e che i posti di dottorato con borsa erano relativamente pochi (spesso, si facevano due o più concorsi prima di vincere il posto con borsa). Tutto ciò spiega l’età un po’ più avanzata dei nostri dottori rispetto a quelli degli altri paesi, sebbene lo scostamento non sia grande.
Passiamo ora ai dati relativi all’età media in cui i docenti hanno sviluppato i loro percorsi di carriera, dall’ottenimento del primo posto di ruolo, fino alla posizione ricoperta al momento della rilevazione (Tabella 2):
Primo dato che salta agli occhi è l’età dei nostri docenti nettamente più avanzata di quella degli altri. Ma questo è un dato noto, per cui non mi ci soffermo. Osservando le altre tre colonne, si nota come i nostri docenti entrino in ruolo un po’ più anziani dei loro colleghi. Nei cinque paesi considerati, il tempo mediamente trascorso tra l’acquisizione del primo titolo di istruzione superiore e l’immissione in ruolo è rispettivamente di 5,5 anni in Finlandia, 3 anni in Germania, 7,5 anni in Italia, 7 anni in Norvegia e 7 anni nel Regno Unito[1]. Il dato tedesco non deve trarre in inganno: le risposte date dai docenti tedeschi sono «viziate» dal fatto che i docenti non di ruolo – coloro che hanno conseguito l’abilitazione all’insegnamento, ma non sono inquadrati in ruolo – costituiscono circa il 50% del personale accademico. Questi docenti entrano piuttosto rapidamente nei ranghi della docenza e sono a tutti gli effetti considerati – e si considerano – docenti appartenenti all’ateneo, con gli stessi diritti-doveri di quelli di ruolo, per cui è molto probabile che, nel rispondere al questionario, essi si siano collocati nella stessa categoria di questi ultimi, sebbene il loro status contrattuale sia diverso (contratti quinquennali rinnovabili). Di conseguenza, sul dato tedesco, questa caratteristica pesa significativamente. Ad eccezione della Finlandia, negli altri casi, la carriera si dimostra piuttosto lunga e non presenta variazioni significative tra paesi. Se ne deriva che, almeno nei sistemi nazionali considerati, la trafila per entrare nei ruoli della docenza è sostanzialmente simile e risponde, grosso modo, alle stesse logiche di apprendistato e cooptazione, sebbene i sistemi di reclutamento siano molto diversi. In altre parole, i tempi relativamente lunghi di carriera, dipendono da una particolare cultura, che caratterizza la professione in maniera simile praticamente ovunque.
Tornando alla Tabella 2, se si sottraggono: a) l’età della prima nomina nell’attuale università a quella della prima nomina in ruolo e b) l’età al momento della rilevazione a quella della prima nomina in ruolo nell’attuale università, si ottengono dati interessanti relativamente al tempo passato in un’università diversa da quella attuale, che, a sua volta, è un indicatore di mobilità dei docenti (Tabella 3).
I nostri docenti sono decisamente meno mobili degli altri, in quanto reclutamento e carriera si svolgono in larghissima parte all’interno della stessa istituzione. Questo è un tratto strutturale e culturale dell’accademia italiana che non è mutato nel tempo e con i diversi regimi concorsuali. La riforma del 1998 ha accentuato questa caratteristica (CNVSU, 2007; tabb. 3.18 e 3.21, pp. 51-52) non tanto, o non solo, per la decentralizzazione dei concorsi, quanto per i vincoli finanziari degli atenei. Era più vantaggioso economicamente chiamare l’idoneo interno, il cui costo marginale era nettamente inferiore al costo da pagare ex novo per il reclutamento di un idoneo esterno ai ranghi dell’ateneo (Rostan e Vaira, 2011). Non fa sorpresa la maggior mobilità dei professori britannici, giacché essa ha da sempre caratterizzato il sistema britannico, che in questo senso si pone agli antipodi di quello italiano. Anche i finlandesi si caratterizzano per un’accentuata mobilità, sebbene si debba tener presente che le istituzioni universitarie in quel paese sono poche. Apparentemente, i tedeschi potrebbero essere quelli più mobili, ma non lo si può sapere con certezza, mancando il dato dell’età della prima nomina nell’attuale istituzione. Quei 6,5 anni potrebbero indicare docenti impiegati in una data istituzione con uno status non di ruolo, che sono poi riusciti a passare a una posizione di ruolo nella stessa università.
Infine, va considerato il dato relativo alla velocità di carriera, calcolata come tempo trascorso tra il conseguimento del titolo di studio e la posizione ricoperta al momento dell’indagine (Tabelle 4 e 5). In ciò seguo il calcolo di Cavalli, di cui riporto le tabelle (2011, p. 61):
I dati della Tabella 4 mostrano come lo sviluppo di carriera richieda tempi piuttosto lunghi, sia per le posizioni junior che senior, tranne che in Germania dove è un po’ più rapida, per le ragioni più sopra esposte. Il nostro paese si trova più o meno nella media. La Tabella 5 illustra la stessa cosa in modo diverso: gli anticipatori sono coloro che hanno una velocità di carriera più rapida rispetto alla media, mentre i ritardatari sono quelli con tempi più lenti. Come si vede, le carriere sono più rapide in Germania, più lente nel Regno Unito. Nel mezzo, sta il nostro paese insieme a Norvegia e Finlandia. Questi ultimi dati corroborano le considerazioni svolte più sopra in merito alla cultura professionale dell’accademia, che ha un ruolo rilevante nello spiegare i processi di reclutamento e carriera.
3. Eterogeneità dei percorsi lavorativi
Un aspetto che penso valga la pena evidenziare riguarda l’eterogeneità dei percorsi lavorativi degli accademici, cioè le esperienze lavorative extra-accademiche che essi hanno avuto. Questi dati sono utili come proxy per valutare, sebbene in modo cauto, tre aspetti generali dei sistemi universitari considerati: 1) la quantità di traffico culturale (Trowler, 1998), cioè l’eterogeneità di repertori culturali e cognitivi diversi da quelli tipicamente accademici, sia nei soggetti, sia nelle istituzioni. A sua volta ciò, presumibilmente, implica diverse attitudini nello svolgimento della didattica (es.: contenuti pratici che affiancano quelli teorici), nella ricerca (es.: una maggior propensione alla ricerca applicata piuttosto che verso quella pura) e nelle relazioni con il mondo esterno (es.: maggior capacità di dialogo con interlocutori extra-accademici); 2) il probabile apprezzamento da parte delle istituzioni reclutanti di percorsi ed esperienze professionali differenti da quelli strettamente accademici come valore aggiunto al profilo professionale dei soggetti reclutati; 3) conseguentemente, un tendenziale maggior grado di apertura dell’accademia verso soggetti con percorsi eterodossi rispetto a quello accademico puro. La Tabella 6 illustra il grado di eterogeneità dei percorsi in termini di anni passati in diversi ambiti lavorativi.
Sebbene l’esperienza all’interno dell’università sia prevalente rispetto a tutti gli altri settori in tutti i paesi considerati (per la Finlandia mancano i dati), vi sono comunque alcune differenze. Appare evidente come i nostri docenti si caratterizzino per una netta prevalenza degli anni lavorativi all’interno dell’università con brevi e, presumibilmente, poche esperienze in altri ambiti. Benché norvegesi e britannici mostrino anch’essi una prevalenza di questo tipo di percorso, tuttavia, le loro esperienze esterne all’accademia sono sensibilmente più lunghe di quelle dei nostri docenti, tranne che per il lavoro autonomo. I docenti tedeschi sono un caso a parte: hanno poche esperienze lavorative al di fuori dell’università e della ricerca non-universitaria, pur avendo passato metà degli anni nell’università rispetto agli italiani.
Le esperienze lavorative extra-accademiche più frequenti, in generale, sono in qualche misura vicine all’università, riguardando attività in istituti di ricerca e istituzioni governative pubbliche, dove spesso gli accademici sono cooptati come consulenti o addirittura hanno ruoli di tipo politico e ministeriale. Relativamente ai tre aspetti più sopra richiamati, si può concludere che l’università italiana è quella che si fonda maggiormente su percorsi tipicamente accademici e quindi tende a caratterizzarsi per uno scarso traffico culturale, una propensione più accentuata alla scienza pura e teorica e un grado di apertura limitato verso soggetti con percorsi ed esperienze professionali eterodosse rispetto a quella accademica. Sebbene anche negli altri paesi, come accennato, prevalga il percorso accademico puro, i loro docenti paiono caratterizzarsi appena un po’ di più per l’eterogeneità delle esperienze professionali e lavorative non accademiche.
4. Chi decide reclutamento e carriera
Il questionario prevedeva una serie di domande sugli attori più influenti in diversi ambiti della vita organizzativa delle università (Vaira, 2011, pp. 142-143). Tra questi ambiti, vi erano le decisioni relative al reclutamento di nuovi accademici e agli avanzamenti di carriera (Tabelle 7 e 8).
Governo e stakeholders esterni non vengono percepiti come dotati di un’influenza significativa sulla carriera accademica praticamente ovunque. Appare evidente come reclutamento e carriere siano un affare interno all’accademia. La somma dei dati medi delle due tabelle mostra chiaramente come i docenti indichino soggetti accademici (preside/direttore+consigli/senato+singoli docenti) quali attori principali, con percentuali tra il 70% e l’80% dei casi. Si conferma come l’accademia sia un’organizzazione professionale in cui il reclutamento è fondamentalmente basato sulla logica della cooptazione. D’altra parte, non può che essere così: solo i professionisti sono in grado di giudicare chi può entrare a far parte dell’organizzazione e chi può avanzare al suo interno. Si possono studiare correttivi e limitazioni alla logica cooptativa, ma non è possibile eliminarla.
Se questo è un tratto comune ai cinque paesi considerati (ma non solo a questi), tuttavia, vi sono alcune differenze significative. La più evidente ha a che fare con le dimensioni della verticalizzazione (le decisioni sono prevalentemente prese da chi ricopre posizioni apicali nell’organizzazione), della collegialità (le decisioni sono presi dal collegio dei docenti, per lo più i docenti ordinari) e del potere individuale (le decisioni sono prese in base a negoziazioni più o meno informali tra docenti dotati di potere e peso accademici).
Gli intervistati, in generale, vedono le decisioni di reclutamento come prese principalmente all’interno degli organi accademici collegiali, ma i finlandesi attribuiscono molta più importanza ai singoli docenti, in ciò seguiti –sebbene a distanza –dagli italiani, che sono un po’ sopra gli altri tre paesi. La verticalizzazione in questo ambito decisionale non è irrilevante, ma, di nuovo, si manifesta in maniera differente: sono per lo più i vertici intermedi e non tanto quelli apicali che vengono ritenuti influenti. Ma va anche tenuto conto che presidi e direttori non agiscono in piena autonomia come dei manager d’impresa, bensì in collegamento con i consigli accademici. Solo Germania e Norvegia mostrano percentuali più accentuate negli organi di vertice. Abbastanza sorprendentemente, gli accademici britannici non vedono così influente il vertice istituzionale, mentre i vertici intermedi sono giudicati abbastanza influenti. Sono gli organi collegiali a essere identificati come il locus privilegiato dove le decisioni di reclutamento vengono prese. Ciò è interessante se confrontato con le molte pubblicazioni britanniche, che denunciano la crescente erosione del modello collegiale in favore di uno manageriale, che sono seguite a e hanno aggiornato il noto libro di Halsey The Decline of Donnish Dominion (1992). In Italia, il vertice istituzionale è sostanzialmente irrilevante, a favore dei vertici intermedi e degli organi collegiali.
Nel complesso, quindi, possiamo concludere che, nei paesi considerati, le decisioni di reclutamento siano verosimilmente l’esito di una negoziazione tra vertici intermedi e organi collegiali, talvolta con l’intervento di singoli docenti dotati di potere e influenza, come in Finlandia e, in parte, in Italia.
Riguardo le decisioni per l’avanzamento di carriera, le cose stanno un po’ diversamente. L’influenza del vertice istituzionale sale notevolmente in tutti i paesi, tranne che in Italia; l’influenza dei vertici intermedi e degli organi collegiali rimane pressappoco la stessa e ci sono cambiamenti significativi sul lato dell’influenza individuale, che decresce notevolmente in Finlandia, Norvegia e Regno Unito, cresce molto in Germania e resta più o meno stabile in Italia.
Non è facile spiegare i motivi di questi cambiamenti di segno nell’attribuzione di influenza ai diversi attori. Laddove c’è una crescita del livello istituzionale, accompagnata da una decrescita dell’influenza individuale, ciò potrebbe indicare che la politica di progressione del personale è regolata e gestita dal vertice con poche possibilità di influenza da parte dei singoli accademici ancorché dotati di potere, con negoziazioni che interessano i vertici intermedi e gli organi collegiali. Al contrario, laddove cresce l’influenza individuale, le decisioni di carriera sono prese nell’ambito di una triangolazione negoziale individui-organi e vertici intermedi-vertici istituzionali. Probabilmente, sulle decisioni di avanzamento di carriera pesano in maniera maggiore considerazioni di tipo economico che, pertanto, chiamano in causa il vertice istituzionale che su questi aspetti aumenta la sua influenza. Si tratta di un’ipotesi che, dati gli scopi e la natura del questionario, non può essere verificata.
5. La valutazione delle condizioni di lavoro
Sebbene gli accademici intervistati mostrino ovunque un’elevata soddisfazione per il proprio lavoro (più del 61% è soddisfatto, contro un 11% di insoddisfatti) e ripeterebbero la scelta che hanno fatto, ciò non significa che siano altrettanto soddisfatti per le condizioni in cui esso si svolge e soprattutto che siano ottimisti per quel che riguarda l’accesso alla professione delle nuove leve.
Relativamente al primo punto, solo il 16% ritiene che le condizioni siano migliorate da quando hanno iniziato il loro lavoro, mentre quasi la metà ritiene che siano peggiorate (poco più di un terzo ritiene che siano rimaste uguali). I più positivi sono in finlandesi i quali, in quasi il 30% dei casi, dichiarano che c’è stato un miglioramento. Per i docenti degli altri paesi, gli aspetti negativi prevalgono largamente, con percentuali comprese tra il 42% della Norvegia e il 60% della Gran Bretagna, con Germania e Italia intorno al 55%, di chi dichiara che sono peggiorate.
In breve, quello accademico è un lavoro che piace (scelta evidentemente vocazionale o espressiva), ma sono le condizioni in cui si svolge che lo rendono frustrante. E, tra tali condizioni, quella della carriera è, molto probabilmente, una delle fonti di maggior frustrazione, soprattutto per chi è nelle posizioni inferiori.
Ciò trova una conferma indiretta nel pessimismo che gli intervistati manifestano quando esprimono il grado di accordo/disaccordo con la seguente affermazione: «Questo è un periodo molto difficile per i giovani che vogliono intraprendere la carriera accademica». Sebbene non marcatissimo, senza dubbio, il pessimismo è presente in tutti i paesi considerati. Ma vale la pena di vedere i dati puntuali (Tabella 8).
Se, in generale e mediamente, circa il 50% pensa che quello attuale sia un «brutto periodo» per chi voglia iniziare la carriera accademica, vi è circa un terzo dei docenti che non condivide questa valutazione. Sono soprattutto i tedeschi e i norvegesi ad essere i più ottimisti; in una posizione di cauto ottimismo si trovano i finlandesi e i britannici. I pessimisti siamo noi: tre docenti su quattro si dichiarano d’accordo con la frase proposta dal questionario. E, se si pensa che questa rilevazione è stata fatta prima dell’entrata in vigore della riforma Gelmini, è facile immaginare che, se si ripetesse oggi la stessa domanda, le risposte pessimistiche arriverebbero a ridosso del 90%, se non oltre. Ma anche tra il 2007 e il 2008 le cose per il reclutamento e soprattutto la carriera accademica non andavano bene e ciò spiega la percentuale plebiscitaria di chi si è espresso in modo pessimistico. Infatti, a partire dal 2002, il fondo di finanziamento ordinario (FFO) dell’università ha avuto incrementi modesti in termini nominali, il che si è espresso in un tendenziale decremento in termini reali. Ciò, a sua volta, ha ridotto le risorse impiegabili dalle università per bandire concorsi per il reclutamento e gli avanzamenti di carriera. A questo si aggiunga che, tra il 2002 e il 2004, sono stati adottati dal ministero provvedimenti di limitazione al reclutamento di nuovo personale di ruolo e che, a seguito della riforma Moratti del 2005, i concorsi si erano bloccati nel 2007. Come ha evidenziato il CNVSU (2007, tab. 3.12, p. 45), nel 2007, a fronte di 1.268 concorsi banditi, non se n’è espletato alcuno. Sotto queste condizioni non poteva certo emergere una visone rosea.
Conclusioni
Il quadro comparativo tracciato, sebbene non esaustivo dati i limiti della base dati (mancanza di paesi importanti, questionario non dedicato al tema del reclutamento e delle carriere), permette di gettare luce sulla situazione nel nostro paese e di derivare alcune considerazioni.
Innanzitutto, la retorica corrente che dipinge l’università italiana e i suoi docenti come un unicum negativo viene, se non proprio smentita, per lo meno molto ridimensionata. Le carriere sono lunghe ovunque e, fondamentalmente, sono condizionate dalla natura delle università come organizzazioni professionali e cooptative. Certamente, nel nostro paese, la cooptazione ha assunto in alcuni casi forme perverse (ma pensare che esse altrove non esistano è ingenuo) e, in una certa misura, le politiche universitarie hanno accentuato anziché ridurre queste tendenze.
In secondo luogo, in connessione con quanto appena detto, il reclutamento e le carriere dei docenti sono essenzialmente nelle mani della comunità accademica con un ruolo degli stakeholders esterni e dei vertici istituzionali nettamente di secondo piano. Nuovamente, nel nostro paese questo aspetto sembra essere più accentuato che altrove. Tuttavia, anche in paesi dove le riforme della governance dell’università si sono orientate risolutamente verso il New Public Management (es.: Norvegia e Regno Unito), di fatto non sono cambiate in profondità le logiche di reclutamento e carriera.
Infine, una specificità italiana emerge in modo netto: il pessimismo. Se, come detto, preoccupazioni e valutazioni pessimistiche sono diffuse in tutti i paesi considerati, con la parziale eccezione della Finlandia, i nostri docenti hanno una visione decisamente più fosca del presente e del futuro. Le riforme continue che hanno interessato l’università certamente hanno creato frustrazione e stanchezza nel corpo docente, ma da sole non bastano a spiegare un atteggiamento così pessimista. Sono le condizioni del finanziamento del sistema a essere decisive in ciò. In questo ultimo decennio, mentre altrove il finanziamento pubblico cresceva in maniera significativa, nel nostro paese esso diminuiva in termini reali – e continua a diminuire, anche in termini nominali dal 2008 – e ciò non può che produrre problemi a un settore già sotto-finanziato rispetto alla media dei paesi OCSE e dei paesi europei con cui ci confrontiamo in termini non solo di competitività economica, ma anche di produttività e attrattività dell’istruzione superiore. E questo stato di cose non può che riflettersi nelle percezioni e nei giudizi dei nostri docenti.
Riferimenti bibliografici
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