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2012/0

Nostalgia: un atteggiamento ambivalente (Nostalgia: An Ambivalent Attitude), di Olimpia Affuso


Nel 1688 Johannes Hofer propose il termine nostalgia per indicare un tipo di malattia che ha origine dallo struggente desiderio di ritornare al paese natio. Dalla fine del XIX secolo e durante il XX secolo, gradualmente, la nostalgia ha assunto importanti implicazioni politiche ed epistemologiche. Svetlana Boym sostiene che la nostalgia è un sintomo del nostro tempo, un’emozione storica consustanziale alla modernità. Questo articolo presenta differenti teorie sulla nostalgia e riflette sul contributo che esse possono dare allo studio della memoria. Qui la nostalgia non è considerata come un’emozione ma come un modo attraverso cui prende forma la conoscenza storica. Partendo da alcuni casi storici, come l’Ostalgia, la Jugostalgia e la Nostalgeria, in questo scritto si assume che la nostalgia è un atteggiamento ambivalente della memoria. Essa è un meccanismo di difesa dell’identità, volto ad assicurarne la continuità e che emerge quando un trauma scuote la vita individuale o collettiva. Inoltre essa è un’arma importante nel dibattito su quali memorie siano politicamente rilevanti. Ma la nostalgia ha anche una potenzialità critica e può generare azione. In questo lavoro, l’idea di fondo è che il desiderio di ritornare al passato possa divenire una risorsa per nuove opportunità e modi diversi di guardare e pensare il futuro.

Nostalgia: an Ambivalent Attitude

In 1688 Johannes Hofer coined the term nostalgia, referring to a malaise originating from the aching desire to return to one’s native land. From the end of the nineteenth century and during the twentieth century nostalgia gradually assumed important political and epistemological implications. Svetlana Boym asserts that nostalgia is a symptom of our age, a historical emotion characteristic of the modern period. This article presents different theoretic views of nostalgia and illustrates how these contribute to the analysis of memory. Nostalgia is not viewed as an emotional state, but as a way of shaping historical consciousness. Taking account of various historic cases, such as Ostalgia, Jugostalgia and Nostalgeria, this paper assumes that nostalgia is an ambivalent attitude of memory. It is a defence mechanism of identity perpetration, that rises to the surface when a trauma shakes individual or collective life. Moreover it is an important weapon in the debate over which memories are politically relevant. Nostalgia also possesses critical potential and can generate action. In this work the main idea is that the desire to return to the past can become a source of new opportunities and a different way of seeing and thinking about the future.

Introduzione

Una gran parte dell’interesse che l’individuo e la società hanno per il passato è connotata da una tonalità emotiva ed evocativa che si può ricondurre alla nostalgia[1]. Si tratta di una modalità di rammemorazione dolceamara che può riguardare sia le tappe della vita individuale, il tempo e lo spazio in cui si è vissuti e da cui ci si è allontanati, sia le origini della società, le sue credenze, i suoi fondamenti.

Nel suo duplice senso di rimpianto e di desiderio, la nostalgia è un fenomeno pluridimensionale che fonde dimensioni soggettive e oggettive, cultura ed emozione. Parte degli oggetti, delle pratiche commemorative e delle narrazioni che ci circondano ne è intrisa o vi può rimandare. Anche in funzione di questo sentimento individui e società si legano al loro passato o, piuttosto, ad una certa rappresentazione del loro passato che, con la forza di un’intensa emozione, può arrivare a dar forma alle identità[2].

Studiata generalmente come conseguenza di una condizione individuale e sociale di irreversibile lontananza da un luogo e da un’epoca, in questo saggio la nostalgia interessa per il rapporto che ha con la memoria collettiva (cfr. Atia e Davies 2010)[3]. Si intende, pertanto, indagare questa attitudine nell’ambito di quel processo di conoscenza e riappropriazione di ciò da cui ci si è allontanati che individui e gruppi compiono per assorbire il cambiamento e garantire la propria continuità e che è parte dei modi in cui una società rielabora e trasmette la sua storia. In tale rapporto, il passato non rileva come contenuto ma come orizzonte di uno sguardo, come oggetto di un atteggiamento, l’atteggiamento nostalgico[4]. Questo atteggiamento consiste in un desiderio per ciò che è lontano che può avere diversi esiti. Svetlana Boym (2002) ne indica due: la rielaborazione e/o l’idealizzazione (cfr. anche Petri 2010). Ma qui se ne indicheranno anche altri. A partire dal rapporto tra memoria e nostalgia messo a fuoco da Maurice Halbwachs e accennando allo scenario storico-sociale in cui la nostalgia e la sua elaborazione si sono sviluppate, il saggio si focalizza sulle ambivalenze della nostalgia, proponendo una rilettura di tipo sociologico di questa attitudine individuale e collettiva. Sullo sfondo del discorso, c’è un aspetto essenziale e in un certo senso paradossale:

La nostalgia è una malinconia umana resa possibile dalla coscienza, che è coscienza di qualcosa d’altro, coscienza di un altrove, coscienza di un contrasto tra passato e presente, tra presente e futuro. Questa coscienza scrupolosa è l’inquietudine del nostalgico. Egli è contemporaneamente qui e là, né qui né là […] multipresente o da nessuna parte […]. Il nostalgico è come un sonnambulo quaggiù. E i luoghi lontani dell’assenza divengono per il nostalgico teatro di una seconda vita. […] Questo altrove immaginato, immaginario, non è un alibi qualsiasi; l’altrove della nostalgia è […] una ex presenza, un luogo privilegiato caro al nostro cuore […]. Bandito da tutti i luoghi in cui non è, a parte quello in cui si trova [il nostalgico] ha almeno la facoltà di immaginare (Jankélévitch 1974, pp. 126 e ss.).

Nella nostalgia, come mostra Vladimir Jankélévitch, è implicito il riferimento ad un altrove (o ad un altrimenti) del passato, e da ritrovare nel futuro. Ma quest’altrove è impossibile da raggiungere nella sua identità. La nostalgia può essere pensata come un rammarico per questa impossibilità e come tensione a immaginare l’altrove «con l’aiuto di tracce rimandanti all’esperienza» di ciò che è stato (cfr. Petri 2011b, pp. 36 e ss.; Petri 2011a, p. 256). Per pervenire a ciò che è prossimo e distante al tempo stesso, non c’è altra via che contare su un’immagine, un racconto, il cui senso è approdare ad una forma che colmi il rammarico. Ma racconti e immagini sono costellati dalla presenza di altri, persone, comunità, paesaggi, momenti, discorsi che abbiamo attraversato. In una parola, dalla memoria collettiva. Sicchè, affidandosi ad essa, come il naufrago al porto, la nostalgia riesce a trovare un’ancora per ciò che sarebbe perduto, inafferrabile, e a riconnettere l’altrove al proprio nucleo, l’attesa all’esperienza. In questo modo, la nostalgia costituisce una modalità per reagire all’irreversibilità del tempo.

1. Per una sociologia della nostalgia: una riflessione a partire da Halbwachs

Il termine nostalgia nasce in ambito medico, alla fine del Seicento, con l’intento di trovare una nuova parola, rispetto ad Heimweh, per definire una malattia specifica, la malattia dell’esule, caratterizzata dallo struggimento per la lontananza dal paese natio[5]. Da questo momento, la nostalgia viene considerata un sentimento di perdita di un altrove e del suo tempo, ovvero di un’epoca d’oro e dei suoi luoghi, a cui può porre rimedio solo il ritorno. Ciò che la caratterizza, secondo quanto scrive la Boym nel saggio dal titolo molto suggestivo Ipocondria del cuore: nostalgia, storia e memoria, è una nota malinconica che non può mai svanire del tutto ed è data dalla consapevolezza di avere una ferita sempre aperta, più o meno dolorosa.

Per quanto connessa, fin dal momento della sua prima formulazione, ad un’idea di dolore patologico generato dallo sradicamento, dall’esilio o da tutto ciò che allontana l’individuo dalla sua casa, si è presto compreso che la nostalgia non riguarda solamente i sentimenti provati da alcuni individui malati. Riflettendo sui casi di sofferenza dovuti all’emigrazione, ai cambiamenti di paesi, regioni, città o a casi di patimento per la separazione dalla propria famiglia, ci si è resi conto che la nostalgia può toccare, in un momento o l’altro della vita, tutti gli individui. Se, fin dalla sua formulazione originaria, la nostalgia è stata pensata in relazione al distacco e all’allontanamento, la Boym ha sottolineato che

forse, ciò di cui si sente maggiormente la mancanza durante l’esilio e le catastrofi storiche non sono tanto il passato e la madrepatria, quanto questo spazio potenziale dell’esperienza culturale che si è condiviso con i propri amici e compatrioti (2002, p. 65).

Halbwachs, ne I quadri sociali della memoria, affrontando la questione del processo ricostruttivo del passato ed offrendo un contributo sociologico alla riflessione sul rapporto tra memoria e nostalgia, ha scritto:

Con la riserva di qualche eccezione, noi possiamo dire che la grande maggioranza degli uomini è sensibile, in momenti più o meno frequenti, a ciò che si potrebbe chiamare la nostalgia del passato (1925, p. 86).

Ed ha aggiunto:

Anche se vi sono dei periodi della nostra esistenza di cui faremo volentieri a meno, anche se non siamo sicuri di voler ricominciare la nostra esistenza allo stesso modo, per una sorta di miraggio retrospettivo, un gran numero di noi si persuadono che il mondo, oggi, è più incolore, meno interessante di un tempo, in particolare della nostra infanzia e giovinezza. Quasi tutti i grandi scrittori che hanno descritto le impressioni dei loro primi quindici o venti anni parlano […] con tenerezza. Tutti loro hanno avuto un’infanzia poco felice […]. Ve ne sono che parlano dei loro genitori con un’ostilità e un odio non mascherato. [….] In generale, però, e malgrado i rimproveri, i dispiaceri e le rivolte tenaci, malgrado ciò che nei racconti ci rattrista, ci indigna, o ci terrifica, sembra che l’effetto che tutto questo produce debba essere singolarmente attenuato a causa dell’atmosfera più vivificante che si respirava allora. Sugli aspetti più oscuri dell’esistenza sembra vengano trascinate delle nuvole che coprono solo a metà. Si ricorda quindi di aver sofferto ma questo mondo lontano sembra esercitare un’attrazione incomprensibile per chi vi è passato e sembra avervi lasciato, e ricercare ora, la migliore parte di se stesso [...]. Da dove viene quindi questa apparenza illusoria? […] la nostalgia del passato riposa in effetti su di una illusione, che è opera della memoria o più esattamente dell’immaginazione (ivi, pp. 85-86).

Per concludere con una domanda:

Gli aspetti più penosi della società di una volta sono dimenticati, perché gli obblighi non sono sentiti se non quando si esercitano e per definizione un obbligo passato ha cessato di esercitarsi. Noi crediamo che la mente ricostruisca questi ricordi sotto la pressione della società. Non è strano che questa li porti a trasfigurare il passato fino ad averne nostalgia? (ibidem).

Nel quadro che noi ricostruiamo del passato, nei discorsi che ne facciamo, nel processo consustanziale all’elaborazione della memoria collettiva, «i tratti spiacevoli sono cancellati o attenuati» (Halbwachs 1925, p. 112). E in questo modo si genera quel fenomeno di abbellimento del passato che costituisce una tappa necessaria, un aspetto tipico della nostalgia.

In tale fenomeno gli avvenimenti del passato lontano possono essere connotati molto positivamente: quando lo spirito si distacca dalle sensazioni del momento, allora lo spirito si riempie, si gonfia, dice Halbwachs, di avvenimenti del passato positivamente connotati. Difficilmente, in effetti, la società, nel momento presente, ci racconta e ci rivela i suoi aspetti più attraenti: è nel lungo periodo, attraverso la riflessione ed il giudizio, che si modifica la nostra impressione. «Scopriamo che gli uomini ci amavano, nello stesso tempo in cui ci contrariavano» (Halbwachs 1925, p. 89).

Anche Jankélévitch, più recentemente, ha sottolineato questo punto:

Il presente non ha fascino, il presente non ha bisogno che si torni a lui; esso è già là, a portata di mano, è l’universo ambientale, il mondo della prassi, è l’attualità e la banalità quotidiane […] Ma il passato, il passato bisogna ravvivarlo, richiamarlo a se stessi nel movimento dei ricordi o tornare a lui, evocarlo. E non solamente domanda di essere cercato, ma di essere ancora completato [...] e innanzitutto decifrato (1974, p. 302).

Vi è in questa frase, a dire il vero, qualcosa di più di quello che Halbwachs notava: l’idea che il passato possa chiedere di «essere completato». Vi ritornerò alla fine del discorso. Per ora, non si può tralasciare di dire, citando ancora una volta Halbwachs, che

se l’orizzonte di un uomo si limitasse all’insieme dei suoi contemporanei, e se si conformasse ai suoi costumi, ai suoi gusti, pur inchinandosi alle regole sociali, finirebbe col subirle come una dura e continua necessità. Non vedendo cioè nella società che uno strumento di costrizione, questi non avrebbe nessuno slancio spontaneo e generoso nei suoi confronti. Non c’è nulla di male dunque se, quando si riposa e si volta indietro, come fa un viaggiatore per riconoscere il cammino fatto, egli scopre tutto ciò che la fatica, lo sforzo, la polvere sollevata e il pensiero di arrivare in tempo e alla fine gli aveva impedito di contemplare (1925, p. 89).

Ma l’immagine del passato che si impone allo spirito con il desiderio di ritorno - un desiderio in parte allucinatorio (Freud 1917) - è ben strana: il passato al quale la nostra immaginazione ci dà accesso ci appare oggi più piacevole di quel che ci appariva allora.

Così, epoche compiute da un pezzo riescono ad esercitare una grande attrazione, spesso enigmatica, sull’immaginazione umana. E di questa attrazione si sono occupate diverse scienze, dalla psicologia, alla filosofia, alla sociologia[6]. Secondo Sigmund Freud (1937-39), ogni volta che gli individui non sono soddisfatti del loro presente - ed è frequente il caso - essi ritornano verso il passato e sperano di poter rincontrare come vero il sogno mai cancellato di un’età d’oro. Henri Bergson (1939), a sua volta, ha sottolineato che questa modalità di guardare al passato, più che con un’insoddisfazione tende ad intrecciarsi con un atteggiamento di disinteresse per l’azione presente. D’altra parte, Halbwachs ha evidenziato che, in realtà, essa ha a che fare con una sorta di declino in cui incorre la vita: il nostro spirito, nel momento in cui non è più teso verso la realizzazione del presente, «si lascia andare seguendo la china che lo porta ai suoi primi giorni» (Halbwachs 1925, p. 83). Si potrebbe dire che un atteggiamento di questo tipo sia quello dell’anziano, quando, stanco d’agire, volge le spalle al presente e si trova nelle condizioni più favorevoli perché gli eventi del passato tornino alla sua memoria (ivi, p. 85). Tuttavia, anche l’adulto, volgendosi al passato per distrarsi dalle sue preoccupazioni abituali, è un potenziale nostalgico. Per Halbwachs, «l’insieme degli uomini (in modo certamente diverso e secondo l’età, il temperamento, e via dicendo) adotta istintivamente, di fronte al tempo passato, l’atteggiamento dei grandi filosofi greci che mettevano l’età dell’oro non alla fine del mondo ma al suo inizio» (ibidem).

Legato a ciò è un particolare aspetto della nostalgia dato dal fatto che pensare agli avvenimenti passati ritorna a riflettersi sul finito, su qualcosa su cui noi non possiamo più agire. E questo sta anche significare che l’oggetto del ricordo porta la marca indelebile della perdita (Ricoeur 1998; Laurens 2002). Il mondo perduto, per dirlo con Freud (1917), viene mantenuto, allora, contro la realtà, come da un’illusione. E al fondo della nostalgia non c’è propriamente un’esperienza concreta, ma un’esperienza evocata, caratterizzata soprattutto dalla presenza, nella vita attuale di ognuno, di immagini, suoni e profumi legati al passato, ovvero da tutto ciò che rimanda all’esperienza, non l’esperienza in sé.

Paradigmatico è che l’oggetto per eccellenza del rimpianto sia l’infanzia. Tanto che anche la letteratura scientifica sulla nostalgia, potremmo dire a partire da Immannuel Kant, comincia a mettere al centro dell’atteggiamento nostalgico dell’individuo verso il passato non più il turbamento per un luogo ma le figure parentali e gli stadi iniziali dello sviluppo personale. Ha scritto Kant a proposito dell’irreversibilità e del patimento per l’infanzia perduta:

Gli svizzeri (e gli abitanti di certe regioni della Vestfalia e della Pomerania, come mi è stato raccontato da un generale che ne aveva esperienza) sono colti da una grande nostalgia per il loro paese quando sono costretti a vivere in altri; essa è prodotta dal ritorno delle immagini della spensieratezza e delle liete compagnie della giovinezza, che li spingono verso i luoghi in cui godettero le gioie semplici della vita. Se però fanno ritorno in quei luoghi, ne restano delusi e quindi guariti: credono che ciò dipenda dal fatto che in quei luoghi tutto è cambiato, ma in realtà è perché non vi ritrovano più la loro giovinezza. È interessante osservare che questo male […non] colpisce gli uomini di affari il cui motto è patria ubi bene (1798, p. 67).

Anche Freud, quando sviluppa il suo concetto di ricordo come ri-conoscimento e quando, nel suo approccio alla nevrosi, parla della regressione, non fa in realtà altro che riprendere l’idea del ritorno all’infanzia (cfr. Laurens 2002).

Il medico e letterato, nonché storico della nostalgia, Jean Starobinski (1966) ha sottolineato a sua volta che, ad un certo punto della sua parabola, e più precisamente nel XX secolo, la nostalgia è stata privatizzata e interiorizzata, al punto che il rimpianto di casa si è tradotto nel rimpianto per la propria infanzia[7].

L’infanzia, a pensarci però attentamente, è un periodo di sacrifici, di sottomissioni, di divieti. Ciò nonostante, è ricordata come un’epoca d’oro, probabilmente poiché il tempo vi scorre in un modo diverso, e vi si dispiegano figure che conferiscono al mondo una connotazione magica e meravigliosamente malinconica.

Verosimilmente, il fascino dell’infanzia e lo struggimento che si lega alla consapevolezza della sua perdita hanno a che fare con le promesse che quel periodo della vita portava con sé e con il futuro allora immaginato. La nostalgia riguarda, in effetti, anche ciò che non si è realizzato, le promesse mancate, le felicità incompiute. Per questo, essa ha la funzione di avvicinare all’orizzonte di possibilità del presente le occasioni perdute. Mostrando e insieme riconoscendo che l’oggetto del desiderio è lontano, la nostalgia costruisce con quest’ultimo una vicinanza e stabilisce un legame con ciò che è perduto. In questo modo, per suo tramite, si raggiungono due scopi: da un lato il presente non comprende l’oggetto desiderato, ma dall’altro l’oggetto desiderato è conservato presso di sé nell’immaginazione (Jedlowski 2011).

Per altri versi, come scrive Starobinski,

ai giorni nostri, con l’accentuarsi dell’imperativo di adattamento sociale, la nostalgia non designa più una patria perduta, ma risale verso quegli stadi in cui il desiderio non doveva tener conto dell’ostacolo esterno e non era condannato a differire il proprio appagamento. Per l’uomo civilizzato che non ha più radici, il problema è dato dal conflitto tra le esigenze dell’integrazione nel mondo adulto e la tentazione di conservare i privilegi della situazione infantile. La letteratura dell’esilio, più abbondante che mai, è, nella stragrande maggioranza, una letteratura dell’infanzia perduta (1966, pp. 116-117).

Guardando la questione da un’altra angolatura, in un saggio sulla nostalgia odierna del comunismo nell’Europa dell’Est, una scrittrice rumena, Simona Popescu (2010), paragona proprio alla tensione nostalgica verso l’infanzia la tensione nostalgica verso il periodo del comunismo.

Sebbene la nostalgia riguardi la capacità di ricordare, sostiene la scrittrice, la nostalgia del comunismo sembra piuttosto legata all’oblio: più grande è l’amnesia (dell’esperienza vissuta) più aumenta la nostalgia. A partire dalle considerazioni sul comunismo, la Popescu invita a considerare la questione della nostalgia non come qualcosa che riguarda un tempo, o un luogo, ma come qualcosa che riguarda la vita. Per i paesi ex comunisti, il rapporto col passato si lega a ciò con cui ci si è identificati, o con cui ci si identifica, riguarda la capacità di adeguarsi al presente, ma anche una visione del proprio futuro.

D’altro canto, secondo Huffer (2006), all’idea della giovinezza come età d’oro e d’innocenza fa riferimento Jaques Derrida (1996) quando, nella rielaborazione della sua nostalgerie, sviluppa una sottile polemica verso la tendenza francese a considerare la storia coloniale come l’esito di un’esperienza giovanile. Risiederebbe in ciò l’attitudine della Francia a mitigare la duplice vergogna per la violenza esercitata e per la difficoltà a ricordarla pubblicamente. Con la conseguenza di un indebolimento della propria responsabilità e il rischio di un terreno fertile per la nostalgia del passato coloniale.

Come le storie individuali sono sovente abbellite, stiracchiate, per lo più reinventate, così le storie collettive si prestano, a fini politici e ideologici, ad essere manipolate e aggraziate a loro volta (Ricoeur 1996; Schnapp 1996). Esse contribuiscono ad elaborare vere immagini-schermo. Con la costruzione di un certo tipo di atteggiamento nostalgico, il passato e le origini vengono recuperati e in certi termini rielaborati. E questo atteggiamento diviene una forza che va al di là dell’evocazione, capace di diventare un elemento delle rappresentazioni del passato che, con la forza di un’emozione, oggettivizza la società in un ideale. Se le «costruzioni ideali» e, per molti versi, le celebrazioni nostalgiche di un passato mitico dell’infanzia e della nazione hanno spesso condotto a capolavori della letteratura, della pittura, della musica, è anche accaduto che gruppi o nazioni si siano illusi per la volontà di far rinascere questo ideale, per la volontà di rincuorarlo. E che, talmente affascinati, si siano smarriti in questo ritorno (Rauchs 1999).

Vi sono tuttavia altre tensioni nel concetto di nostalgerie di Derrida, e nella nostalgia in senso lato, che non possono essere ricondotte essenzialmente a processi di abbellimento del passato[8]. Nel testo Monolinguisme de l’autre, riattraversando la propria esperienza con la lingua dell’altro e il proprio rapporto ambivalente con la Francia e l’Algeria, Derrida indaga i nessi tra identità e smarrimento, tra desideri, mancanze e perdite, tra estraneità, assimilazione e indipendenza che si intrecciano con la nostalgia.

La lingua, con Derrida (1996), si fa dimora di un’esperienza singolare che strappa a se stessi ed espone all’altro, allo straniero, all’infinito[9]. Al contempo è la condizione di un’amnesia, cui, dice Derrida, «non ho mai avuto la forza, il coraggio, i mezzi per resistere […] Non potevamo nemmeno ricorrere a qualche sostituto familiare, a qualche idioma interno alla comunità […] a una sorta di lingua rifugio» (ivi, p. 64-65). La lingua è oggetto della nostalgia. Lo è la lingua rifugio, che rappresenta una possibilità di liberazione dalla lingua del colonizzatore ma che è stata interdetta fin dall’origine. Lo è la lingua imposta, la lingua della Città-Madre-Patria-Capitale, qualcosa di desiderato, ma mai posseduto, e da cui si vuole essere indipendenti. Essa è situata in «un paese vicino ma lontano, non straniero ma estraneo, fantastico e fantasmatico. Un paese da sogno ad una distanza inoggettivabile» (ivi, p. 50). La lingua imposta è come un modello, il modello di un parlare bene cui si aspira, ma è anche ciò che domina la propria essenza. In più, tra il cosiddetto modello e la lingua parlata c’è il mare. Essa è, dunque, ciò che separa dalla lingua d’origine, ma da cui si è, altresì, separati e che lo stesso padrone, in Algeria, non possiede, se non per averla imposta[10]. Ma, sottolinea Derrida, vi è un elemento ulteriore. La lingua è anche altra in sé, dotata delle sue leggi e di una sua unicità, elemento universalizzante. Noi non possiamo possederla, se non come dono, se non reinventandola. Ed è questo che sta al cuore della nostalgerie e, per estensione, della nostalgia.

La lingua è la metafora di una dimora irraggiungibile, dell’altrove. Si desidera interiorizzarla e rielaborarla, per sottrarsi al suo dominio e riconnettersi alla propria essenza, ma ciò implica una sua alter-azione e un’alter-azione della propria identità. Nel rapporto nostalgico con l’altrove è insita l’oscillazione tra la tensione a tutelare il modello - ovvero il passato disponibile e la propria integrazione - e la possibilità di rinominarlo e reinventarlo, di allontanarsi da esso per ritornarvi in libertà. Non può che essere un a partire, non può che essere un a venire (ivi, p. 83).

2. Le ambivalenze della nostalgia

La nostalgia, si è detto, è un elemento potente nella costruzione della memoria del passato. Essa investe i tempi, gli spazi e le lingue che individui e gruppi abitano nel tempo, che sono i quadri stessi della memoria.

Ma il rapporto tra memoria e nostalgia è più complesso. Ad una prima osservazione, le due sembrano viaggiare su binari paralleli: la memoria volta a ricostruire, nella coscienza, la durata tra passato, presente e futuro, e la nostalgia tesa a colmare, nella coscienza, la sofferta separatezza tra passato, presente e futuro attraverso un tentativo di ri-utilizzo.

Ma non è esattamente di linee parallele che si può parlare. Se l’una è quell’atteggiamento dell’altra attraverso cui prende forma una rappresentazione emotivamente connotata del passato, inevitabilmente esse costituiscono elementi coessenziali di uno stesso processo.

Ed è proprio nell’intreccio tra nostalgia e memoria che si gioca il problema del senso del tempo e della Storia, e dunque quello delle funzioni della nostalgia.

Volta alla continua ricerca di un tempo perduto e di un futuro che non si può pensare se non come un ritorno, la nostalgia risulta come uno struggente tentativo di risarcire l’animo e le collettività di fronte alle insufficienze del presente. Il differimento spazio-temporale pesa per la nostalgia come una perdita, cui solo può porre rimedio il ritorno di qualcosa che si vorrebbe non fosse mai passato e che ora non passi mai più (Petri 2011b).

Ma si può pensare di ri-proporre ogni passato come un’epoca d’oro? Si può rievocare l’Ottocento, ad esempio, tralasciando il concatenamento col nazismo?

Questo sembrerebbe possibile solo nella misura in cui il passato risulti come un prelievo, una creazione contemporanea che non ha nulla a che fare con la Storia, sia essa una storia personale, familiare o nazionale. In questo senso la nostalgia coincide con un processo di abbellimento, ovvero con quell’atteggiamento della memoria che la mette al riparo, quasi il suo sistema immunitario, una sorta di cura, che sterilizza il passato e neutralizza il peso della rielaborazione, consentendo la continuità stessa della vita.

In questa direzione, in una recente conferenza Avishai Margalit ha sostenuto che la nostalgia

può distorcere la realtà in modo moralmente sgradevole. È vero che esistono forme blande di distorsione causate dalla nostalgia. Da questo punto di vista, distorcere la realtà, ritoccando una fotografia da cui si tolgono le rughe della persona ritratta è una forma blanda di distorisione: è un modo innocuo per far apparire qualcuno un pò più giovane. Tuttavia esistono forme gravi di distorsione causata dalla nostalgia, in cui non si tratta di togliere delle rughe, ma di rimuovere il marcio di un mondo tramontato. Si pensi alla cosiddetta «Ostalgia» nella Germania contemporanea, ovvero la nostalgia per la vita nell’ex Germania dell’Est, una vita percepita come semplice e innocente se paragonata a quella minacciata dal capitalismo commerciale; nella Ostalgia, il marcio della stasi e il marciume dei compagni, Der Genossen, vengono rimossi: tutto ciò che rimane è la sensazione di purezza propria di una comunità coesa (2009, pp. 10-11).

La tesi di Margalit è che una nostalgia di questo tipo, che distorce la realtà del passato, idealizza i propri oggetti e li colloca in un tempo di grande purezza, avvolgendoli di sacralità. Quando i ricordi idealizzati di qualcuno si connettono ai ricordi di altri la nostalgia diviene una memoria vicaria. Un esempio per Margalit è rintracciabile nel conflitto tra Israele e la Palestina, sature di nostalgie vicarie e memorie indirette.

Vi è, però, anche un altro esito della nostalgia, che si può definire di tipo traumatico e che si genera quando l’alchimia nostalgica impedisce di sciogliere i nodi di un passato doloroso, bloccandone il superamento. In un processo differente dalla rielaborazione, ma anche dall’idealizzazione, la nostalgia può fare da catalizzatore del trauma, con il rischio che si generino fenomeni di rancore e risentimento, di aggressività e finanche di vendetta (Margalit 2009, p. 9)[11].

Malgrado i diversi rischi, di idealizzazione o di traumatizzazione del passato, malgrado la possibilità di una rimozione del «marciume» che può porsi come un problema etico, la nostalgia sembra di fatto inevitabile ed a tratti anche essenziale nella storia e nella vita collettiva. Rolf Petri, occupandosi di casi storici come quello recente della Jugoslavia, o come quello delle comunità dalmatiche e della repubblica di Venezia, ha sottolineato che nei pressi di una rottura tanto profonda per le collettività da cambiare la loro vita quotidiana, il ricordo del passato non può non essere caratterizzato dalla nostalgia, poichè essa è necessaria all’elaborazione luttuosa dei passaggi politici nonché alle mobilitazioni sociali che tentano di rispondere alla brama di un Altrove utopico (Petri 2011a; 2011b). Persino chi nelle precedenti condizioni ha sofferto e nelle attuali ha migliorato la propria condizione può sviluppare nostalgia, perché sovvertendo

l’esperienza reale e il racconto pubblico di ciò che Noi siamo ed eravamo vengono sovvertiti anche l’esperienza personale e il racconto biografico del chi sono e chi ero. In questa fase i sentimenti nostalgici, oltre a essere leva di proteste politiche contro i cambiamenti, svolgono principalmente una funzione di rifugio terapeutico permettendo, nel rammarico, di seppellire il passato. Si accarezza per un periodo il ricordo per fare la pace con ciò che si era stati anziché denigrarsi (Petri 2012).

In questo modo, la nostalgia costituisce un bagaglio per affrontare anche il presente e il futuro.

Già Halbwachs lo aveva evidenziato:

Ci sono sentimenti tristi e altri dolci e gioiosi. Ci è utile dunque accrescere e nutrire i secondi e ridurre e dissipare i primi. È per questo che noi abbiamo preso l’abitudine, tutte le volte che ci troviamo in una situazione, a scegliere nella nostra memoria le immagini che le sono conformi e di non ritenere di queste immagini se non ciò che consideriamo gradevole […]. Vi sono anche delle fantasie tristi che ci appaiono quando un sentimento penoso ci conduce ad evocare dei ricordi che lo consolidano. Ma riusciamo spesso a distrarne il nostro pensiero, per una sorta di istinto vitale che mette da parte tutto ciò che diminuisce o assorbe inutilmente le nostre forze. Si spiegherebbe così il fatto che noi dimentichiamo gli aspetti penosi del passato (1925, p. 87).

E contemporaneamente aveva sottolineato:

Gli uomini che non chiedessero alla memoria che di illuminare le loro azioni immediate e per i quali il piacere puro e semplice di rievocare il passato non esistesse [...] non avrebbero alcun senso della continuità sociale. Ed è per questo che la società ogni tanto obbliga gli uomini, non solo a riprodurre nel pensiero gli eventi passati della loro vita, ma anche a ritoccarli, a toglierne qualcosa, a completarli in modo che, convinti che i nostri ricordi siano esatti, gli attribuiamo un prestigio che la realtà non possedeva (1925, p. 91).

In questo senso, la nostalgia può essere compresa esattamente guardando alla funzione che svolge per la memoria: è indispensabile alla gestione dell’identità e delle sue discontinuità. Le paure e i disagi del presente, attraverso la nostalgia, vengono bilanciate dal richiamo ad un sé precedente, collettivo e individuale, più affascinante di quello presente. Tanto che il passato, desiderato e ritoccato, pur non corrispondendo in nulla alla nostra storia, ha forti ricadute su di essa. Per molti versi, perché si possa considerarla tale, alla nostalgia non basta il rimpianto di essersi allontanati da un passato o da una terra, ma che quel rimpianto sia parte dell’identità.

La nostalgia è, dunque, un viaggio attraverso la memoria. È un viaggio di andata e ritorno da un momento del passato che, se per un verso è perduto, per l’altro può anche essere considerato, con la consapevolezza di oggi, come ciò che portava con sé le premesse di una storia diversa. Non è necessario, per la nostalgia, che la storia passata sia stata particolarmente gloriosa, o felice. Spesso, anzi, è stata amara e l’epilogo è stato un declino. Ma riandare ad essa è la meta del nostalgico che brama di ri-avere una possibilità. La nostalgia riguarda dunque un desiderio, ma non esattamente il desiderio che qualcosa ritorni, quanto piuttosto di ritornare a qualcosa, fin dall’inizio, di ri-trovarsi nel punto in cui una certa esperienza stava cominciando. È il desiderio di riavviare il tempo, lo start, le premesse, e le promesse, ma anche le alternative.

La nostalgia è a volte nostalgia di una sliding door. In questo senso ha i tratti di un sogno, quello di cambiare il destino ma, in quanto costituisce un ri-andare verso, è anche una possibilità per ri-valutare ciò che è stato, per prendere coscienza di come sono andate le cose. In questa sua duplice veste, la nostalgia si lega al futuro, in parte perché va a colmare la paura dell’inesorabilità del tempo, in parte perché aiuta ad immaginare un futuro diverso per un certo passato.

Il rammarico per l’impossibilità di ritornare ad un passato nella sua identità con sé stesso, per il fatto di non poter mai davvero ricominciare, può tradursi d’altro canto nello spazio pubblico, come nelle esperienze private, in nostalgia per un altrove idealizzato. La nostalgia diventa, così, una trama potente per legare la dimensione politica e psicologica dell’essere (Petri 2012). E tende a rafforzarsi maggiormente nei periodi di crisi, quando si percepisce la mancanza di possibilità future o si intuisce di non poter concepire un futuro ideale diverso dal futuro reale. Ma proprio in ciò sta l’ambivalenza della nostalgia e, peraltro, la sua carica propulsiva.

Se la nostalgia è come l’atteggiamento che aiuta a coltivare l’apprezzamento per come eravamo e che per farlo va a schermare nella memoria ciò che risulta più spiacevole e vergognoso per l’identità, essa si concretizza nel desiderio che il passato possa tornare, come un sogno, in un’immagine, in un oggetto, attraverso una moda, come un ideale. Ma in questo modo porta con sé un duplice rischio: da un lato quello di fare da velo a ciò che nella memoria è più spiacevole e difficile, bloccandone l’elaborazione, dall’altro che il suo uso pubblico abbia proprio la costruzione di questo velo come scopo principale.

Ma se, d’altro canto, della nostalgia si coglie il suo essere un processo di apprendimento attraverso il quale un certo momento del passato viene riconsiderato come recante in sé la possibilità di un’altra storia, la nostalgia può aiutare a riscoprire, anche in senso critico, i versanti inespressi della nostra condizione. Riscattando alcune potenzialità del passato, può aiutare ad immaginare un futuro diverso da quello che tale passato è stato capace di realizzare.

Per questa via, la nostalgia si può configurare non come ciò che va a neutralizzare la storia, ma come un atteggiamento capace di reinterrogare i legami tra passato e presente e di farsene carico, in seno alla memoria, arrivando a sprigionare dinamiche di rinnovamento. Il senso della ricerca di un passato alternativo, sta nel fatto che «l’esplorazione delle esclusioni e delle macchie bianche sulla mappa del passato assume il sapore di una ricerca fortemente orientata verso il futuro» (Liakos 2011, p. 70).

A fianco o in alternativa alle lotte per la definizione dell’identità dei gruppi e delle società, delle battaglie ideologiche per la lettura e la costruzione del passato, si ha così la produzione di un’emozione che non mira solo a recuperare in forma abbellita ciò che è stato per risarcire lo struggimento per l’impossibilità di vivere il presente o di fermare il tempo sfuggente, per colmare il desiderio di qualcosa che si vorrebbe ricominci ora e non finisca mai più. I marcatori nostalgici che partecipano alla ricostruzione del passato possono sfidare le certezze stesse del presente e contribuire a rimettere in gioco l’avvenire. Il ricordo delle origini va a costituire una sorta di disposizione, una preparazione alla percezione di sé e all’azione. In questo senso la nostalgia può generare azione, riguardando non «una terra promessa proiettata nel futuro», ma «la capacità di riscattare il passato, e con esso gli antenati schiavizzati […] schiacciati sotto i carri di trionfo del vincitore» (Marramao 2011, p. 263).

Oltre che desiderio di qualcosa che si è avuto e perso e con cui si deve, o si vuole, fare i conti, la nostalgia può così riguardare anche ciò che non si è conosciuto, un altrove o un altrimenti di cui si è intravista solo la possibilità. In questo modo può «essere fonte di progetti di azione che non hanno il senso di una “restaurazione”, ma quello di una discontinuità rispetto a come la storia si è fin qui realizzata» (Jedlowski 2011, p. 258).

3. Una magica macchina del tempo

Si possono interpretare come paradigmatiche del discorso svolto fino a questo punto le esperienze dei personaggi di Midnight in Paris, il recentissimo film di Woody Allen sulla nostalgia[12]. Si tratta di due vicende individuali attraverso le quali si mette in rilievo come la storia dell’Io si intrecci alla storia del Noi e come la nostalgia possa dare esito a vari modi di destreggiarsi tra passato, presente e futuro.

Il primo personaggio è Gil, un giovane scrittore, che attraversa un periodo di crisi esistenziale e lavorativa e che ogni notte va e viene, attraverso una magica macchina del tempo, dalla Parigi di oggi, dove si trova in viaggio con la fidanzata, alla Parigi degli anni venti, la sua immaginaria età d’oro, dove incontra i suoi mitici riferimenti artistici e letterari, Hemingway, Dalì, Fitzgerald, Buñuel, Gertrude Stein, Picasso. Da questi incontri, dal suo sprofondare nel passato e nel riconoscimento dei suoi desideri, Gil riesce a tornare al presente, per cambiarlo radicalmente.

L’altro personaggio è Adriana, una giovane donna che vive negli anni Venti, che il protagonista incontra nei suoi viaggi notturni e di cui si invaghisce. Questa ha nel cuore lo struggimento per un altro passato: quello della Belle Epoque. Adriana, secondo la quale è quest’ultima la vera età dell’oro, a differenza di Gil, deciderà di non tornare mai più a vivere nel proprio tempo.

Tanto la Belle Epoque quanto gli anni Venti hanno avuto aspetti storici tragici. Ma non sembra essere questa consapevolezza ciò che spinge Gil a tornare al suo presente. È piuttosto l’idea che l’insoddisfazione in fondo è consustanziale alla vita, e che il ricordo del passato è soprattutto ricordo dell’aspirazione alla felicità.

In questo film l’altrove rappresenta una possibilità di straniamento. Cioè un ambito da cui si possono guardare le proprie esperienze più solite in un’altra luce, come insolite appunto, attraverso il prisma della messa in discussione, con ironia, esattamente come riesce a fare Gil, esattamente nel registro narrativo che è tipico di Woody Allen. Da questo punto di vista, la nostra stessa vita attuale può diventare il terreno di una reinvenzione.

In un saggio recente, Svetlana Boym (2010) sottolinea che lo straniamento (ostraneniye) è parte della nostalgia. Esso può essere da e per il mondo: il primo modo riconduce all’introspezione, il secondo porta ad un riconoscimento della pluralità delle opzioni, anche di quelle inattese e inespresse.

Sulla scia di una tensione tra ironia e ripensamento, in Ipocondria del cuore la Boym distingue la nostalgia in due tipi, di cui gli stessi protagonisti del film di Woody Allen, Gil e Adriana, sono in parte una testimonianza.

Uno è la nostalgia riflessiva, attraverso cui la Boym mette l’accento sulla necessità di riflettere sul passaggio del tempo e sulla finitudine umana. Si tratta di un tipo di atteggiamento nostalgico che ha il culto della durata e coltiva la cultura del ricordo. Essa è una forma di meditazione che rielabora il dolore (il lutto, per la Boym), ponderando la sofferenza per il passato perduto. Nella sua tensione, contano le crepe e le imperfezioni del tempo e lo sguardo verso di essi è spesso ironico e dissacratore, volto a mostrare le fragilità della storia. Viceversa, l’altro tipo di nostalgia, che la Boym chiama restauratrice, contempla un ritorno allo stadio iniziale al fine di ri-stabilirlo. In questo caso il passato non è una durata ma una perfetta istantanea. Non deve mostrare alcun segno di decadenza ed essere riprodotto nella sua immagine originale. Ciò a cui porta la nostalgia restauratrice è il revival, cui si lega un apprezzamento elevato per i segni commemorativi, per gli oggetti e i simboli, per le cerimonie e le consacrazioni, per i monumenti. Lo stile di questo rapportarsi al passato somiglia alla trasformazione della storia in un mucchio di souvenir d’ottone lucido, che marcano gusti comuni e li replicano in una struttura pubblica.

Vi sono tuttavia altri esiti della nostalgia, che si aggiungono alla tipizzazione per certi versi dicotomica proposta dalla Boym. Uno è quello traumatico, cui ho già accennato. A mio parere vi é un altro aspetto della nostalgia che resta fuori dal modello della Boym, e che, invece il protagonista del film di Woody Allen ci consente di rintracciare. Si tratta di quell’aspetto evidenziato da Jankélévitch, secondo il quale, come ho riportato più sopra, il passato «non solamente domanda di essere cercato, ma di essere ancora completato e innanzitutto decifrato».

Questo conduce a pensare la nostalgia come un’attitudine che riesce a far emergere il lato incompiuto del passato. In tal senso la nostalgia può essere una forza della memoria che si muove oltre il bordo dell’amnesia e del passato disponibile, per riprendere Derrida, in direzione di una reinvenzione e che, piuttosto che semplificare, arricchisce la rielaborazione del passato. Si tratta del fatto che attraverso la lente nostalgica si può guardare al passato come momento carico di altre potenzialità, arrivando a incidere sul corso degli eventi. Fonte di questa possibilità sono almeno due elementi: da un lato la fiducia nel futuro come occasione di riscatto. Dall’altro la capacità di dissociarsi da come i fatti sono stati, per guardarli e ripensarli da una collocazione nuova.

Nella tensione tra il mai più e lo speriamo che torni, che costituisce lo spazio che la Boym circoscrive per la nostalgia, si apre la possibilità di riconsiderare tutte le esperienze che chiedono un senso e un compimento. Ciò diventa effettivamente possibile se, nel riposizionarsi rispetto al passato si considera quest’ultimo come una risorsa. La nostalgia diventa così nostalgia perché cominci, oggi, un’altra storia.

Il passato come rifugio o come immaginaria patria ideale, da questa prospettiva, può lasciare il posto al passato come premessa della nostra vita attuale e come promessa di una vita diversa: come punto a cui ritornare per una critica dell’esistente e da cui ripartire per appropriarsi delle potenzialità che la storia ha lasciato inespresse[13].

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1

La relazione affronta alcune questioni teoriche che sono alla base della ricerca dal titolo La memoria del Mezzogiorno tra miti nostalgici e utopie di riscatto, cofinanziata dalla Commissione Europea, dal FSE e dalla Regione Calabria. Una prima versione è stata presentata al seminario su «Gli usi politici della nostalgia» che la Facoltà di Scienze Politiche e il laboratorio OSSIDIANA dell’Università della Calabria hanno organizzato in occasione della Giornata della memoria del 2012. Ringrazio Paolo Jedlowski, Lorenzo Migliorati, Rolf Petri ed Antonella Salomoni che hanno contribuito allo sviluppo di questo lavoro, pur rimanendone io, ovviamente, la sola responsabile. Ringrazio inoltre Marie-Claire Lavabre, direttrice dell’Institut des Sciences sociales du Politique del CNRS dell’Università di Paris-Ouest/Nanterre la Défense, presso cui parte della ricerca si svolge.

2

La nostalgia attraversa questioni stimolanti per le scienze sociali, tanto che è oggetto di riflessione in molti ambiti: dalla teoria sociale (Stauth e Turner 1988) agli studi che riguardano le rappresentazioni storiche, culturali e letterarie del passato (Montherlant 1982; Lowental 1985), tra cui quelli sui media e in particolare sul cinema (Conesa 1970; Roüan 1992; Morreale 2010; Radstone 2007) e sugli heritage films (Higson 1996); dagli studi sui processi migratori e sulle nuove forme di cosmopolitismo (Boym 2001; Hage 2010; Hargreaves 2010) ai postcolonial studies ed agli studi sulle differenze (Siblot 1985; Huffer 1998; Cardinal 1994); da quelli più specifici sulla cultura nostalgica (Davis 1979) e sulle sue distorsioni (Kaplan 1987) al recente dibattito sul postmoderno e sulle sue relazioni col passato e la storia (Stauth e Turner 1988; Jameson 1991).

3

È dalla fine del XIX secolo che la nostalgia, non più intesa come questione essenzialmente clinica, viene pensata in termini di memoria. Per lo più, la svolta è avvenuta attraverso la letteratura. In Francia, per citare un caso, il primo ad usare il termine in un senso diverso da quello medico è stato Honoré De Balzac, ne La Comédie Humaine, che ha designato con nostalgia l’insieme di passioni, di tipo onirico, per oggetti impossibili, da quelli religiosi a quelli erotici (cfr. O’Sullivan 2010).

4

La scelta del termine atteggiamento non è casuale ed è legata proprio al rapporto tra nostalgia e memoria collettiva. Si può dire che la nostalgia sia un «atteggiamento» nella misura in cui la tonalità emotiva verso il passato pervade le rappresentazioni che una società, attraverso l’interazione collettiva, elabora e trasmette rispetto ad esso. Le rappresentazioni sociali investono i vari ambiti della società, da quello politico a quello culturale, e creano uno spazio di condivisione intorno alla conoscenza della realtà sociale (Farr e Moscovici 1989; Jodelet 1992). Esse sono configurazioni di parole e concetti che vengono incessantemente prodotti e trasmessi dall’uomo per interpretare e descrivere il mondo che lo circonda. Tali branche di conoscenza hanno la funzione di ricondurre ciò che turba in un contesto riconoscibile e, dietro un’apparente ovvietà e naturalità, nascondono il senso di una cultura costruita socialmente. Tra le rappresentazioni vi sono anche quelle che riguardano il passato collettivo. Come sappiamo da Halbwachs, la memoria è un insieme di rappresentazioni che, attraverso un sistema di pratiche, filtra e definisce, secondo imperativi attuali, ciò che il gruppo intende ricordare. D’altro canto, come mostra la teoria delle rappresentazioni sociali, queste consistono in paradigmi composti da stereotipi, atteggiamenti ed opinioni che possono avere diversi gradi di generalità e di riflessività sociale, di successo e di azione, dal livello individuale a quello di gruppo e sociale (Cfr. Santambrogio 2001). Le opinioni sono l’elemento soggettivo di una rappresentazione, gli stereotipi l’elemento di massima condivisione sociale e gli atteggiamenti sono l’esito dell’azione e dell’adattamento inter-individuale. Se la memoria collettiva è una rappresentazione e l’atteggiamento è un elemento di questa, allora possiamo considerare la nostalgia come un suo atteggiamento. Sul rapporto tra rappresentazioni, passato e memoria si veda Grande (1997).

5

Fu Johannes Hofer, giovane studente di medicina alsaziano, a usare il termine nel 1688, nella sua Dissertatio medica de nostalgia, all’Università di Basilea. Hofer, coniando il termine nostalgia da nóstos (ritorno) e álgos (dolore), propose un’alternativa scientifica ad Heimweh, termine che in tedesco poteva coprire lo stesso spettro semantico. Con esso Hofer «da una parte allarga il campo medico della sofferenza, dall’altra stempera la concretezza e la polisemia di Heim nella forma indefinita del desiderio, con l’implicito alone di epica avventura che ogni nóstos, dopo l’odissea di Ulisse, comporta» (Prete 1992, pp. 11-12). Tuttavia, «la sequenza che nello Heim di Heimweh allineava le figure e i fantasmi della casa, del villaggio, della terra, della patria permane come radice del turbamento e orizzonte del desiderio. Quelle figure e quei fantasmi sono l’assedio - dolce e distruttivo - del malato di nostalgia» (ivi, p. 12). Per quanto, nell’idea di Hofer, nostalgia sia un’alternativa a Heimweh, Petri (2011b) sottolinea che concettualmente la nostalgia nasce da Heimweh e non si è mai del tutto differenziata da esso, sicché per discuterne occorre avere in mente anche il concetto di Heimat e il problema del suo uso pubblico. Con il mutamento incessante che ha portato con sé, la modernità ha generato spaesamento, ma al contempo ha indicato tale spaesamento come patologico, istituendo con la nostalgia una modalità politica e pubblica per accreditare, e poi risarcire, questioni come la distruzione della natura o della tradizione, o come la necessità di sviluppare sentimenti di identità e appartenenza nazionale. Per una riflessione sul legame tra Heimweh, «nostalgia di casa», e Heimat, «terra madre, patria» e sulla complessità di questo legame per l’intreccio tra Heimweh e Fernweh («nostalgia dell’altrove»), si veda Jedlowski (2009). Una complessità, come evidenzia Jedlowski, legata al fatto che associandosi al desiderio di terre lontane, di altrove appunto, la nostalgia assume un altro senso rispetto a quello di brama di patria, che si combina con lo straniamento e con la possibilità ad esso connessa di ri-vedere la propria dimora a partire da un’altra prospettiva.

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Per una recente rassegna sul rapporto tra nostalgia e psicologia, cfr. Mirabelli, 2012.

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Anche se va affiancato a questo un altro processo: se già «dal romanticismo la nostalgia si trasforma da struggimento per un luogo a struggimento per un tempo (infanzia, età dell’oro), sul finire dell’Ottocento entrambi i sensi della parola convergono nel suo arruolamento fra i sentimenti chiamati a promuovere il senso della nazione. Da sintomo di spaesamento, la nostalgia diventa brama di appaesamento: mito terapeutico che allude al ritorno a un certo territorio, alla restaurazione di un ordine infranto» (Jedlowski 2011, p. 257).

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Secondo Dine (1994), il termine nostalgerie è in uso nella letteratura francese almeno dalla fine dell’800, quando Luis Bertrand pubblicò Les sang des races. Altri autori che hanno utilizzato il termine sono Friedmann (1988), Siblot (1985), Stein (1992).

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«Non ho che una lingua e non è la mia», scrive Derrida, e poi aggiunge: «non si parla mai che una sola lingua, (si ma) non si parla mai una sola lingua» (Derrida 1996, p. 14). La lingua francese, che egli non riesce ad interiorizzare, rispetto a cui non esiste «niente che rispetti e ami tanto» (ivi, p. 60) è anelata e alienata da sé. Scrive Derrida: «Dove ci si trova allora? A chi ci si può ancora identificare per raccontare la propria storia? […] Come si può dire […] che mai si abiterà la lingua dell’altro, mentre è la sola lingua che si parla?» (pp. 69 e 74-75).

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Cfr. Siebert (2012, pp. 197 e ss.) cui rimando anche per la riflessione sul rapporto tra il francese e l’arabo, durante il colonialismo e poi nella la lotta di liberazione.

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Questo rischio è parte del rapporto tra trauma e memoria, che è di grande rilievo per le scienze sociali. Diversi studi hanno mostrato che un trauma psicologico differisce da un trauma di tipo sociale in relazione ai diversi meccanismi che lo generano e lo strutturano: di natura intra-psichica i processi di difesa, adattamento, rimozione che riguardano il primo; di tipo culturale quelli di definizione e trasmissione relativi al secondo, legati in larga parte al ruolo di attori sociali e gruppi di pressione (Cfr. Rampazi e Tota, 2007). La lotta sul significato di un’esperienza traumatica che si combatte nell’arena del discorso pubblico connette il trauma psichico e il ricordo individuale con la rappresentazione e la memoria culturale dell’evento traumatico. Alexander, Eyerman, Giesen, Smelser e Sztompka (2004), attraverso il modello del trauma culturale, si sono occupati dei meccanismi tramite cui un evento traumatico può essere socialmente rielaborato e ricordato, fino a diventare un elemento nella definizione delle identità collettive. Alla base di tale modello sta l’idea che un trauma non esista naturalmente, ma sia costruito dalla società, in un processo in cui un gruppo definisce e rappresenta pubblicamente un evento come traumatico e la collettività lo assume come costitutivo della propria identità. Questo processo, cui partecipano varie arene, religiose, politiche, estetiche, giuridiche, mediatiche, pur legandosi agli usi politici del passato, alle sue manipolazioni e rimozioni, risulta essenziale per il superamento del trauma nel tessuto sociale. Centrale, in tutto ciò, è la riflessione epistemologica sulla natura indicibile ed inaudibile di un evento doloroso e sulla crisi della sua elaborazione e della sia testimonianza. Al suo interno, Cathy Caruth (1996), sottolinea il ruolo dell’arte e della letteratura per rispondere a questa crisi. Partendo dal postulato che il trauma segna la disgiunzione tra vedere e sapere e che un evento doloroso finisce in uno stato di latenza se non si riesce a colmarne i vuoti, Caruth sostiene che nell’arte e nella letteratura ciò che non si può rappresentare o che non può essere detto, può agire attraverso una poetica del trauma. Paradigmatico è il film di Resnais Hiroshima mon amour, nel quale vengono trattate le esperienze dell’evento: la cecità, la partenza, la sopravvivenza, la caduta, il risveglio (Bush 2007). Per superare la disgiunzione che il trauma porta in sé, bisogna inaugurare un altro modo di vedere e ascoltare, che stia dalla parte del trauma.

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La scelta di rintracciare attraverso il cinema alcuni elementi e tipicità della nostalgia non è casuale. Il cinema è una delle modalità narrative che maggiormente hanno contribuito all’immaginazione e all’elaborazione dell’esperienza moderna. Sul rapporto tra cinema e nostalgia si veda Morreale (2009); sul ruolo del cinema nei processi di rappresentazione e interpretazione della realtà sociale, tra gli altri si veda Casetti (2005).

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Come scrive Jankélévitch «il ritorno è l’avvenire dell’andata e ritorno» (1974, tratto da Prete 1992, p. 174). Resta tuttavia un problema anche in ciò, ed è proprio Jankélévitch ad evidenziarlo. Si tratta del fatto che il ritorno non può essere infinito, altrimenti si ritorna senza tornare. Spesso il nostalgico «continua a partire e ad andare [...] anche quando ritorna; continua a cercare quel che ha trovato, apprende senza tregua quel che sa già, ha già trovato nel momento in cui cerca [...]. Sicché ad un certo punto, la speranza di un passato a venire e il ritorno a un futuro già avvenuto possono anche diventare due forme paradossalmente reciproche di una medesima nostalgia; in questo punto l’età dell’oro del passato più lontano fa tutt’uno con l’avvenire più chimerico» (ivi, p. 175).

  • Articolo
  • pp:107-126
  • DOI: 10.1485/AIS_0_2012/TEORIA_RICERCA_5
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