AIS

2024/25

Intervista a Arnaldo Bagnasco


Arnaldo Bagnasco è professore emerito dell’Università di Torino. Nato a Varazze nel 1939, si è laureato in Giurisprudenza nell’Università di Genova, con una tesi in sociologia diretta da Luciano Cavalli. Oltre che nelle Facoltà di Scienze Politiche e di Lettere e Filosofia di Torino, ha insegnato al Cesare Alfieri di Firenze e nell’Università Federico II di Napoli. Nell’Università di Torino ha diretto il Dipartimento di Scienze Sociali.

Socio emerito dell’Associazione Italiana di Sociologia, è fra i fondatori della Società italiana di Sociologia Economica, socio cooptato della Società Italiana degli Economisti e socio onorario della Società Geografica Italiana.

È accademico dei Lincei e socio dell’Accademia delle Scienze di Torino.

È socio del Mulino, dove ha ricoperto diversi incarichi, ed è membro del Comitato scientifico della rivista Stato e Mercato, della quale è stato direttore.

Come membro del comitato scientifico, ha collaborato all’estensione e alla gestione del Piano strategico di Torino. Per un lungo periodo ha partecipato al comitato scientifico dell’Istituto per la ricerca economica e sociale della Regione Piemonte, di questo comitato è stato anche presidente. È stato presidente dell’Istituto Gramsci Piemontese.

In anni e per periodi diversi è stato: membro del Joint Commettee on Western Europe, Social Science Research Council, New York; Directeur d’études invité, École del Hautes Etudes en Sciences Sociales, Parigi; Professore invitato all’Università Complutense di Madrid; Enseignant invité, Université Paris III; membro del Comité d’Évaluation scientifique de la Fondation Maison des Sciences de l’Homme; Enseignant invité, Institut d’études politiques de Paris. Nel 2014 ha ricevuto dall’Institut d’Études politiques il titolo di Dottore di ricerca h.c. Con H. Mendras (CNRS, Parigi) e V. Wright (Nuffield College, Oxford) ha progettato e animato l’Observatoire du Changement Social en Europe Occidentale.

Tra le sue pubblicazioni: Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano (Il Mulino, 1977); Le problematiche dello sviluppo italiano (con M. Messori e C. Trigilia, Feltrinelli, 1978); Torino. Un profilo sociologico (Einaudi, 1986); La costruzione sociale del mercato. Studi sullo sviluppo di piccola impresa in Italia (Il Mulino, 1988); Classi, ceti, persone. Esercizi di analisi sociale localizzata (con N. Negri, Liguori, 1993); PME et développement économique en Europe (con Ch. Sabel, a cura di, La Découverte, 1994); L’Italia in tempi di cambiamento politico (Il Mulino, 1996); Corso di sociologia (con M. Barbagli e A. Cavalli, Il Mulino, 1997); Cities in contemporary Europe (con P. Le Galès, eds, Cambridge University Press, 2000); Tracce di comunità. Temi derivati da un concetto ingombrante (Il Mulino, 1999); Trust and Social Capital (in K. Nash e A. Scott, eds, Blackwell Companion to Political Sociology, Blackwell, 2000); Upsetting Models: An Italian Tale of the Middle Classes (in O. Zunz et al., eds, Social Contracts under Stress, The Middle Classes of America, Europe, and Japan at the Turn of the Century, Russel Sage Foundation, 2002); Società fuori squadra: come cambia l’organizzazione sociale (Il Mulino, 2003); Prima lezione di sociologia (Laterza, 2007); Gli usi sociologici (in Ripensare Max Weber, Atti dei convegni Lincei, 2015); Gramsci e la sociologia (in Attualità del pensiero di Antonio Gramsci, Atti dei convegni Lincei, 2016); La questione del ceto medio. Un racconto del cambiamento sociale (Il Mulino, 2016); Relazione introduttiva, in Diseguaglianze e classi sociali. La ricerca in Italia e nelle democrazie avanzate (in Atti dei convegni Lincei, 337, 2020); Chi ha fermato Torino? Una metafora per l’Italia (con G. Berta e A. Pichierri, Einaudi, 2020).

Ho conosciuto Arnaldo Bagnasco nella seconda metà degli anni Ottanta, da studente della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, frequentando il suo corso di Sociologia urbana. Avevo già incontrato la sociologia nei corsi introduttivi e di base, e ne ero rimasto attratto. Le sue lezioni mi convinsero definitivamente, e aggiunsero un certo entusiasmo: nel corso si parlava di città, comunità, società locale, sviluppo territoriale, ma più in generale di organizzazione sociale e della sua dimensione spaziale, all’incrocio tra economia e politica. Emergevano questioni fondamentali per l’analisi sociale, come il rapporto tra livello macro e micro, oppure quello tra teoria e ricerca empirica. Questi temi erano affrontati raccontando delle ricerche: su Torino e altre città del Nord, sui distretti industriali di Veneto e Toscana, su comunità del Mezzogiorno. Illustrare questi studi mostrava come si compone e si può utilizzare la cassetta degli attrezzi dello scienziato sociale. Bagnasco, durante le sue lezioni, smontava e rimontava le ricerche in cui era stato impegnato in prima persona o svolte da altri. Sentivo teorizzato, ma vedevo anche in azione il rapporto fra teoria e ricerca. Gli chiesi di essere seguito per la tesi di laurea (una ricerca sull’imprenditorialità in Calabria in un’area a forte presenza mafiosa); poi fui da lui seguito durante il Dottorato di ricerca presso l’Istituto Superiore di Sociologia della Statale di Milano (realizzando una ricerca sui processi di espansione territoriale delle mafie in aree non tradizionali). La collaborazione si strutturò e si stabilizzò quando divenni ricercatore.

L’intervista può aiutare a riflettere sul percorso di scienziato sociale di Bagnasco, mettere a fuoco lo stile di ricerca e il genere di sociologia che lo hanno caratterizzato, i risultati raggiunti.

 

Partirei, quindi, chiedendoti com’è avvenuto il tuo incontro con la sociologia, in quali circostanze? Erano condizioni molto diverse da quelle di oggi.

Poco convinto, seguivo il corso di Giurisprudenza a Genova. L’immaginazione sociologica e l’antologia di classici Immagini dell’uomo, di Wright Mills, sono i primi due libri di sociologia che ho avuto fra le mani, trovati in libreria. La facoltà offriva un insegnamento complementare di sociologia, tenuto da Luciano Cavalli; ho nei suoi confronti un debito intellettuale decisivo: avermi fatto entrare in sociologia per la strada di Weber, il classico al quale dedicava il suo corso teorico.

L’attenzione alla dimensione spaziale dei fatti sociali è cominciata per me con l’argomento della tesi che mi propose: una ricerca sul potere di comunità in una piccola città ligure. Era forse un azzardo artigianale per un principiante, ma dopo qualche tempo Paolo Farneti me ne chiese una sintesi per la sua antologia sul sistema politico italiano: la mia prima pubblicazione.

In sostanza, posso dire di un fortunato avvicinamento alla sociologia in quei primi anni, che ora mi appariva come una cosa seria, nella quale meritava impegnarsi. Cavalli mi incoraggiò a continuare, ma si stava spostando al Cesare Alfieri di Firenze e al momento, mi disse, non aveva niente da propormi.

Esisteva a Genova un Istituto di scienze sociali, che faceva capo ad ambienti del cattolicesimo locale e dell’industria di stato; ebbe vita per qualche anno, con alterne vicende. Qui si tenevano corsi di diverse discipline, uno di sociologia affidato a Filippo Barbano che pendolava da Torino. Imparai molto da lui, ma qui voglio ricordare che mi fece conoscere Robert K. Merton, diventato per me una seconda via d’ingresso alla sociologia. In Social Theory and Social Structure, Merton rivela il tratto di un maestro artigiano, di altissimo livello, che con pazienza e precisione immagina e costruisce da sé gli attrezzi di cui si trova ad aver bisogno per proseguire nel suo lavoro, tenendoli in buona efficienza e pensandone sempre di nuovi per nuovi lavori che non si stanca di immaginare. Questa continua a sembrarmi una buona sociologia.

Partito Cavalli, anche una borsa dell’Istituto di scienze sociali evaporò, come tempo dopo l’Istituto. Oltre a Barbano, era venuto a tenere lezioni Carlo Marletti, il quale mi segnalò che si stava avviando presso un centro del Cnr, a Torino, un’importante ricerca in Mezzogiorno, affidata a Giuseppe Bonazzi. Andai a trovarlo, fummo facilmente d’accordo e qui cominciò un’altra storia.

Immagino che a Torino tu trovassi un ambiente alquanto diverso da quello genovese; questo passaggio ha significato per te in qualche modo una rottura?

Torino era la capitale industriale, dove arrivavo nella stagione del Sessantotto, mentre si preparava l’Autunno caldo. I giovani sociologi erano molto critici, influenzati dal marxismo, anche se sensibili alla tradizione sociologica e a possibili combinazioni. Anch’io sentivo questo clima, ma l’impegno di lavoro mi portava lontano da Torino. Il tema della ricerca diretta da Bonazzi era uno studio sulle condizioni dello sviluppo in provincia di Salerno. Partecipando a tutte le sue fasi posso dire di aver imparato il mestiere di ricercatore. Era anche una svolta verso la sociologia economica, ma non una rottura: la ricerca riguardava, infatti, una società locale. Il risultato, che confermava le ipotesi, fu espresso nel sottotitolo del volume finale: L’organizzazione della marginalità. A distanza di tempo, è evidente la rigidità di quell’analisi e del suo impianto; e, tuttavia, mostrava anche importanti meccanismi in gioco fra imprenditorialità e politica, metteva in guardia su visioni ottimistiche sul prossimo destino delle aree meridionali, vedeva il concorrere d’interessi e responsabilità endogene ed esogene che lo sviavano.

Il Ceris, centro del Cnr, cui faceva capo la ricerca, era collocato presso la Scuola di amministrazione della Facoltà di economia, e questo mi sollecitava a una specie di controcanto sociologico in quell’ambiente. Scrissi anche un articolo sulla rivista della Scuola, che naturalmente era un mio percorso di studio in quegli anni; partiva dalla burocrazia e dalla razionalità rispetto allo scopo di Weber, con il tema lasciato in sospeso della razionalità materiale, considerava l’emergenza della «tecnostruttura» di Galbraith, la distinzione fra razionalità formale e sostanziale di Mannheim, le critiche di Horkheimer e Marcuse, per arrivare ad Habermas di Teoria e prassi nella società tecnologica, appena introdotto in Italia da Carlo Donolo. Si concludeva con la possibilità, indicata da Habermas, di contrastare la crescita di tendenze tecnocratiche stabilendo un circuito fra tre portatori di istanze necessarie le une alle altre: politici-tecnici-opinione pubblica informata. Aria del tempo, che ancora sentiamo diversamente incanalata.

Poco dopo la fine della ricerca, lasciai il Ceris e ottenni una borsa della Fondazione Agnelli per collaborare a un progetto sul sistema imprenditoriale italiano: nuove esperienze da cumulare e ordinare.

Se ricordo bene quanto mi hai raccontato altre volte, è proprio allora che cominciasti a lavorare al tema delle Tre Italie e dello sviluppo di piccola impresa, che poi ti occupò per diversi anni, anche dopo la tua permanenza a Torino. Non è meglio parlarne tutto in una volta?

Hai ragione, farò così.

La Fondazione Agnelli era un ambiente dove si potevano incontrare scienziati sociali di primo piano, italiani e stranieri. Quanto alla ricerca, mi fece sperimentare cosa fosse il lavoro interdisciplinare al quale partecipano insieme economisti, storici, statistici, geografi, sociologi.

Un giorno, lo statistico Ermanno Jallà portò alcuni istogrammi a scala logaritmica riferiti alle dimensioni delle unità produttive manifatturiere in termini di addetti in grandi aree del Paese, con dati dei censimenti 1961 e 1971. Mi occupai della cosa e, nel Rapporto di ricerca (1973), presentai un primo abbozzo di tre Italie; la novità era l’emergenza della terza Italia, dello sviluppo a economia diffusa. Questa economia non poteva essere ridotta al decentramento produttivo, appariva come una nuova matrice inattesa di crescita, proseguii subito con una ricerca con Marcello Messori in Emilia-Romagna. Dall’inizio ho lavorato a riunire nello schema studi e argomenti di altri ricercatori, su aspetti e zone diverse. Paci, in una ricerca nelle Marche, Becattini in Toscana (rifacendosi a Marshall), Brusco in Emilia ne avevano individuati e ricomposto tratti. Per quanto mi riguarda, dall’inizio e poi preparando un volume, insistevo nel vedere quella novità come articolazione del sistema nazionale, pensando a un modello analitico di tre formazioni sociali, specifiche per economia, politica, società. A questo punto, però, arrivò l’invito di Cavalli per un incarico di sociologia economica a Firenze che accettai: mi avvicinava all’Università e a una regione della terza Italia, dove mi trasferii.

Non è possibile qui approfondire il significato complessivo di quel lavoro, quanto di utile possa avere rappresentato e sue debolezze, viste a posteriori. Chi fosse interessato può fare riferimento alla bella ricostruzione della tradizione di sociologia economica italiana di Antonio Mutti: ne rileva l’influenza esercitata in ricerche successive e l’attenzione destata all’estero; ricordo solo una sua osservazione sottile: proprio l’impegno del confronto con la varietà concreta nella ricerca empirica ha progressivamente allontanato da eccessivi ricorsi al marxismo, e fatto crescere per molti aspetti il riferimento a Weber. Sono anche d’accordo su diverse sue critiche, che già avevo cominciato a farmi per conto mio, la maggiore riguarda una visione troppo rigida del Mezzogiorno, non abbastanza liberata da limiti del meridionalismo classico.

A Firenze conobbi Carlo Trigilia, che aveva qui terminato i suoi studi e cominciava a collaborare nell’Istituto, già autore di un innovativo articolo sulle classi sociali in Italia. Avevamo in comune molte idee su economia e società, cominciò subito una collaborazione che continua ancora oggi. Progettammo una ricerca comparata in due zone tipiche di industrializzazione diffusa, in Toscana e in Veneto, scelte perché simili per economia e a diverso colore politico. L’osservazione ravvicinata migliorò molto la definizione dei caratteri e del funzionamento di quel modello visto nelle due varianti di una stessa forma politica di subcultura territoriale, ne emersero capacità integrativa e tensioni, tendenze possibili di trasformazione al concorrere di variabili endogene ed esogene, aperte alle scelte degli attori.

In quel periodo si avviò la pubblicazione di Stato e Mercato, rivista di political economy comparata. Fummo attratti da una prospettiva teorica che raffinava un approccio in termini di principi di regolazione, fra loro combinati, che anche noi avevamo intuito nei nostri studi di caso. Il primo direttore fu Paci, con un comitato che comprendeva studiosi italiani e stranieri; in seguito, più di me fu Carlo a impegnarsi in ricerche internazionali di comparazione e nello sviluppo della teoria. Anch’io negli anni assunsi pro-tempore la direzione della rivista, pubblicai diverse cose, e direi di avere contribuito con l’estensione della metodologia alla scala regionale e urbana.

La ricerca sui sistemi locali a economia diffusa, con il collegamento alla political economy comparata, si irrobustì. In quel momento però vincesti il concorso a ordinario di sociologia economica e si profilò di nuovo una migrazione da Firenze. Con che conseguenze?

Trovai accoglienza a Napoli, al corso di laurea di sociologia da non molto istituito. Conobbi nuovi bravi colleghi, anche giovani in formazione, e m’impegnai nella didattica, ma fu un periodo complicato: la sede appena predisposta crollò per il terremoto. Dopo due anni, Martinotti lasciò la cattedra di sociologia urbana a Scienze Politiche di Torino e gli subentrai. Questo significò per me un riorientamento importante e mi mossi in due direzioni: anzitutto si presentava l’occasione di adattare la metodologia di analisi di società locale maturata per i distretti a una situazione urbana industriale in trasformazione; inoltre, dovevo comprendere altri aspetti o modi di intendere la sociologia urbana: dovevo studiare e fare delle scelte, consapevole di quanto della buona sociologia urbana avrei lasciato fuori. In sostanza, sono andato incontro al tema dell’interazione sociale, delle reti di relazione situate, della costruzione della società dal basso, al confine con il lavoro degli antropologi urbani. Fra questi trovai un alleato in Ulf Hannerz di Exploring the City, che feci tradurre dal Mulino con una mia introduzione dal titolo: La sociologia urbana fra antropologia e sociologia.

Quanto al primo orientamento, preparai un profilo sociologico di Torino, con riferimento a dati disponibili e a molte indagini che si erano cumulate sulla città. Nel libro, accettato nella collana Il nuovo Politecnico di Einaudi, si vedeva la crisi di un’economia regolata dall’organizzazione più che dal mercato, e una politica sacrificata nella sua autonomia, ricca di opportunità ma solo se capace di non chiudersi su se stessa e nelle sue rigidità. Il libro fu presentato in una giornata di studio organizzata da Casa editrice Einaudi, Fondazione Agnelli, Istituto Gramsci Piemontese, Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università: quattro istituzioni che nel passato non avevano avuto esattamente rapporti distesi. Se ne discusse poi nella società locale, e con altri colleghi insistemmo su critiche e aperture necessarie, ma in molti punti della società civile e da parte delle associazioni di rappresentanza si produceva aria nuova. Il clima era favorevole ai cambiamenti, e il profilo sociologico di Torino mi aveva aperto molte strade d’interazione in ambienti diversi.

Come Direttore del Dipartimento, con il tramite di Gallino, accettai l’incarico della Fiat per una ricerca sullo stato della cultura in città, che fu diretta da Rositi e Marra. Collaborai a un ciclo d’incontri, promosso da un comitato coordinato da Giuseppe Berta, sostenuto dalle due grandi banche, dal Gruppo Finanziario Tessile, dalla Fiat, che vide il succedersi di diversi studiosi e discussants impegnati nel cambiamento, pubblicato poi da Bollati-Boringhieri con il titolo eloquente La città dopo Ford. Ricordo solo come esempi del contenuto lo scritto di Gallino Policy Making in condizioni avverse, e quello di Luigi Mazza urbanista Società locale e strategie economiche: è possibile una convergenza nella politica urbana? Negli anni successivi il sindaco Castellani promosse un’associazione per lo sviluppo della città, che si precisò come la costruzione di un piano strategico a somiglianza di quanto avevano fatto diverse città europee. Fui chiamato a collaborare da Fiorenzo Alfieri, assessore dedicato. Mi fu affidato il compito di coordinare la preparazione di una pubblicazione con le informazioni di base sullo stato della città, i caratteri della sua economia, le risorse che potevano essere impiegate per lo sviluppo. Lo preparammo in pochi mesi con il concorso di centri di ricerca operativi nella città, chiamati a raccolta e subito disponibili. Cominciò poi la preparazione del piano, alla quale partecipai, con la costituzione di gruppi di lavoro, discussioni plenarie, informazione e raccolta di opinioni del pubblico, redazioni successive; furono individuate e approvate alcune linee strategiche, specificati gli obiettivi, sino ad arrivare a circa ottanta azioni concrete, a ognuna delle quali si impegnavano enti, imprese, associazioni che le avevano preparate. Il piano fu firmato il 29 febbraio 2000 da rappresentanti di una cinquantina di grandi enti: amministrazioni locali (anche dell’area metropolitana), Università, associazioni imprenditoriali, grandi imprese, centrali cooperative, sindacati, enti culturali. Pochi mesi dopo si costituì l’associazione Torino Internazionale finalizzata all’implementazione, verifica, attualizzazione del piano. Questo cominciò a muoversi, ma non posso ora entrare più in dettaglio. Per quanto mi riguarda, avevo esaurito un mio possibile compito e non partecipai più quando fu il momento di preparare un secondo piano, scaduto il tempo del primo (2010). A distanza di anni è possibile vederne il significato: una città industriale in crisi si era rimessa in moto, facendo emergere potenzialità del suo patrimonio oscurate al tempo della «città fabbrica», e poteva ora conservare e valorizzare la capacità industriale insieme a molte altre cose, diventando più differenziata e adatta a tempi nuovi. Insieme è possibile vederne i limiti, fra questi il venir meno di una finestra di opportunità esterne, con il momento poi decisivo delle crisi a cavallo del primo decennio del nuovo secolo, un rapporto da chiarire con il sistema politico che doveva ricostituirsi, il rischio di una nuova chiusura intorno agli assetti stabiliti. Mi sembra comunque che si sia trattato di alcuni buoni anni per la società locale, che hanno impedito una drammatica crisi economica e sociale, e mostrato la possibilità di collaborazioni allargate, ma non sta a me stabilire un bilancio di quella stagione alla quale, per una parte di supporto tecnico, ho partecipato.

Hai avuto anche esperienze all’estero: di che tipo e perché importanti per te?

Ormai pensiamo tutti che questo sia importante, per molti motivi. Io ho cominciato a intensificare le mie presenze all’estero quando ho visto che qualcuno prestava attenzione alle cose che facevo. A volte su mia iniziativa, altre volte su invito, e questo mi permetteva non solo di comunicare le mie ricerche, ma di verificarle in un ambiente diverso; in soggiorni più lunghi permetteva anche ricognizioni in nuove direzioni. Poteva poi anche arrivare a impiantare insieme un’attività.

Le mie frequentazioni sono state soprattutto in ambito francese, in particolare a Sciences-Po, dove ho stabilito rapporti di lunga collaborazione con Henri Mendras. Con Mendras e Vincent Wright, del Nuffield College, ma spesso a Parigi, fondammo l’Observatoire sociologique de l’Europe Occidentale, che si riuniva periodicamente a Poitiers per una settimana; qui convocavamo specialisti internazionali di diversi temi su cui avevano lavorato, che discutevano fra loro; ne derivò una serie di antologie pubblicate in francese e inglese, una dozzina nel corso di alcuni anni. Fra i titoli ricordo per esempio: politiche del reddito, privatizzazioni, democrazia e corruzione, famiglia, identità religiose, i paradossi delle regioni, etica delle scelte mediche. Un rapporto rilevante fu anche con la Maison des Sciences de l’Homme e Maurice Aymard, che mi invitò a essere anche parte del Comitato internazionale di controllo. In Spagna il rapporto duraturo fu con J.J. Castillo della Complutense, e con la loro rivista Sociologia del Trabajo. In Sud America ricordo alcuni viaggi e soprattutto la partecipazione come relatore all’anniversario di Sudene, l’agenzia di sviluppo fondata da Celso Furtado, presente e festeggiato. Negli Stati Uniti ho partecipato a una tornata di alcuni anni del Committee on Western Europe del SSRC, e a una ricerca sul ceto medio in Europa, America e Giappone coordinata dallo storico Olivier Zunz.

Nel 1996 hai lasciato Scienze Politiche, trasferendoti a Lettere. Avevi spiegato che quella Facoltà perdeva una sociologa del valore di Anna Anfossi, avviata alla pensione, e aveva bisogno di sostituirla con un sociologo esperto. Mi sono fatto l’idea che ci fossero anche altri motivi, o mi sbaglio?

La ragione per cui chiesi il trasferimento era quella. A Scienze Politiche mi ero trovato benissimo, ma è anche vero che spostarmi a quell’ambiente nuovo, coprendo una cattedra di sociologia senza aggettivi, assecondava il desiderio di una nuova, forse conclusiva fase di ricerca su temi più generali e di approfondimento teorico. Poco dopo, le nuove norme furono l’occasione per realizzare un corso di laurea interfacoltà in sociologia per la quale fu indispensabile la presenza tua e di altri del nostro gruppo.

Una visione d’insieme l’avevo cercata, in un primo tempo, sul tema delle classi sociali, ma partendo dal ceto medio e dalla sua crisi emergente. Con il sostegno del Consiglio italiano per le Scienze sociali furono realizzate e pubblicate da gruppi indipendenti quattro ricerche da me coordinate: sulle strategie per restare di ceto medio nel passaggio alla vita adulta, sulla costruzione del ceto medio nella stampa e in politica, sul popolo delle partite Iva, sugli stili di vita in cambiamento nella crisi. Nel frattempo lavoravo anche a un libro, in cui la questione del ceto medio serviva come via d’ingresso per una ricostruzione sul lungo periodo del cambiamento sociale, che pubblicò Il Mulino.

Nel 2002 fui accolto nell’Accademia dei Lincei, un ambiente molto stimolante per la possibilità di interazione con studiosi di alto livello, delle due classi, di scienze fisiche e di scienze morali. Se per brevità elenco solo una serie di convegni ai quali fui relatore, si può avere un’idea di come seguissi le intenzioni della mia nuova fase che dicevo: Giornate in ricordo di Giorgio Fuà, Antropocene, Attualità del pensiero di Gramsci (io parlai di Gramsci e la sociologia), Ripensare Max Weber (a me fu riservato di parlare degli usi sociologici); nel 2018 fui nel Comitato organizzatore del convegno Disuguaglianze e classi sociali. La ricerca in Italia e nelle democrazie avanzate; feci la relazione introduttiva, dove riprendevo alcune teorie classiche e recenti della stratificazione, sino a giustificare la divisione delle relazioni in tre temi: persistenza delle classi sociali, disuguaglianze multiple, politica, classi e disuguaglianze. Parteciparono economisti, statistici, sociologi, fra questi ultimi Schizzerotto, Barbagli, Pisati, Ranci, Saraceno, Trigilia (che faceva parte anche del Comitato promotore).

Non si tratta però solo di organizzare convegni e seminari, le attività sono diverse; importante è per esempio la partecipazione a commissioni su temi specifici: al tempo del Covid se ne stabilì una con partecipanti delle due classi, per analisi progressive del fenomeno; di recente, in occasione del G7 e del G10 ho partecipato all’elaborazione da parte di Accademie dei Paesi Implicati di un documento di raccomandazioni presentato ai politici; faccio parte di una Commissione Società ed economia, al momento presieduta da Alessandro Cavalli, poi passerà a un economista.

In questa intervista hai ripercorso il tuo cammino in sociologia, forse è stata anche per te un’occasione per riflettere: perché non ci dai qualche tua impressione su punti che può essere utile considerare, rilevanti per il tuo modo di intendere la sociologia, e sul lavoro di sociologo, come lo hai sperimentato?

Ci provo, solo un appunto rapido di qualche idea.

Sociologia come scienza. Dopo tanti anni, guardandomi attorno, continuo a pensare che la sociologia sia una cosa seria, che meriti rispetto e investimento professionale nonostante anche, diciamo così, usi impropri. Più orientamenti teorici costituiscono un insieme diversificato, che può essere visto come debolezza, se non inconsistenza; risponde invece alla necessità di più punti vista per comprendere una realtà complessa, aperta e in mutamento continuo.

La sociologia ha un peccato originale: pretendere di essere la scienza unica della società; si è capito presto che era impossibile; rimane però la vocazione a connettere aspetti della realtà che altri separano, a fare da ponte, a restituire immagini ricomposte di maggior spessore sociale; in questo senso è una scienza generale della società.

Problema: come mantenere una visione unitaria della disciplina nonostante le differenze? Anzitutto, con una continua spola con i classici che cercavano una strada nella modernità, anche loro in modi diversi; i veri fondatori sono la generazione fra due secoli, come diceva Aron: nel loro insieme, aiutano a cercare una scienza generale della società.

Ambienti teorici e ricerca. Teoria e ricerca sono necessarie l’una all’altra. C’è chi è più portato alla teoria, chi alla ricerca sulla varietà concreta, ma le due pratiche vanno avvicinate. Torna utile, per questo, pensare alle teorie come ambienti teorici. Le teorie si riferiscono a prospettive dalle quali guardare la società, sistemi concettuali, assunzioni di metodo. Ambienti teorici, vuole rendere l’idea che le teorie subiscono evoluzioni e varianti, più e meno codificate, alimentano differenti rivoli più indipendenti, possono ibridarsi tra loro. La political economy comparata, è un ambiente teorico addirittura interdisciplinare. È lo studio di come sono regolati i processi dell’economia nei diversi capitalismi nazionali, dove attori collettivi portatori d’interessi differenziati contrattano in un contesto istituzionale diverso a seconda dei Paesi; questo ammette diversi principi e sistemi di regolazione: mercato, autorità (lo Stato), accordi di reciprocità. I sociologi ritrovano, a un livello teorico più elevato, Weber per l’idea dell’importanza assegnata alle istituzioni come sistemi di regole legittimate che fanno cornice al gioco degli interessi, Polanyi per la prospettiva della regolazione. Pensare ad ambienti teorici è un modo per avvicinare e praticare insieme teoria e ricerca, necessarie l’una all’altra.

Lo spazio dell’attore. Lo spazio da dare all’attore nella spiegazione rimane il problema centrale della sociologia. È una questione delle origini: Durkheim (i fatti sociali come cose) versus i tedeschi, Weber e Simmel (l’uomo con la sua autonomia di scelta). Ritroviamo oggi affiancate, più che contrapposte, una raffinata sociologia delle variabili e il paradigma dell’attore sociale, con l’idea della microfondazione di effetti aggregati.

Come si avvicina l’idea generale di scienza, anche una volta introdotto l’uomo con la sua autonomia? Nelle scienze naturali, individuati fattori causali, possiamo davvero dire di avere spiegato la causa di un evento successivo quando abbiamo descritto il meccanismo causale che genera la conseguenza (non abbiamo spiegato perché alcuni si avvelenino mangiando aragoste se non chiariamo il meccanismo della reazione anafilattica). Lo stesso deve valere per la sociologia. Così dice Elster, che è un virtuoso dei meccanismi sociali: ricordiamo per esempio Ulisse e le sirene, o l’uso strategico dell’argomentazione. Coleman, con la sua «barca», teorizza la sociologia dei meccanismi.

In un altro ambiente teorico, Touraine contrasta il funzionalismo che aveva inghiottito l’attore socializzato in un sistema integrato da valori, e ne cerca il ritorno nei nuovi movimenti sociali. Il ritorno dell’attore è pensato in un complesso sistema concettuale orientato alla produzione, non alla riproduzione della società. Radicale nel sostegno al cambiamento, Touraine associava anche la capacità di una certa distanza dai conflitti osservati, per criticare aspetti di decadimento di un movimento nella sua ideologia. Era preoccupato di non perdere istituzioni della società conquistate duramente, prima di assicurarne di nuove efficaci.

Sociologia per che cosa? è la domanda di Robert Lynd, ritornata negli anni scorsi con una discussione sui modi di intendere il lavoro di sociologo, le sue ragioni. Sintetizzo qui tre tipi che rispondono all’intenzione di spiegare, interpretare, applicare. Gli analisti sociali (Boudon, Coleman, Goldthorpe per esempio) pensano che la sociologia debba spiegare il perché dei fenomeni sociali; il metodo può variare, fra tecniche statistiche e paradigma dell’azione. I critici sociali intendono piuttosto interpretare i fatti sociali, ciò che significa esplicitare un impegno, attribuire un significato, in sostanza valutare (Bauman è un buon esempio). È facile trovare critiche reciproche, debolezze e possibilità dei due tipi; penso che entrambi siano necessari. È emerso in quanto ho detto il rapporto ai valori, può sembrare un problema più per i critici che per gli analisti. Ma non è stato Weber a dirci che spiegazione e valutazione si intrecciano, e che il problema non è come superare ma come controllare l’antinomia? Questo è il problema per tutti i sociologi, stretti fra intenzione e responsabilità.

Quando penso alla sociologia applicata concordo con Coleman: «Bisogna addestrare i sociologi a essere architetti in grado di contribuire al disegno delle istituzioni sociali». Anche qui si ripresenta però il problema del rapporto a valori e interessi. Contribuire non significa sostituirsi ai politici ma mantenere la propria autonomia critica, sino all’exit, richiede anche l’esercizio di una responsabile terzietà.

A questo punto, se qualcuno mi chiede un parere su cosa di utile pensi di fare un sociologo, rispondo così: un sociologo cerca di comprendere, per quanto gli riesce, come la società è fatta e funziona, perché in essa diventi possibile vivere con consapevolezza e, in certa misura almeno, autodeterminazione.