Chiara Saraceno è una delle più autorevoli sociologhe italiane il cui prestigio è riconosciuto a livello internazionale. Si laurea in Filosofia alla Cattolica di Milano nel 1966, quando ancora la sociologia non era disciplina ufficiale insegnata nelle Università italiane. Inizia la sua carriera nel 1968 all’Università di Trento, dove insegna sociologia della famiglia fino al 1989. Dal 1990 al 2008, è professore presso l’Università di Torino, dove ricopre anche le cariche di Direttore del Dipartimento di Scienze Sociali, dal 1991 al 1997, di Direttore e poi Presidente del CIRSDe, dal 1997 al 2006.
Dal 2006 al 2011, è stata professore di ricerca presso il Wissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino. Attualmente, è honorary fellow al Collegio Carlo Alberto di Torino, è editorialista del quotidiano la Repubblica e collabora con i siti lavoce.info, neodemos.it, sbilanciamoci.info, ingenere.it
Nel corso della sua carriera, Chiara Saraceno ha ricoperto prestigiosi incarichi istituzionali e di ricerca, a livello nazionale e internazionale. Ha partecipato a due commissioni governative sugli studi sulla povertà e, dal 1999 al 2001, è stata Presidente della Commissione di indagine sulla esclusione sociale, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. È stata membro del gruppo di lavoro per le Indagini Multiscopo, presso l’ISTAT, ha effettuato consulenze per la Commissione europea, il Consiglio d’Europa e l’OCSE. Nel 2005, è stata nominata Grandufficiale della Repubblica dal Presidente Ciampi.
Ha coordinato numerosi progetti di ricerca nazionali e internazionali e ha partecipato a network europei di eccellenza. Nel 2011, è stata nominata corresponding fellow della British Academy.
Ha contribuito in modo sostanziale allo sviluppo della sociologia della famiglia in Italia. La prima edizione di Sociologia della famiglia presso il Mulino è del 1988. Ne sono seguite sette (dal 2001 con Manuela Naldini); l’ultima edizione aggiornata è uscita nel 2013. Si tratta di un volume che è stato tradotto anche in portoghese. Sempre nell’ambito degli studi sulla famiglia, ha effettuato, insieme a Marzio Barbagli, la prima ricerca sulla instabilità coniugale in Italia, i cui risultati sono stati pubblicati in Separarsi in Italia, il Mulino, 1998. Ha dato un contributo importante anche allo sviluppo degli studi sulla povertà. Si ricordano il volume con Nicola Negri, Le politiche contro la povertà in Italia, il Mulino, 1996 e il volume, Social assistance Dynamics in Europe, Policy Press, 2000, poi tradotto anche in italiano nel 2004. Ha, inoltre, contribuito alla diffusione in Italia sia degli studi di genere, sia degli studi su età e corso della vita. Sugli studi di genere, il primo saggio, Dalla parte della donna, De Donato, è del 1971. Nel 1996, cura, insieme a Simonetta Piccone Stella, Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, il Mulino, che contribuisce a far conoscere per la prima volta in Italia autori e autrici che si occupavano di rapporti di genere provenendo da prospettive disciplinari alquanto diverse, da Nicholson, Tosh, Pahl, Sen, a Bock. Sul secondo tema, ha curato, nel 1986, per il Mulino, il reader Età e corso della vita, facendo conoscere un campo di ricerca in Italia allora pressoché ignoto e autori come Riley, Modell, Neugarten, Kohli, Attias-Donfut e altri ancora. Il volume è stato ripubblicato nel 2001 con qualche modifica.
Ha messo le sue conoscenze anche al servizio del suo impegno civile, tramite un’attività di formazione, di consulenza e di conferenziera, editorialista, rivolta a platee anche molto diversificate.
La sua produzione scientifica, ma anche il suo impegno civile, non si fermano, ma anzi aumentano dopo il suo congedo dall’Università, avvenuto nel 2009 e la conclusione del suo periodo berlinese, a metà 2011. Dal 2011 al 2013, pubblica, oltre a diversi articoli, alcune monografie, tra cui ricordiamo in ordine temporale solo le ultime tre: Eredità, Torino, Rosenberg & Sellier, 2013; Il Welfare, Bologna, il Mulino, 2013; Coppie e famiglie. Non è questione di natura, Feltrinelli, 2012.
Non è facile percorrere le tappe più significative della tua carriera, anche (o forse proprio) per chi, come me, ti conosce da molto tempo. Inizierei dunque con una brevissima nota anche biografica sul mio incontro con te.
Conobbi per la prima volta Chiara Saraceno nel 1990. Chiara era appena arrivata all’Università di Torino da Trento, la incontrai quando ancora ero studentessa e frequentavo il suo corso di sociologia della famiglia, anch’io mi ero appena trasferita dall’Università di Firenze a Torino, le sue lezioni di sociologia della famiglia erano le prime che seguivo a Torino, ma mi conquistarono subito; non ebbi alcun dubbio, era con lei che avrei voluto fare la tesi e ci riuscii. Terminato il mio dottorato ho iniziato a collaborare a vari progetti di ricerca in cui Saraceno era coinvolta, fino a quando siamo diventate colleghe all’Università di Torino, nel 2001. Posso dunque dire di conoscerla da venticinque anni. In breve, Chiara Saraceno è stata la mia «maestra» ed ha rivestito un ruolo cruciale nella mia formazione di sociologa.
Pur conoscendo abbastanza bene gli anni maturi della tua carriera, conosco davvero poco quelli della tua formazione. La prima domanda è dunque la seguente: puoi raccontare come, quando e perché sei arrivata alla sociologia?
Casualmente. Appartengo a una generazione che non ha incontrato la sociologia nel proprio percorso formativo. Non c’era neanche un insegnamento di sociologia all’università, quando l’ho fatta io. Credo che tra i sociologi della mia generazione siano tre i percorsi verso la sociologia più rappresentati: chi proveniva da filosofia, chi da lettere e chi da economia. Io sono laureata in filosofia. Quella filosofica è un tipo di formazione che ritengo molto importante. Pensa che, quando sono andata a insegnare all’Università di Trento alla fine del 1968 – un fatto che ha deciso della mia vocazione sociologica –, gli studenti allora in agitazione chiedevano proprio corsi di filosofia, dato che per lo più provenivano da istituti tecnici e non avevano mai studiato filosofia. Eppure, si rendevano conto che dietro il materialismo storico, dietro Marx, come dietro la scuola di Francoforte – gli autori e la scuola di pensiero cui si ispirava allora gran parte del movimento –, c’era una tradizione di pensiero filosofico che non poteva essere ignorata. Per quanto mi riguarda, sono molto contenta di avere avuto una formazione filosofica, in quanto mi ha fornito un’ottima base per destreggiarmi tra teorie e concetti, per assumere un certo rigore intellettuale, allo stesso tempo evitando di filosofeggiare nello sviluppare la riflessione sociologica – una tentazione serpeggiante in diversi sociologi della mia generazione. Ciò detto, la mia propensione sociologica, se così si può dire, è emersa in realtà già con la tesi di laurea. Mi sono, infatti, laureata in filosofia teoretica alla Cattolica di Milano col professor Bontadini, con una tesi nata dalla lettura di Weber, e in particolare da L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Il progetto iniziale era di ricostruire le idee di alcuni dei teologi protestanti (e delle sette) di lingua inglese citati da Weber. Ero, allora, una dei pochi studenti di filosofia, ma non solo, a conoscere bene l’inglese, perché i miei genitori erano stati tanto lungimiranti da consentirmi, in seconda liceo, di passare un anno negli Stati Uniti come exchange student. Allora, la lingua la cui conoscenza era data per scontata all’università era il francese (per esempio, dovevamo leggere in francese Cartesio e Pascal). I più bravi sapevano anche il tedesco. L’inglese, invece, era considerata una lingua poco filosofica, forse commerciale. Così, io ho potuto trovarmi una nicchia inconsueta: partire da Weber sì, ma tracciandone i fili meno ovvi del percorso intellettuale. Nel corso del lavoro, tuttavia, il progetto iniziale si è trasformato in una ricerca sulle origini del pragmatismo americano: dal teologo Johnathan Edwards e il puritanesimo a William James, fino a Dewey. Una tesi, probabilmente un po’ spericolata e ingenua, in cui tuttavia Bontadini, grande persona e filosofo eccentrico dimenticato, mi ha lasciato lavorare in grande libertà, insieme accompagnandomi con grande rigore. In questo è stato il mio primo, ma anche unico, maestro, anche se non ne ho seguito le orme.
Mi sono laureata nel 1965. Per un paio d’anni, ho insegnato storia e filosofia, prima in un istituto privato, poi come supplente annuale al liceo scientifico «Leonardo Da Vinci», a Milano. In contemporanea, facevo l’assistente «volontaria» in filosofia teoretica, che era l’unico modo per restare nell’ambiente universitario, anche se allora non pensavo di avere una carriera universitaria davanti a me. Non mi vedevo davvero come una potenziale filosofa. E per le donne era difficilissimo fare carriera in università, tanto più alla Cattolica, dove c’era un’unica donna professore ordinario nella facoltà di filosofia, Sofia Vanni Rovighi. Alle donne non davano neppure le, scarse, borse di studio disponibili per gli studi post laurea. Bontadini usava dire che, per fare carriera all’università, occorreva essere ricchi di famiglia. Aggiungo che occorreva anche appartenere al «sesso giusto». Pensavo, quindi, che il mio destino professionale fosse l’insegnamento nei licei, passando per la trafila dei concorsi. Comunque, quegli anni di volontariato universitario sono stati per me molto formativi. Dovevo lavorare come insegnante per mantenermi, ma dovevo anche lavorare intellettualmente per mantenere lo status di assistente universitario, che comportava essere sempre presente agli esami, pronta a fare la domanda intelligente quando arrivava il mio turno e pubblicare almeno un articolo scientifico all’anno, quindi, continuare a studiare.
L’equilibrio, direi il mondo, su cui si reggevano i miei primi passi nella vita professionale si è rotto alla fine del 1967, con lo scoppio del movimento studentesco e la prima occupazione dell’Università Cattolica, cui partecipai. Per me, come per molti altri, significò la prima esperienza politica forte. Significò anche l’inizio di rapporti di amicizia, che sono poi continuati negli anni, con persone come Bruno Manghi, Guido Romagnoli, Gianprimo Cella, Bianca Beccalli. Quest’ultima era in Statale, non in Cattolica, ma proprio il movimento aiutò per la prima volta a fare incontrare mondi che prima non si frequentavano e non si parlavano. Ricordo ancora Bianca, bellissima, affascinante, così più matura di me politicamente. La partecipazione al movimento per me significò anche la rottura con l’unico gruppo in cui abbia avuto un’appartenenza forte nella mia vita, Gioventù studentesca. Di fatto, furono Gioventù Studentesca (GS), di cui ero stata vicepresidente, e i suoi leader a rompere con me, considerando contrario ai propri principi la partecipazione alle proteste studentesche, che, invece, molti di noi consideravano in perfetta coerenza con la predicazione evangelica. Ricordo che, durante le manifestazioni davanti al portone chiuso della Cattolica, dopo che ci avevano sgomberati e mentre alcuni facevano lo sciopero della fame, si leggevano la Costituzione e la Lettera a una professoressa del priore di Barbiana. Eppure fummo «scomunicati». Da un giorno all’altro, nessuno degli amici di GS e della sua editrice Jaca Book, con cui avevamo fatto tante cose assieme, venne più a casa mia e di mio marito, che fino a quel momento era stata una delle «case aperte», in cui ci si poteva riunire e discutere di tutto, senza che a nessuno sia venuto in mente di chiederci le nostre motivazioni. La stessa Gioventù Studentesca, per altro, subì una scissione. Anni dopo, ho scoperto che per diversi anni gli studenti di Comunione e Liberazione – l’associazione nata dalla rottura di GS – avevano il divieto di venire alle mie lezioni a Trento. Per questo parlo di vera e propria scomunica. Ne ho patito sul piano relazionale e della fiducia, ma è stata anche un’esperienza produttiva intellettualmente, che mi ha permesso di aprirmi ad altre visioni del mondo, ad altre esperienze. Quando Alberoni, che stava lasciando la Cattolica per motivi personali ed era stato chiamato a dirigere la facoltà di sociologia di Trento, chiese anche a me di andare con lui, accettai subito, rinunciando a fare il concorso per un posto di ruolo al liceo, per la promessa di un incarico annuale di collaboratore. Mi era chiaro già allora che l’offerta di Alberoni non aveva motivazioni di tipo accademico, di valutazione della mia competenza professionale, di fatto pressoché nulla in sociologia. Non mi conosceva, dato che non appartenevo al gruppo di giovani studiosi che aveva creato attorno a sé negli anni della Cattolica e di cui faceva, invece, parte mio marito, Rusconi, anche lui di formazione filosofica, anche se da qualche tempo stavo collaborando con quest’ultimo alle ricerche sui processi di secolarizzazione e i gruppi religiosi giovanili. Avevo curato la parte empirica della ricerca su Giovani e secolarizzazione ed avevamo lavorato insieme a quelle confluite nel volume Ideologia religiosa e conflitto sociale. Non appartenevo neppure al gruppo di giovani sociologi del lavoro e delle relazioni industriali che si raccoglieva attorno a Baglioni, di cui facevano parte Manghi, Cella e Romagnoli. Quella di Alberoni era un’offerta «al buio», o sulla fiducia, per cooptazione e vicinanza, più che per diretta conoscenza.
Perciò, presi la mia chance e seguii i due gruppi (perché anche Baglioni si spostò) a Trento. è lì che è iniziata davvero la mia vocazione sociologica, anche se, da principio, come ho detto, mi fu chiesto di utilizzare le mie conoscenze filosofiche.
Perché sono diventata sociologa, quindi? Devo dire per merito, o colpa, o responsabilità, di Alberoni che, senza conoscermi realmente, mi offrì la possibilità di andare a Trento, in un periodo in cui sia il mio profilo professionale, sia la sociologia italiana erano in uno stato nascente, per usare una terminologia alberoniana ed anche la mia vita familiare era agli inizi: eravamo una coppia, ma non avevamo figli, perciò eravamo più liberi, entrambi, di muoverci ed anche rischiare. Questo lo devo ad Alberoni. Poi, ho preso le mie strade e gli argomenti, le ricerche di cui mi sono occupata nella mia carriera mi hanno plasmato, mi hanno fatto diventare la sociologa che sono oggi. Anche nella scelta dei temi da affrontare, il caso ha avuto il suo peso.
Direi che è stata una combinazione di incontri con persone significative e di occasioni talvolta del tutto impreviste.
In che modo la tua famiglia ha influenzato la tua formazione?
Per i miei genitori, che si erano fatti da sé avendo iniziato a lavorare giovanissimi, da bambini, lo studio era un importante strumento di emancipazione sociale. Mio padre si è laureato quando è nato il suo terzo figlio e mia madre la sera lo aiutava a ripassare. Aveva fatto solo pochi anni di scuola, ma era coltissima e curiosa, oltre che molto creativa. Hanno trasmesso a tutti noi figli il valore dello studio e l’ambizione (anche la pressione) a riuscire bene negli studi, a prescindere dall’essere maschi o femmine, oltre che l’amore per la cultura. La differenza di genere contava per la divisione del lavoro domestico, ahimè, e per il diverso grado di libertà concesso nelle uscite serali e simili, non per quanto concerneva l’investimento nello studio e nella formazione culturale. Eravamo in tanti, sei figli, ma, mentre ci insegnavano la virtù della modestia, dell’attenzione nel consumo, del non sprecare nulla, erano molto liberali con tutto ciò che poteva arricchire la nostra formazione. Ci hanno anche trasmesso il valore dell’assumere rischi, di non adagiarci in strade sicure. Se mi hanno incoraggiato ad andare un anno negli Stati Uniti, che loro non conoscevano e dove non mi potevano controllare, pur essendo genitori molto tradizionali dal punto di vista dei ruoli di genere, è proprio per l’altissimo valore che attribuivano al fare una esperienza formativa fuori dal comune. Per questo direi che, dal punto di vista dei modelli di genere, ho avuto una socializzazione familiare a dir poco ambivalente, il che non mi dispiace. Mi ha fornito le risorse sia per capire, sia per ribellarmi, sia per elaborare. Credo, inoltre, che l’appartenere a una famiglia grande, inserita in una forte rete di parentela, con tutte le sue complessità e articolazioni, abbia contato nel guidare il mio interesse per i meccanismi interni alla famiglia e anche per le differenze tra famiglie.
Nel tuo profilo di studiosa, la sociologia della famiglia rappresenta senz’altro un ambito di studi privilegiato; quando e perché sei arrivata ad occuparti di famiglia, ci sono degli autori che sono stati importanti?
Sicuramente, il sociologo William Goode e il demografo storico Peter Laslett. Sul piano dei rapporti intellettuali, c’è stata una persona cui sono debitrice non solo per l’occasione che mi ha offerto, ma per l’impronta che mi ha dato. Si tratta di Agopik Manoukian, uno dei primi, e più fini, sociologi della famiglia in Italia, anche se purtroppo ha abbandonato l’università. Anche lui era a Trento e mi chiese di collaborare con lui al corso universitario che teneva, appunto, di sociologia della famiglia, proprio quando l’interesse degli studenti per le questioni filosofiche stava scemando. Tenevo per e con lui dei seminari, delle lezioni per gli studenti lavoratori il sabato e la domenica e l’interesse per la famiglia ha cominciato a svilupparsi in questa collaborazione, per me molto affascinante. Manoukian è persona coltissima, curiosa, con uno sguardo interdisciplinare ampio e una forte consapevolezza storica. Sono tratti di cui gli sono debitrice e che ho continuato a coltivare, aggiungendovi una dimensione comparativa. Poi, lui è andato via e l’incarico di sociologia della famiglia è stato dato a me. Nel frattempo, ero entrata nel movimento delle donne e avevo incominciato a fare ricerca anche su quella che allora si chiamava la condizione femminile e, contemporaneamente, ho partecipato alle campagne referendarie sul divorzio, a quelle per la legalizzazione della contraccezione e, poi, dell’aborto, affrontando sul campo temi pressoché ignorati nella lettura sociologica, in particolare, in quella disponibile in italiano. è stata l’esperienza nel e con il movimento delle donne e la consapevolezza di quanto toccasse temi cruciali per l’assetto complessivo delle società a darmi una forte motivazione a occuparmi dei temi della famiglia in modo sistematico e a cercare di colmare il vuoto conoscitivo, non solo mio, ma entro la sociologia italiana e, in parte, nella sociologia nel suo complesso. Chi inizia oggi ad occuparsi dei temi della famiglia, della condizione femminile e dei rapporti uomo-donna non ha idea della carenza di materiale con cui ci si confrontava allora. Dipendevamo, per lo più, da una letteratura anglo-americana e, in parte, francese. I dati sull’Italia erano pochi e spesso interpretati per confronto con quelli statunitensi e con le interpretazioni allora prevalenti in quel paese. Oggi, per merito delle studiose e studiosi, ma anche dell’ISTAT, non ci si può certo lamentare della carenza di dati.
Intrecciare gli studi sulla famiglia e quelli sulle donne e la divisione del lavoro tra uomini e donne, non solo nell’Italia contemporanea, ma dal punto di vista storico e in prospettiva comparata è diventato, quindi, progressivamente il mio ambito di studi privilegiato ed, insieme, un tratto distintivo del mio profilo di studiosa. Questo approccio non mi ha sempre giovato sul piano accademico, visto che la sociologia della famiglia era non solo marginale, ma dominata da Ardigò, che non perdonava (come ha imparato a sue spese anche Manoukian) chi si riferiva ad approcci diversi dal suo. Figuriamoci, poi, se poteva accettare una visione, insieme storica e non pacificata della famiglia, come quella che proponevo io. Questa ostilità è stata di lungo periodo. Ho perso il mio primo concorso a cattedra da ordinario con motivazioni di tipo politico-ideologico e, soprattutto, con una modalità di fatto ingiuriosa, che condivisi con personaggi della statura di Melucci e Arrighi: pur di non farci vincere, la commissione rinunciò a coprire tutti i posti disponibili, di fatto, dandoci una patente di incapaci e inadeguati. Anche a Trento città non ero amata da tutti. Pensa che, il primo anno che mi fu dato l’incarico annuale di sociologia della famiglia, doveva essere il 1974, o 1975, un consigliere comunale fece una interrogazione chiedendo come fosse possibile che l’università, finanziata dalla provincia, desse un incarico su un tema così sensibile ad una che era notoriamente femminista e di sinistra, perciò, evidentemente, fonte di ogni nequizia. Una argomentazione non dissimile, per altro, fu sostenuta dalla allora sottosegretaria Sestini diversi decenni dopo, perché non venisse rinnovato a me e Barbagli l’incarico nell’Osservatorio nazionale sulla famiglia, che pure avevamo (specie Barbagli) fondato. Barbagli è un altro amico e collega con cui ho collaborato sui temi della famiglia e da cui ho molto imparato, sia per quanto riguarda l’interesse per la prospettiva storico-comparativa, sia per quanto riguarda l’interesse per il dato empirico.
Spiegaci meglio, cosa ha significato per te, come studiosa di sesso femminile, occuparti nel corso degli anni Settanta, e dunque in un periodo di forte fermento politico e sociale, di un tema che non solo era considerato «marginale» dai sociologi più influenti, ma che era anche in contrasto con l’approccio dominante, ossia quello cattolico.
Anche tra i sociologi più giovani e di sinistra i miei interessi sono apparsi del tutto marginali negli anni in cui muovevo i miei primi passi come sociologa. Una delle poche donne in un ambiente prevalentemente maschile e maschilista, mi occupavo di cose di poco conto, a detta degli altri, più influenti e più riconosciuti sociologi, quali la famiglia e le condizioni delle donne, invece che di classe e delle «classiche» disuguaglianze, o delle grandi teorie. A livello nazionale, i sociologi avevano iniziato a organizzarsi in modo informale. Eravamo un gruppo di giovani, per lo più di sinistra, che in seguito avrebbero concorso alla creazione dell’Associazione Italiana di Sociologia (AIS). Ricordo che quando c’erano le riunioni dei giovani sociologi, cui partecipavano persone che poi sarebbero diventate molto importanti – Beccalli, Balbo, Paci, Rositi, Cella, Romagnoli –, io mi sentivo sempre come una intrusa, guardata quasi dall’alto al basso: loro si occupavano di cose serie, di classi, di economia, eccetera. Io invece di questioni «private», politicamente e socialmente «irrilevanti». Eppure, nonostante il complesso di inferiorità, ho tenuto duro e non me ne sono mai pentita. Tra l’altro, proprio il mio approccio interdisciplinare e di genere allo studio della famiglia mi ha consentito, nel tempo, di interagire anche con studiosi internazionali, in sociologia, ma anche in storia e più tardi economia. Nel frattempo, anche alcune/i di coloro che allora si occupavano d’altro hanno iniziato a occuparsi di famiglia e/o di rapporti di genere.
Se l’affrontare temi sensibili come la famiglia e i rapporti uomo-donna essendo una donna, laica e di sinistra in una società, e in una accademia, relativamente chiusi non mi ha facilitato la carriera, le cose non sono state più semplici nel rapporto con il movimento delle donne. All’inizio, le difficoltà sono nate dal fatto che, per la maggior parte, erano più giovani di me, studentesse, mentre io, per quanto precaria, ero dall’altra parte della barricata. Inoltre, proprio perché lavoravo all’università, facevo una cosa che era del tutto disdicevole per quei tempi dentro al movimento delle donne, ovvero pubblicavo col mio nome, invece di celarmi/annullarmi dentro al movimento. Per di più, nonostante i miei testi avessero una ispirazione «militante», ambivano pur sempre ad essere testi di sociologia, argomentati sia empiricamente sia teoricamente, non dei pamphlet. Più tardi, le difficoltà sono intervenute sul piano teorico, rispetto al femminismo della differenza, da cui io ho preso sempre e subito le distanze. Nononostante queste difficoltà, tuttavia, e nonostante non abbia mai davvero militato in nessun gruppo, il femminismo è stato per me una importante esperienza formativa, sul piano intellettuale, oltre che umano. Certo non mi colloco tra le «femministe pentite».
Ma non ti sei occupata solo di famiglia e di rapporti di genere, come sei arrivata ad occuparti anche di welfare e poi di povertà?
Per noi che partivamo dal punto di vista delle donne, occuparci di famiglia ha significato inevitabilmente occuparci di welfare state, analizzato non solo come risorsa, ma anche come basato su impliciti o espliciti assunti relativi al modo di funzionamento della famiglia e della divisione di genere del lavoro. Questa è stata a lungo proprio una, positiva, specificità della sociologia della famiglia italiana e forse anche della sociologia dei rapporti di genere italiana, in larga misura per merito anche di Laura Balbo, prima che divenisse un approccio standard anche in altri paesi. Simmetricamente, e proprio per questo, l’attenzione per la famiglia e i rapporti di genere ha dato un’impronta specifica agli studi italiani sul welfare state, prima che Esping-Andersen indicasse nella famiglia uno dei tre ambiti che costituiscono il campo in cui si costituisce un regime di welfare.
L’altro grande tema di cui mi sono occupata e occupo, e per il quale in qualche modo sono riconosciuta, è la povertà. In questo caso, da parte mia non c’è stata, però, una scelta iniziale intenzionale: sono stata messa di fronte a questo tema «dall’esterno». Le «donne» le ho scelte io, la «famiglia» e «il welfare» sono arrivati come logica conseguenza. La «povertà» invece mi è arrivata del tutto inaspettata. Si potrebbe dire che sia stata la povertà a scegliere me, e all’inizio anche per ragioni, diciamo, improprie. Nel 1984, mi fu chiesto di far parte della prima Commissione di Indagine sulla povertà, presieduta da Ermanno Gorrieri. La presenza in Italia di uno dei movimenti di donne più attivi in Occidente, ed anche più impegnati sul piano sociale, aveva indotto il governo socialista, presieduto da Craxi, a inserire non solo una donna (in effetti, eravamo due, l’altra era l’economista Carmela d’Apice, che di povertà e disuguaglianza si occupava da tempo), ma quello che allora si chiamava «il punto di vista delle donne» in una Commissione che aveva il compito di occuparsi di povertà; tanto più che in quegli anni si iniziava a parlare, a livello internazionale, di femminilizzazione della povertà, ovvero di una sovra-rappresentazione delle donne tra i poveri. In una Commissione ove tutti rappresentavano qualche «parte» (per lo più «politica»), io ero stata indicata – non so da chi – per «rappresentare le donne». Ovviamente, questa compartimentalizzazione – o lottizzazione – era assurda sul piano tematico-conoscitivo. Perciò incominciai a studiare come una matta, per acquisire tutte le conoscenze possibili sulla questione della povertà. Ho imparato moltissimo da Ermanno Gorrieri, con cui ebbi una collaborazione per me splendida sul piano umano. Ovviamente, mi guadagnai subito le riserve di altri sociologi che da tempo si occupavano di povertà, tema per me assolutamente inedito, e che mi consideravano, in parte a ragione, una sorta di parvenu, se non una intrusa. L’interesse poi è continuato, non solo perché ho fatto parte anche di successive Commissioni (fino a presiederne una) e anche dell’Osservatorio europeo sulla esclusione sociale, ma perché la questione della povertà è diventata per me un oggetto vero e proprio di ricerca. Sul tema della povertà e delle politiche contro la povertà, ho anche coordinato un progetto europeo – ESOPO – in cui ho coniugato l’interesse per le politiche di contrasto alla povertà, quello per il funzionamento dei welfare nazionali e locali e quello per l’approccio longitudinale e del corso di vita, che, insieme alla prospettiva di genere e alla questione delle disuguaglianze, è uno dei temi trasversali a molti miei studi.
Come sei arrivata all’interesse per l’età e il corso di vita?
Posso dire di essere stata una delle prime in Italia ad affrontare la questione della dimensione dinamica del corso della vita. È un filone assolutamente consolidato negli Stati Uniti, fin dagli anni Cinquanta, mentre qui in Italia ha tardato molto ad arrivare e ad essere sistematizzato. Anche questo «incontro» intellettuale è stato casuale. Ero negli Stati Uniti, ad Harvard, nel 1982, durante un anno di congedo (avevo vinto una borsa di studio della German Marshall Foundation). Un giorno stavo cercando testi su famiglia, donne, eccetera, in queste magnifiche biblioteche statunitensi, con tutti i volumi a vista su grandi scaffali. Nello scaffale in cui stavo prendendo un libro, sono letteralmente inciampata in questa vastissima letteratura sull’età e il corso della vita, rendendomi conto che ero di fronte a un lavoro immenso, di cui non avevo mai sentito parlare prima. Per me è stata una rivelazione. Si tratta, più che di un tema soltanto, di un vero e proprio approccio, di un modo diverso di guardare alla costruzione dei rapporti sociali. Una volta appreso, non lo si può più ignorare. Inoltre, consente di studiare il rapporto macro-micro in modi più complessi che entro un approccio statico. Si pensi al fondamentale studio sull’impatto di lungo periodo della Depressione del 1929 fatto da Elder in Children of the Great Depression, o i relativamente più recenti studi di Modell, Mayer, Kohli e altri sulla istituzionalizzazione dei corsi di vita nei welfare contemporanei. Per me è stato un po’ come l’approccio di genere: ha cambiato la mia visuale, il modo di pormi le domande cognitive, su molte questioni.
Ho iniziato con il tradurre, per un reader, i testi fondamentali di questa letteratura. La prima edizione di Età e corso della vita è stata dapprima apprezzata più dai demografi che dai sociologi. Ancora una volta, come era successo quando avevo iniziato ad occuparmi di donne e rapporti di genere, mi si chiedeva che utilità ci fosse ad introdurre queste dimensioni nell’analisi sociologica. Ma poi, con il tempo, l’approccio del corso della vita ha cominciato ad essere utilizzato in modo più largo e in settori diversi.
In che misura occuparti di temi a lungo considerati di confine o marginali, come quello della famiglia, della povertà, dell’età e del corso di vita, dei rapporti tra i generi ti ha consentito non solo di adottare un approccio «aperto» alla contaminazione con discipline «cugine» (storia, psicologia, economia, demografia, antropologia, ecc.), ma anche incontrare e dialogare con tradizioni di studio diverse, dalla ricerca biografica (qualitativa) alla più recente ricerca quantitativa anche longitudinale?
Proprio la mancanza di una tradizione di studi consolidata su questi temi, soprattutto, ma non solo, in Italia, dava una certa libertà nel cercare sia approcci e letterature, che metodi di ricerca. Nel mio caso in particolare, il fatto di essere, all’inizio della mia carriera, una delle poche studiose/i in Italia ad occuparsi di famiglia in termini storico-comparativi ha sollecitato l’interesse per il mio lavoro di storici e demografi, in Italia e all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Questo ha arricchito non solo le mie reti intellettuali di riferimento, ma anche i miei orizzonti conoscitivi. Analogamente, e forse ancora di più, l’occuparmi di donne e questioni di genere nel periodo in cui, accanto ad un attivo movimento delle donne a livello internazionale, si stava formando anche una attiva e articolata, multidisciplinare, comunità scientifica, mi ha messo in contatto con approcci disciplinari, metodologici e anche teorici diversi. è una caratteristica che credo di condividere con molte studiose della mia generazione. Non ho mai privilegiato esclusivamente un metodo su un altro. Dipende dalla domanda conoscitiva. E spesso ho cercato di intrecciare più approcci. Devo aggiungere che io non ho molta competenza nei metodi quantitativi, anzi pressoché nulla sul piano pratico. In questo ho dovuto sempre affidarmi a coloro, più competenti di me, con cui ho lavorato. Credo però che le mie domande di ricerca abbiano fornito qualche sollecitazione a chi quei metodi sa usare.
è stato molto utile, per me, sia sul piano dell’approccio multidisciplinare sia su quello dei metodi, anche l’essere coinvolta in organismi come la Commissione povertà, l’Osservatorio europeo sulle politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, il Working Party on Social Protection all’OCSE e il Social Protection Committee presso l’Unione europea, dove per un periodo ho rappresentato l’Italia. Queste esperienze, oltre a consentirmi uno sguardo dal di dentro sui processi di formazione delle decisioni politiche, mi hanno anche sollecitato ad una maggiore attenzione al rapporto che c’è tra la qualità dei dati e non solo la ricerca, ma la definizione e il monitoraggio delle politiche. Una esperienza simile, anche su scala più piccola, mi è stata consentita dalle richieste di consulenza sulle politiche sociali da parte di amministrazioni pubbliche, spesso locali, ovvero nel rapporto difficile ma importante tra analisi e policy-making. Anche la collaborazione con l’ISTAT per la messa a punto delle indagini Multiscopo e, più recentemente, per la messa a punto degli indicatori necessari a monitorare il Benessere equo e sostenibile (BES) è stata molto importante.
Ci sono almeno due tratti distintivi che hanno caratterizzato il tuo profilo di sociologa su cui credo concorderebbero molti dei colleghi e delle colleghe che ti conoscono. Il primo è l’ampio riconoscimento internazionale che hai avuto e le solide reti di ricerca in cui sei stata immersa. Il secondo, che è un po’ l’eredità che lasci almeno all’Università di Torino, è l’aver contribuito a costruire dei veri e propri gruppi di studio e di ricerca, e l’aver contribuito a far dialogare generazioni diverse di studiosi/se (qualcuno ha parlato della «scuola-gruppo Saraceno»), che rapporto c’è tra i due tratti?
Beh, non esageriamo sull’ampio riconoscimento internazionale. Ne ho ottenuto un po’, soprattutto negli ultimi anni, e non nascondo che il fatto che la British Academy mi abbia accolto tra i suoi membri stranieri mi ha insieme stupito e inorgoglita, così come era avvenuto in precedenza, quando il Wissenschaftzentrum für Sozialforschung di Berlino mi ha chiesto di fare domanda per la posizione di professore di ricerca. Ma continuo ad essere una stella molto piccola nel firmamento sociologico internazionale. è vero che, negli anni, ho sviluppato rapporti di ricerca internazionale, entro reti in parte diversificate e in parte sovrapposte e che mi sento parte di una comunità internazionale – per molti versi più che italiana – di studiosi. Proprio questa esperienza mi ha portata, per così dire «naturalmente», a sollecitare a far parte di queste reti o a costituirne di proprie le persone con cui lavoravo. Non sono mai stata gelosa dei miei allievi. Anzi, quando se ne è presentata l’occasione vi ho sempre incoraggiato ad andare ad imparare da qualcun altro, a fare un’esperienza altrove. Nella misura del possibile, ho sempre utilizzato le mie reti anche come risorse per altri. Tu sei forse stata la prima che ho mandato all’estero, quando Peter Flora mi ha chiesto se c’era qualche mio neo-laureato che poteva andare a lavorare con il suo gruppo a Mannheim. Poi sono venute le occasioni dei gruppi di ricerca internazionali costituiti attorno a progetti finanziati dall’Unione europea. Allora è stato non solo più facile, ma anche necessario, coinvolgere altri. Devo dire che è stato più facile con i più giovani che non con i miei coetanei e coetanee, forse perché più disponibili ad arrischiarsi sulla scena internazionale, a mettersi in gioco, a misurarsi non solo con altri approcci, ma anche altri standard. Quanto all’aver creato una scuola, può darsi, se c’è qualcuno che si riconosce non tanto mio allievo/a, tanto meno discepola/o, quanto come proveniente da un metodo di lavoro. Non posso, per altro, non ricordare che se a Torino c’è stata una «scuola», è stata, per molto tempo, una «scuola Negri-Saraceno». Con Nicola Negri abbiamo formato, a livello torinese, ma anche in parte italiano, persone interessate alle politiche sociali con un approccio ad ampio spettro: dalle dimensioni istituzionali a quelle applicative, dall’attenzione per i modelli impliciti valoriali e comportamentali che presumono o incentivano a quella per i processi di attuazione e i tipi di impatto. Abbiamo anche formato funzionari locali all’attenzione per il dato empirico, alla necessità di documentare, monitorare e valutare l’attuazione delle politiche – in un periodo in cui in Italia queste cose erano poco praticate.
In sintesi, cosa caratterizza la tua storia?
Riflettendo retrospettivamente, tutto sommato, se dovessi dire che cosa ha contribuito, a prescindere dai contenuti, al mio profilo intellettuale, credo sia stata la mia posizione di straniera, che non considero una virtù, ma che riassume bene ciò che mi è capitato. Sono a lungo stata, diciamo, «sulla porta», in uno stato né di appartenenza né di non appartenenza a una categoria, a un gruppo, ad un settore disciplinare, ad un approccio. Uno degli aspetti positivi di questa situazione è la libertà di scelta. Come donna, mi muovevo in un mondo di soli uomini; ero sposata, quando non era di moda farlo dentro al movimento femminista; nel movimento femminista, ero percepita non come una di loro, ma al margine; ho avuto figli, quando dentro al movimento la maggior parte o era troppo giovane per pensarci, o li aveva già avuti e rivendicava l’importanza di dedicarsi ad altro. Alla riscoperta della maternità da parte del movimento, io avevo le figlie già grandicelle. Tra i sociologi, mi occupavo di temi «marginali» rispetto a quelli ritenuti importanti, ed insieme rischiosi rispetto all’ideologia dominante, anche nell’accademia. Sono stata spesso l’unica, o la prima donna in contesti tutti maschili. Nei contesti internazionali, ero la studiosa meridionale, appartenente ad un paese cui si riconosceva un grande passato sul piano intellettuale, ma che nel presente era considerato, se non del tutto irrilevante, marginale, cui corrispondeva anche una arretratezza nei settori sociali di cui mi occupavo: la posizione delle donne, la famiglia, il sistema di welfare. Il dover in qualche modo sempre legittimarmi mi ha dato una dose di aggressività che mi rende forse anche un po’ antipatica, ma che mi ha anche consentito una certa libertà interiore. Sapere di essere sempre sotto osservazione e guardata di sottecchi, potremmo dire, mi ha spinto a fare sempre meglio le cose di cui mi occupavo, a non lasciare nulla di scontato e a difendere le posizioni che di volta in volta andavo assumendo. Inoltre, sapere di fare delle cose che comunque non erano considerate «importanti» mi ha reso un po’ più laica verso le mie stesse attività di ricerca, consentendomi di avere libertà anche dal mio stesso lavoro e dai miei stessi interessi, insomma consentendomi di guardare al mio lavoro con passione, ma anche con un utile distacco.
Benché abbia pagato prezzi anche elevati per questa mia posizione di «straniera», tutto sommato direi che sono anche stata molto fortunata, negli incontri che ho fatto, nelle occasioni che mi sono state date, inclusa l’ultima, quella del Wissenschaftzenntrum Berlin für Sozialforschung, che mi ha permesso di passare gli ultimi cinque anni della mia carriera professionale formale dedicandomi solo alla ricerca in una città così interessante come Berlino – e senza sapere il tedesco!
Se dovessi descrivere che cosa mi caratterizza professionalmente direi la curiosità, la disponibilità a rischiare, la tenacia. La curiosità e la voglia di rischiare, di cui sono in buona misura debitrice anche ai miei genitori e alla mia formazione familiare, mi hanno consentito di cogliere le occasioni anche impreviste. La tenacia mi ha consentito di non perdermi. Ho un forte senso del dovere e sono anche orgogliosa, ahimè. Quando mi sono trovata in situazioni anche molto difficili, come per esempio l’incontro con il tema, allora per me sconosciuto, della povertà, ho comunque reagito in modo forte: una volta preso l’incarico, dovevo portarlo a termine nel migliore dei modi. Ho sempre voluto poter dire la mia su tutto. Confesso che ho un forte senso di me, della mia dignità. Ci sono state e ci sono anche molte insicurezze. Ma ciò che per me è sempre contato è non farmi mettere i piedi in testa da nessuno e, per reazione, ho sviluppato questo misto di orgoglio, senso del dovere e, a volte, durezza che mi caratterizza e del quale in fondo non mi rammarico.