Alberto Abruzzese è uno dei più autorevoli e prestigiosi protagonisti degli studi sociologici e mediologici italiani, acuto analista dei meccanismi di produzione dell’immaginario e dei problemi e della complessità del sistema comunicativo contemporaneo. Nato a Roma nel 1942, ha iniziato la sua carriera come studioso di letteratura, interessandosi fin dal principio al rapporto tra produzione e consumo e alle implicazioni per la comprensione dei processi culturali e dei mutamenti sociali attraverso il teatro, il cinema e la televisione. Autore di studi sociologici, antropologici, storici, tecnici ed estetici, è da sempre impegnato sui problemi della comunicazione in rapporto alla società e ai conflitti politici.
In questo ambito è stato docente per circa quaranta anni, fino al 2012. Per oltre venti anni, ha insegnato all’Università degli Studi Federico II di Napoli, per tredici anni (fino al 2005) presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma, che ha anche presieduto e poi presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, dove è stato Prorettore per lo Sviluppo, l’Innovazione e l’Internazionalizzazione del Sistema, nonché Preside della Facoltà di Turismo, Eventi e Territorio.
Ha svolto attività di ricerca nazionale e internazionale, collaborando con prestigiose università, quali l’Università di San Paolo del Brasile, la Sorbonne di Parigi, la Universidad Complutense de Madrid.
Ha diretto e dirige collane sui media con gli editori: Liguori, Costa & Nolan, Edizioni Lavoro, Luca Sossella Editore, Meltemi. Per Zanichelli, ha curato con Fausto Colombo il Dizionario della pubblicità. Storia, Tecniche, Personaggi (1994). Per UTET Grandi Opere, ha curato il volume EXPO 1851-2015. Storie e immagini delle Grandi Esposizioni, dedicato alla storia delle Esposizioni universali dalla loro nascita ad oggi; il volume Giubilei. Spiritualità, storia, cultura, dedicato alla storia e alle innovazioni sociali, politiche, culturali e artistiche legate al Giubileo in oltre settecento anni; il Grande dizionario enciclopedico UTET. I grandi temi del secolo.
Accanto al lavoro di docente, ha svolto attività di ricerca su temi come varietà, telefilm, palinsesto, soap-opera, ecc., per la RAI e per Mediaset, per il CNR e per il Ministero dei Beni Culturali. Per la Telecom, ha coordinato il Comitato Scientifico del Summit della Comunicazione negli anni 1997, 1998 e 1999. È stato Consigliere di Amministrazione del Teatro Stabile di Roma e Membro della Commissione Cultura della CEE. È stato ideatore e consulente di eventi, ha organizzato mostre, convegni e seminari nazionali e internazionali. Ha ideato e realizzato programmi radiofonici e televisivi, occupandosi anche di sceneggiature nel campo della fiction cinematografica e televisiva. Ha scritto articoli per diversi quotidiani e riviste, tra cui Il Mattino, Il Manifesto, Rinascita, Il Corriere della Sera, Il Riformista.
Tra le sue opere, mi limito a ricordare qui: Forme estetiche e società di massa (Marsilio 1973); La Grande Scimmia. Mostri, vampiri, automi, mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione (Napoleone 1979); Verso una sociologia del lavoro intellettuale. Materiali per una sociologia del lavoro intellettuale negli apparati dell’informazione (Liguori 1979); Lo splendore della TV. Origini e destino del linguaggio audiovisivo (Costa & Nolan 1995); Analfabeti di tutto il mondo uniamoci (Costa & Nolan 1996); L’Intelligenza del mondo, fondamenti di storia e teoria dell’immaginario (Meltemi 2001); Lessico della Comunicazione (Meltemi 2003); L’occhio di Joker. Cinema e modernità (Carocci 2006); Educare e comunicare. Spazi e azioni dei media (Mondadori 2008, a cura di, con Maragliano); Contro l’Occidente (Bevivino, Milano, 2010); Punto zero. Il crepuscolo dei barbari (Luca Sossella Editore, 2015); Kolapsoj. Dialogo sulle emergenze (Luca Sossella Editore, 2017).
Come vuoi che ti definisca? Come ti pare più giusto essere presentato all’inizio di questa intervista sulla tua vita di docente, ricercatore e studioso dei media? Come tra i più autorevoli e più noti?
Ti ringrazio di non essere partito subito col darmi il titolo di sociologo. Non lo merito per il mio carattere indisciplinato e insieme per una mia scelta di metodo: affettiva e teorica, vocazionale più che professionale. Ma su questo dovremo necessariamente soffermarci più avanti. Senza assecondare troppo l’abitudine, invero assai poco accademica, di fare mostra di modestia, potrei cedere invece alla tentazione narcisista (inclinazione che ritengo comunque da difendere) di essere definito ricorrendo all’autorevolezza e alla notorietà. In verità queste sono due qualità, che – diverse l’una dall’altra ma troppo spesso artificiosamente confuse tra loro sino ad appiattirsi reciprocamente – si adattano solo per difetto alla mia persona. In campo accademico (l’istituzione universitaria, il suo sistema di funzioni, pratiche e valori) non ho certo goduto di particolare autorità e tanto meno oggi, che sono uscito dal ruolo. Ho ottenuto vari gradi gerarchici in varie università italiane, ma assai spesso in base a logiche per così dire automatiche, se non impiegatizie. Quanto a notorietà – quella che si conquista attraverso i media veramente grandi – di certo non ne ho avuta e non ho saputo averne mai abbastanza per potermene davvero vantare e per farla fruttare nel campo accademico-istituzionale-professionale (tanto meno sul fronte dell’opinione pubblica e dunque della politica). Non me ne faccio un merito, anzi sono convinto che sia stato uno dei miei più gravi limiti. Dovuto a incapacità e forse persino a un personale deficit di senso di responsabilità (volere è potere). C’è stata tuttavia una fase in cui non è stata l’area universitaria a favorire o frenare il mio successo personale, ma quella del dibattito politico-culturale. Sono stati gli anni in cui la mia posizione di «intellettuale di sinistra» (amo assai poco definirmi così, ma tant’è) – anzi intellettuale comunista, iscritto e (moderatamente) militante – si è schierata contro le posizioni che connotavano la cultura del PCI, dei suoi apparati nazionali e locali e dei suoi movimenti e mezzi di comunicazione, dei suoi organi di informazione, insieme ad associazioni e sindacati. Due esempi significativi: 1) il dibattito sulla TV negli anni di crescita della sua influenza sociale sulla opinione pubblica, in cui la sinistra ha spiccato per le sue interdizioni ideologiche (impasto tra complesso di inferiorità, presunzione elitaria e populismo), scegliendo una strada che è ora confluita, sostanzialmente tale e quale, anzi forse persino incancrenita, nelle posizioni meccanicamente umanistiche assunte nel tentativo, frustrato e frustrante, di fronteggiare la dimensione delle reti con l’illusione che questo significhi poter combattere la potenza post-democratica della globalizzazione e l’insorgere di incontrollati sovranismi e populismi; 2) la scelta di schierarmi del tutto a favore dei linguaggi dell’effimero promossi dall’Estate Romana di Renato Nicolini. Scontri spesso aspri nei miei confronti e che come effetto avevano finito per darmi una notorietà proporzionale alla forza delle loro interdizioni (il cattivo vizietto comunista che, si parva licet componere magnis, ha fruttato non poca fortuna all’avvento di Berlusconi e ora di Salvini).
Comunque, i margini di autorevolezza e notorietà di cui ho goduto e di cui, entro certi limiti, continuo ancora a godere mi sono venuti piuttosto dal contatto reciproco tra me e le singole persone via via diversamente coinvolte – nell’arco di decenni e decenni – nel mio lavoro di docente. Sì, di docente più che ricercatore o saggista. E questo perché credo che la professione di docente sia fondata (o almeno dovrebbe fondarsi) proprio sulla specifica necessità di un diretto, immediato e reciproco intrattenimento con l’altro da te. A volte i colleghi, coetanei o meno, con cui ho familiarizzato, ma soprattutto i giovani che da miei studenti sono poi diventati professionisti (in distinti settori e ruoli della comunicazione o dei beni culturali), oppure sono entrati a loro volta nell’università a diversi gradi di carriera e responsabilità.
Cerco di spiegarmi. L’etimologia della parola «docente» mostra un’apertura maggiore del significato che ha finito per prevalere sulle sue diverse sfumature. Nell’atto di in-segnare, indicare, mostrare, c’è o comunque dovrebbe esserci non la dimensione di un agire verticale ma la condivisione di una ricerca di senso da realizzare insieme, senza separazioni gerarchiche tra persona e persona. Tale, dunque, da far cadere ognuna delle barriere sapienziali, storiche e istituzionali, che la tradizione moderna ha costruito nella distinzione tra il ruolo di docente e quello di discente. Quindi, penso che proprio il presupposto e l’obiettivo di spezzare ogni distanza tra docente e discente si debba basare su una vocazione personale decisa a premere ben oltre i recinti – fisici e mentali, istituzionali e ideologici – dell’aula universitaria e, dunque, di ogni altra recinzione strumentale imposta all’attività professionale, ai suoi saperi e alle sue pratiche. E allora, se in questa conversazione devi proprio fare riferimento a qualche mia dote, attribuiamola al mio ruolo di docente che almeno, per quanto inficiato dalla sua stessa etimologia, è più dinamico e aperto rispetto a quelli del ricercatore o dello studioso. Oggi avrei voluto sapere fare assai meglio il docente piuttosto che il saggista. Ma quanto ho detto ora sul docente avrebbe dovuto essere soltanto una premessa, un punto di partenza, per realizzare un piano di lavoro in grado di funzionare come strategia, invece che come mia inclinazione personale. Ho fallito e, uscito dall’insegnamento, solo la frequentazione delle reti mi illude di avere trovato una via d’uscita. Fallire? Nel senso di scivolare e cadere lungo il percorso prescelto. Un venire meno della via e dunque della meta o un venire meno della meta e dunque della via. Mancare la promessa fatta a se stessi e contrattare con la committenza che ti ha fatto credito. Non pagare il proprio debito logora il proprio lavoro intellettuale. Lo sfinisce. E, infatti, a un certo punto m’è venuta meno anche l’energia necessaria a scrivere un breve saggio, figuriamoci un libro. Credo comunque che il saggio sia qualcosa di molto diverso da un «trattato» o «manuale»: di conseguenza, credo di avere declinato verso il saggio anche quando ho pensato di scrivere qualcosa di didattico in chiave sociologica o storica, e persino qualcosa di narrativo, che pure ho sporadicamente tentato di realizzare proprio nell’illusoria speranza che una radicale sterzata sul piano della fiction mi portasse altrove. Dunque, ho scritto e riscritto sempre lo stesso saggio? Forse. E forse per questo ho pubblicato libri in cui spesso reintegravo saggi precedenti: un modo rozzo di trattenere le tracce lasciate alle mie spalle. Ora – con intenzioni rovesciate – mi viene la tentazione – ma con assai meno energia di quanto servirebbe – di prendere un qualche mio testo e, alla stessa maniera ma molto più esasperata del correttore di bozze, riscriverne ogni segmento sino a sommergere la sua tessitura iniziale con e in altre tessiture. Ricavare il massimo possibile dalla polifonia di un testo che si crede di essere stati i soli ad avere pensato e composto. E allora, quanto più esso è passato, scaduto, morto, proprio a ragione di questo sentirsi obbligati non a dare voce alle sue ceneri ma a spazzarle via con altre ceneri. Tuttavia, non so quanto tutto ciò possa mai aiutarmi a pagare i miei debiti.
Ecco la mia prima domanda: chi volesse fare una «sociologia» di Alberto Abruzzese di quali fattori generazionali, immaginari e culturali dovrebbe tener conto per raccontare la tua biografia ideale e intellettuale? Nato durante la Seconda guerra mondiale, ti sei formato nell’Italia del boom economico e laureato alla vigilia del ’68: un testimone privilegiato di un’epoca di grandi mutamenti sociali…
La tua domanda richiama una tradizione sociologica (la «sociologia dell’autore») forse oggi meno alla moda perché ispirata a una sociologia del libro ancora molto pesante e convinta di sé. Un approccio che vorrebbe trovare, se non le radici della mia personalità, almeno un qualche suo tratto biografico distintivo proprio nelle tre emergenze storiche che in ordine hanno fatto da ambiente alla mia nascita, infanzia e infine formazione intellettuale. E quindi: sono stato un testimone privilegiato di una generazione nata nella Seconda guerra mondiale, cresciuta nel boom economico, maturata nei movimenti del Sessantotto? No o almeno solo in parte, marginalmente. Ma anche sì, persino acutamente (come ho prima accennato), tuttavia proprio sul versante che lo standard dell’uomo di cultura è meno disposto a ritenere un titolo di merito. Quanto alla nascita, per ragioni di fortuna (o disgrazia?), ma soprattutto essendo in condizioni economiche da ceto medio, ero troppo protetto, oltre che troppo piccolo d’età per ricordare la guerra e i suoi terribili traumi (al massimo, un pallido ricordo della mia famiglia nell’aprire i pacchi di cibarie in scatola che i valdesi d’America mandavano alle comunità valdesi di Roma). E tanto a lungo mi protessi e venni protetto – affogato nel privato – da potere dire di essermi svegliato solo molti anni dopo la guerra. A gran parte della mia infanzia, vita scolastica compresa, s’addice il distorto, tetro e sinistro ritornello «il resto è silenzio». Riguardo alla formazione intellettuale, mi sono laureato in ritardo, da «fuori corso» e in realtà sono stato «fuori tempo» anche rispetto ai ritmi dei giovani del Sessantotto, dalle loro originarie evoluzioni alle loro successive involuzioni. Non andavo in piazza a prender botte dalla polizia perché mi sentivo nuova generazione, ma ci andavo soltanto perché pensavo di essere responsabile di chi appunto mi aveva generato. Insomma, ero un conservatore, appena un poco illuminato da una educazione valdese e da una conseguente militanza comunista. Ma ecco, credo invece che quanti siano interessati a trovare un buon materiale di riferimento, comunque attinente, utile a fornire elementi significativi in vista di una mia biografia intellettuale, possa partire dall’immersione della mia vita quotidiana nei ritmi del boom economico. Che in altre parole ha significato godere da subito di una forte immedesimazione nelle forme espressive dell’industria culturale e dei media di massa. Sempre a voler fornire un qualche utile dato biografico, mi pare significativo il fatto che la mia educazione «sentimentale» abbia trovato in mia madre, insegnante di lettere, la spinta a leggere libri (ma a odiare la scuola) e ad ascoltare musica classica (ma nella prigione della mia stanza), mentre invece abbia trovato in mio padre un modello di vita puritano (un mix tra etica protestante e piccole ritualità valdesi), ma insieme lo stimolo ad amare intensamente il cinema. Quello hollywoodiano, che – per un puritano ex peccatore, giocatore d’azzardo e rubacuori come lui – funzionava da quotidiana valvola di scarico emotivo, sfogo erotico. Da libero accesso al desiderio di provare piacere e al piacere di provare desiderio.
Parlaci delle persone che hanno inciso sulla tua formazione culturale. Quali autori ritieni siano stati più significativi per i tuoi studi? Ci puoi indicare tre libri che a tuo avviso non dovrebbero assolutamente mancare nel bagaglio di conoscenze di chi oggi si occupa di scienze della comunicazione? E perché?
Gli autori sono maschere di persone e la lettura come bisogno di piacere cerca la persona che si cela dietro l’apparato autoriale. Cerca il protagonista da vivere ancor più della vita del protagonista. Il mio rapporto personale con gli autori consisteva nel personalizzarli, in quanto esclusiva fonte di diletto per me stesso. Potenziamento della mia immaginazione. Le mie letture tendevano a essere appunto da dilettante, oscurando il contesto oggettivo di quegli autori (tutto ciò che avrebbe dovuto farmi accedere ai testi attraverso bibliografie, storie e critiche letterarie, cioè attraverso una adeguata preparazione, educazione alla lettura). Ero io a contestualizzarli in me, nella mia immaginazione. Ad esserne la scena e la messa in scena. In questo senso, credo significativo il fatto che la mia prima ventata di letture giovanili sia consistita soprattutto nel consumo di testi teatrali: dai classici greci a Shakespeare, a ?echov, a Ibsen, a Strindberg, a Pirandello e via dicendo, sino a Jarry, o Ionesco, o Beckett. Il testo teatrale – assai più libero, paradossalmente, dai vincoli della narrazione al buio – mi metteva a disposizione marionette (ci fu anche Kleist nelle mie letture) da disporre e muovere a mio piacimento. Il rapimento personale che provavo nei loro confronti non aveva nulla a che vedere con la loro effettiva esecuzione, messa in scena. Ero io il regista e ancora non andavo a teatro. Ma forse – paradossalmente – proprio questa peraltro abominevole ignoranza mi consentì, vari anni dopo, l’esperienza di diventare critico teatrale, non a caso nella stagione in cui la scena italiana sommerse il teatro di parola a tutto vantaggio del teatro di immagine. Così pure è accaduto iniziando a leggere pagine di narrativa alla ricerca narcisista di situazioni immersive. Procedevo per serendipity, ben lontano dalle tracce che mi venivano dalla scuola e anche dal sentito dire: per me contava assai più sfogliare i testi della BUR che, così copiosi, in quegli anni erano esposti in appositi scaffali meravigliosamente grigi. Il contatto scolastico con la lettura era un obbligo e, quindi, il piacere andava cercato e trovato altrove. A questa mia inclinazione devo l’incontro con narrazioni che mi hanno influenzato, formato per via di me stesso, assai più dei primi testi che lo studente di una facoltà di lettere avrebbe di lì a poco avuto l’obbligo di leggere e che, di poi, un laureando-laureato-ricercatore avrebbe voluto e dovuto trovare essenziali per il proprio percorso intellettuale e professionale. Insomma, per stringere la rosa dei libri in una triade, è stata la lettura di tre autori per me oltremodo appassionanti, come Poe, Hawthorn, Stevenson a costituire le basi del mio profilo culturale. E questo assai prima di scegliere come maestri per me ideali la triade fulminante di Lukács, Benjamin e McLuhan, oppure di entrare in confidenza, sintonia, con sociologi, quali ad esempio Morin e de Certeau (una linea di sociologi, questa, fuori norma, multidisciplinari, che arriva sino a Maffesoli e che hanno fatto da utili collettori del pensiero antropologico più sensibile ai regimi lunari invece che solari, orizzontali invece che verticali, della vita umana e sociale). Una triade – gli autori di L’uomo della folla, Wakefield, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde – che portava con sé e trasmetteva una densità straordinaria di riferimenti sulla modernità passata e a venire. Era significativo che l’attrazione per questi autori scattasse spontaneamente in chi avrebbe amato in modo particolare la letteratura fantastica e d’avventura (quella, scritta e disegnata, che era definita un genere per l’infanzia e che, invece, era proprio l’infanzia della civilizzazione industriale nel suo rapido sviluppo, ovvero già in uscita dalla sua prima maturità). E dunque dall’immaginario collettivo di quella letteratura di consumo ero indotto, per così dire naturalmente, d’istinto, a risalire alla lettura degli autori d’eccellenza che più avevano funzionato e sempre più avrebbero funzionato da interpretazione critica della vita metropolitana e da introduzione della vita «nuova» (appunto «moderna») vissuta con l’avvento delle piattaforme espressive del Novecento. Sarei potuto partire dal grande Simmel per arrivare a quelle letture, ma la mia fortuna è stata che, partendo da Poe, Hawthorn e Stevenson, pur «senza sapere», ho rovesciato il percorso: sono convinto di dovere a tale inversione di esperienze quel poco o, come spero, quel qualcosa che sono riuscito a capire dei media. Ovviamente, sto semplificando per riuscire a dare una impressione d’insieme della mia formazione che, in massima parte, è stata una auto-formazione rispetto alla quale le discipline umanistiche apprese all’università hanno avuto un peso relativamente minore. Avere fatto crescere la mia infanzia (penso che in me si sia protratta a lungo e probabilmente troppo rispetto alla media dei miei coetanei) dentro l’immaginazione del cinema hollywoodiano – e di alcune punte espressive del cinema tedesco e sovietico, intrise com’erano di mirabili forme d’avanguardia – aveva funzionato da immersione molto partecipe nella dimensione metropolitana, segnando il percorso inconsciamente selettivo delle mie letture. Appunto, Wakefield di cui anni dopo mi sarei ben ricordato (l’incidentale esilio dell’essere umano dalle leggi dell’universo) vedendo il musical Rocky Horror Picture Show. E Poe che, insieme a Stevenson, avrebbe segnato la mia costante attrazione per i repertori del cinema fantastico (il sottotitolo del mio saggio La Grande scimmia ne elencava tutte le figure emergenti dalla letteratura al cinema, alla TV e oltre: Mostri, vampiri, automi, mutanti). Procedevo da una suggestione visiva all’altra e, più o meno, ho continuato sulla stessa linea. Al centro delle mie infatuate indagini c’era e c’è sempre più l’attrazione per l’immaginario collettivo occidentale: il Maelström di Poe tornava in quello di McLuhan, letto nello stesso spirito dell’Angelus Novus benjaminiano. Ma forse conviene infine che dica, per quanto forse sia confessione secondo molti disdicevole, quella che allora era una mia frequente modalità di lettura. Conservo, ad esempio, un preciso ricordo di me che leggo L’anima e le forme di Lukács e, giunto a un mio personale punto di massimo trasporto emotivo per quell’appassionante testo, mi arresto. Basta: non vado più oltre nella lettura e fantastico altrove, ripromettendomi di ritornarci e finirla solo dopo avere abbastanza vissuto. La mia formazione è una catena di questi intervalli di percorso – pause, vuoti – e insieme squarci di immaginazione. Forse, proprio per queste mie extra-vaganze, passando via via di lettura in lettura ad autori di ambito francese (Lyotard, Deleuze e Derrida), ho sempre più amato il fatto che, nelle loro trame di pensiero, tanto deliranti da risultare, almeno a me, in parte persino incomprensibili, al tempo stesso ho trovato la straordinaria capacità di esprimere l’inesprimibile, scoprire il non detto, aprire l’indicibile, costituendo in tal modo una vera e propria eccezione rispetto alla massima parte della saggistica europea e anglofona.
Gli studiosi di «Sociologia della Comunicazione di Massa» (come allora si chiamava la disciplina di area sociologica che hai iniziato a insegnare a Napoli a partire dalla Sociologia dell’Arte e della Letteratura) hanno mostrato una irresistibile coazione a pensare e, di conseguenza, più o meno inconfessabilmente, a contrastare i vari ambienti mediali come progressive deviazioni dalle loro norme sapienziali, quasi che il proprio mandato disciplinare consistesse nel presidiare i confini della civiltà, identificandola con i valori e l’ethos della scrittura. A differenza della maggioranza degli studiosi del settore, tu hai lavorato a lungo per disvelare il carattere mediale della scrittura, anch’essa una specifica piattaforma comunicativa che, però, si è conquistata (con tutta la violenza che c’è in questo termine) il rango di regime di senso universale. Parlaci del tuo rapporto scientifico e personale con la scrittura.
Del mio rapporto personale con la scrittura abbiamo già parlato. Sul piano scientifico, il mio contributo è consistito nell’elaborare una teoria in cui le differenze tra scrittura, oralità e immagine sfuggissero a ogni preconcetta ideologizzazione dei diversi mezzi, osservati sincronicamente e diacronicamente, nello spazio e nel tempo. Ed, anzi, ne valorizzassero le difformi modalità di espressione in un unico disegno (alla fortunata locuzione «piano del Capitale» oggi preferisco quella di «design dell’esperienza»). Detto con una battuta, il potere si serve di ogni forma espressiva a misura dei suoi fini di controllo sociale. I media sono i territori che il potere assoggetta, crea e, trasformato, trasforma attraverso i media stessi. L’immagine del Leviatano funziona anche come rappresentazione delle voci che si affollano nel suo Corpo Sovrano. In principio, al centro della mia storia e sociologia dell’industria culturale c’è stato il tentativo di leggere i media moderni seguendo gli sviluppi della scrittura in rapporto con le altre forme espressive, traduzioni e tradimenti di senso. Evidente che questo approccio implicava dover assegnare da subito un’assoluta centralità alla funzione della rivoluzione gutenberghiana lungo l’asse della civilizzazione occidentale, a partire dallo snodo rinascimentale e, dunque, di conseguenza partire dal momento in cui la stampa di massa ha iniziato a offrire una piattaforma comunicativa in grado di connettere tra loro ogni altra forma espressiva per mezzo della scrittura. Medium forte di chi aveva in mano il potere. Lo schema evolutivo ha comportato l’indagine sulle capacità dell’alfabeto di evocare e trasmettere immagini. Illustrazioni e fotografia – con il carico delle loro diverse radici – hanno goduto della divulgazione scritta (socializzazione) e questa è cresciuta in un mix sempre più intenso comunque legato alla carta, alla sua funzione di supporto della parola viva. Carta e territori: espansione della sensibilità metropolitana. A questa lunga fase subentra lo sviluppo onnicompresivo della riproducibilità tecnica. La regola è che ogni innovazione tecnologica porta con sé i fini delle precedenti tecnologie «ricombinandole» e ampliandone la potenza di socializzazione: l’avvento del cinema ha alle sue spalle le lanterne magiche e i panorami. Ne assorbe le finalità di persuasione «religiosa». La letteratura sul cinema delle origini e poi sul suo definitivo avvento ha spesso inaugurato l’idea (ripresa anche dalla letteratura sulla televisione) che il linguaggio delle immagini organizzato come montaggio di immagini segnasse la progressiva crisi della scrittura come piattaforma di ogni narrazione. Da parte mia, ho invece ritenuto che fosse più corretto – e sociologicamente, oltre che esteticamente, utile (è d’obbligo il debito che si deve alle analisi storico-teoriche di Franco Moretti sulla scrittura del romanzo nel suo cedere alla complessità espressiva della metropoli tra Otto e Novecento) – saper riconoscere nella nascita della sceneggiatura come organizzazione della produzione di immagini, come scrittura che programma l’intero lavoro degli apparati di produzione e consumo dell’industria culturale, un epocale passaggio da una scrittura fatta per essere letta dal pubblico a una scrittura che, non più da leggere (persino segreta), diventa la strategia di comando dell’immaginario audiovisivo. E ancora oggi lo è attraverso le sceneggiature televisive e ha continuato a esserlo anche con l’avvento dei new media, garantendo il controllo sociale dei mutamenti e conflitti della vita quotidiana. Prospettiva fondamentale, questa, per fornire una chiave di lettura meno rigida e ideologica rispetto a tutte quelle analisi che vedono nello sviluppo dei media il rinnovarsi continuo di un rapporto di subordinazione dell’individuo alla tecnica, senza comprendere che essa è il vero medium dell’esperienza umana del mondo. E il mondo è territorio di poteri in continuo conflitto tra loro. Ovviamente, le cose si complicano, e di molto, con l’ingresso degli apparati di produzione e riproduzione dell’immaginario e dell’informazione nella sfera delle piattaforme digitali e, dunque, delle reti (e via via dell’Intelligenza Artificiale, della robotica, delle manipolazioni genetiche, ecc). Molto si può intuire anche soltanto dall’intensità con cui sono emersi anatemi e resistenze nei confronti della natura dei linguaggi digitali visti con crescente, invece che discendente, groviglio tra cause ed effetti negativi sulla natura umana (inibizione vista come tradimento di tutte le tradizioni che ne avrebbero garantito la sopravvivenza). Tranne eccezioni non da poco da parte di chi, per ragioni dipendenti da fattori generazionali (sensi, menti, carni e immaginazioni ancora in età di primo apprendimento, di passaggio ludico) o dalle ragioni coscientemente/incoscientemente oneste/disoneste del proprio lavoro, s’è autenticamente aperto all’innovazione (su basi teoriche e ideali di intelligenza e preveggenza). Non solo per motivo di professioni e competenze specificamente tecno-scientifiche o, comunque, strumentalmente interessate all’uso di mezzi in grado di operare una formidabile velocizzazione delle routine del lavoro intellettuale applicato a ogni funzione organizzativa nei campi della produzione, economia, comunicazione. Ma per intimo slancio vitale. Il fronte più ostile alla rivoluzione espressiva delle reti, tanto più sul versante dei social, viene invece direttamente o indirettamente dalle culture del libro, ma anche della televisione, dagli apparati di fiction che li hanno sceneggiati e fusi con la manipolazione dell’informazione. Insomma, dai vecchi linguaggi sociali, sempre attanagliati dalla paura di essere spodestati di credibilità, autorità e controllo sulle routine delle professioni più tradizionali. In ogni campo: dagli apparati di persuasione dell’opinione pubblica alle pratiche istituzionali, sociali e politiche, nonché a quelle delle burocrazie amministrative, dalla manualistica scolastica, dalle morali abitudinarie della famiglia, dal ruolo egemone degli scrittori, fino alle rendite di posizione dei valori di lunga durata. E tutto questo resta, è all’opera anche quando tali apparati facciano di necessità un uso selvaggiamente interessato a meri risultati di consenso, cioè trascinati oggettivamente a dover funzionare a vantaggio di valori esattamente opposti alla vocazione personale, intima e locale subito emersa dalle straordinarie possibilità espressive del web.
Per iniziare a capire la necessità di ritenere in via di obsolescenza la mediologia (che non vuole dire abbandonarla ma semplicemente ricollocarla in altro ruolo), credo si debba cogliere che cosa in realtà venga sconvolto dalle pratiche di rete dal basso, dal carattere selvaggio dei loro modi relazionali e interattivi. Le loro animose e passionali conflittualità, incapacità di mediazione, protagonismo rivendicativo sono la conferma della loro sostanziale differenza rispetto all’uso strategico che delle reti ha fatto sin dall’inizio una piattaforma di comando in grado di tradurre in maggiore efficienza le vecchie dorsali e i vecchi strumenti al servizio delle forme di potere (finanza, stati, mercati), dalle loro dimensioni locali e nazionali a quelle globali.
Una delle poche affermazioni lacaniane che mi sono restate in testa è più o meno questa: non c’è un sentimento, un pensiero che non produca una immagine. Il «sentire» produce immagini che contengono sempre simboli. La parola arriva solo dopo a nominarli. Ma, in questa nominazione, qualcosa si perde. In poche righe – di quelle che Lacan ci concede meravigliosamente semplici, elementari e comprensibili a tutti – ecco una verità che vale da sempre e ora, seppure diversamente, perdura nel nostro presente-futuro in chiave di scrittura di algoritmi e di scrittura algoritmica di altri algoritmi (con esito ignoto per una civiltà che non ha mai sperimentato questa espropriazione di se stessa se non per mezzo dell’esperienza religiosa di un dio che ne costituisce, fuori di ogni appartenenza spazio-temporale, l’insondabile destino). C’è coincidenza istantanea tra sentimento e immagine, si imprimono reciprocamente da sempre, prima che la ragione li traduca e sistematizzi in simboli (legami, reti). La flagranza simultanea tra sentimenti e immagini smentisce, dunque, la credenza razionale secondo cui la scrittura, grazie alla sua virtù identitaria di isolarsi da tutto il rimanente in cui è immersa, dominerebbe le immagini, invece di esserne solamente il riflesso. Ma, proprio a ragione di questo suo scarto rispetto al sensibile, la scrittura si è fatta carico della necessità sociale di sceneggiare, dunque assemblare, montare, la fragranza delle immagini trasformandola in sequenze narrative. Assegnando loro uno scopo e facendo dipendere da tale fine il loro valore socialmente negoziabile. Sino tuttavia a consumarsi progressivamente in questa sua funzione. È ora significativa la ridondanza in ogni settore e per ogni occasione del termine storytelling. È a tal punto fittamente riciclato da dire tutto e insieme nulla più.
In certa misura hai fatto sempre in modo da ricavare la tua analisi non abbandonando il campo culturale italiano proprio per studiare a fondo il sistema globale delle industrie culturali occidentali. Alcune tue pagine su Gramsci di questo hanno trattato, contrapponendo l’originalità delle sue analisi sul romanzo d’appendice e sulla professione giornalistica all’attenzione rivolta invece da molti intellettuali impegnati, ad esempio, uno dei tuoi primi maestri, Alberto Asor Rosa, al Gramsci politico e ideologo. A tuo avviso, quali sono, dunque, le caratteristiche di lunga durata dell’industria culturale italiana?
In vari momenti ho deviato dalla mia attenzione nei confronti dei sistemi nazionali più avanzati. Per esempio, privilegiando il mondo globale messo in scena da Hollywood, divenuto – attenzione: grazie alla sua capacità di tradurre quello europeo, anzi arrivando ad essere la «vera» Europa, la sua quintessenza; così tanto capace di farsi consumare in ogni altro mondo locale, da ogni persona quale fosse la sua lingua madre, la sua appartenenza socioculturale, persino la propria matrice ideologica. Favole che sopravanzavano il racconto (per capire questo, serviva una lettura di Propp che non si orientasse verso il culto di antiche tradizioni popolari, ma verso il presente della civilizzazione più avanzata e sofisticata). Si trattava di due sceneggiature in una (quella per i contenuti e quella per il loro effettivo consumo): una duplice sceneggiatura per poter soddisfare i desideri della vita quotidiana dello spettatore contemporaneo. Una delle sue case di produzione si diede il nome Universal. E il cinema delle nazioni d’Europa, in un certo senso, s’è fatto davvero europeo solo in America. Avendo maturato questa teoria mediologica, si può capire il mio punto di vista, a volte ingeneroso e prevenuto, sulle forme del neorealismo italiano e invece una certa simpatia per il suo trasformarsi in commedia all’italiana. Ma, al calare progressivo delle magnifiche sorti dell’Occidente, bisognava rivedere la mia teoria. Bisognava scavare nel senso della vecchia formula «non più e non ancora»: sapere cogliere il «non ancora» che sopravviveva al «non più» che la modernizzazione avrebbe dovuto realizzare. O viceversa: la distinzione tra «non più» e «non ancora» è negata dal loro comune vincolo identitario. Sacche di arretratezza e disomogeneità residue rispetto ai territori dominanti (l’arretrata alfabetizzazione che, dalla sfera della lettura, si è riprodotta nella sfera dei linguaggi digitali) andavano colte anche nella loro natura di alterità e resistenza al destino occidentale. Possibili aperture ad altro di non ancora esperito. Mi piace ricordare un mio libro collettaneo, Napoli No/NewYork, ispirato a questa prospettiva seppure in chiave del tutto immaginifica (ma memore anche delle impressioni di viaggio espresse dai più celebri visitatori europei giunti dal Settecento a oggi alle pendici del Vesuvio). Penso che questa prospettiva mi abbia aiutato a cogliere molti aspetti della politica italiana, a partire dall’irruzione barbarica di Silvio Berlusconi dentro le regole della democrazia.
Una delle figure dell’immaginario collettivo che attraversa costantemente la tua riflessione è quella di King Kong. Ci spieghi il motivo iniziale di questa fascinazione e a che cosa oggi ti fa pensare la sopravvivenza o meno di questa figura primordiale?
Gramsci, da raffinato stratega della persuasione politica, aveva colto un punto cruciale: il sex appeal della letteratura di più larga diffusione si fondava su qualcosa di estraneo alle teorie sociali e progressiste di cui lo stesso comunismo era partecipe, seppure in forme antagoniste, ma a ragione di questo tanto più complici. Il romanzo d’appendice, risorsa dell’industria culturale di massa a preminenza popolare, era estraneo alla razionalità della politica, al dover essere della società civile. Il suo tempo non era quello della storia, le sue passioni erano elementari, istintive, senza orologi, originarie. In quelle pagine, c’era l’eros dell’immaginazione umana, il desiderio assai più del bisogno. Il primo King Kong, quello del 1933, coincide con l’avvento del sonoro. Il suo protagonista aveva una voce udibile, reale, al pari degli umani che si avventurano nella sua isola, fuori delle mappe del mondo civile, per catturarlo ed esporlo in un teatro di New York, in modo che il pubblico metropolitano percepisse la verità polifonica delle proprie stesse origini primordiali e delle proprie rimozioni. Del proprio inconscio. Era stato costruito negli hangar del produttore David Selznick, quello che farà Via col vento (esistono foto documentarie che somigliano in modo inquietante alla lavorazione di maestranze nell’atto di costruire la Statua della Libertà che la Francia avrebbe regalato all’America, quella stessa che in Il pianeta delle scimmie mostrerà, interamente immersa nella sabbia, solo la sua fiaccola). Infine, c’era la narrazione di un evento simbolico di straordinario significato politico e insieme estetico: gli aerei della guerra abbattevano King Kong facendolo precipitare al suolo dal grattacielo più universalmente ammirato dal mondo occidentale: ma, a questa sua morte, morte della sua carne straniata tra folle di spettatori-cittadini, era consegnata l’interpretazione (registica) che non gli aerei lo avevano vinto, ma la Bellezza, incarnata in una donna che la grande scimmia aveva desiderato ma non aveva potuto e mai avrebbe potuto possedere. Un film tanto ricco di significato da indurmi a metterlo al centro del mio primo tentativo organico di trattare il rapporto tra forme estetiche e società di massa. Un’attenzione, la mia, confortata dal fatto che la figura di King Kong è stata continuamente ripresa sino ad oggi dall’immaginario cinematografico (espanso su ogni altro supporto di largo consumo anche cartaceo). Anni dopo, guardando le immagini in diretta della catastrofe delle Due Torri, all’improvviso, mi apparve la figura di una persona che precipitava al suolo da una delle finestre del grattacielo (non fu la sola): e mi accorsi che l’analogia tra quella realtà tragica e la finzione di King Kong che precipita a terra dall’Empire State Building mi aiutava a capire quella tragedia terribile. Quel clamoroso, sacrificale, cortocircuito tra barbarie e civilizzazione. La sua bellezza e il suo orrore.
Prima ancora che Alessandro Baricco rendesse popolare l’immagine dei «barbari» e sviluppasse il suo stesso intuito critico su quanti ora abitano il pianeta dei linguaggi digitali, tu già diversi lustri fa, nel volume Analfabeti di tutto il mondo uniamoci, avevi cominciato a empatizzare, per così dire, con l’analfabeta? Ci puoi spiegare la posta in gioco di questa empatia e il significato che essa ha nel tuo pensiero?
Tra le mie analisi critiche dei linguaggi emergenti in questi ultimi decenni e quelle di Baricco c’è stata una considerevole affinità (per me è motivo di compiacimento, dato invece il bigotto ostracismo ideologico con cui la più parte dei colti lo tratta, nonostante sia un intellettuale con molte eccezionali doti, sicuramente saggistiche e divulgative, volendo lasciare ai diretti interessati il giudizio sulle sue prove narrative). Tuttavia, il mio discorso non è andato coincidendo con il suo. Più o meno contemporaneamente, abbiamo toccato due temi, l’insorgere dei barbari nell’economia simbolica e sociale di questi decenni e il significato da attribuire alla crescente fortuna dell’uso personale dei dispositivi digitali. Quanto ai barbari, ho trovato interessante seppure non del tutto giusta la sua scelta di identificarli in alcuni passaggi delle avanguardie storiche e dell’industria culturale di massa. Ma questo taglio del suo discorso confermava la mia idea che, invece, il barbaro (una identità analfabeta emergente e non crescente in guisa dei vecchi processi di socializzazione) costituisse la soglia da riconoscere (più che valorizzare a fini pedagogici e civili) non a vantaggio, ma contro la modernità. Cadendo così anch’io nel tranello delle teorie critiche perché la produttività di questa opposizione è entrata nella macchina del potere per la quale i dibattiti culturologici sono ormai soltanto un rumore di fondo. L’incursione di Baricco sul significato delle reti (forme per lui di linguaggio più che reti) mi pare che sia caratterizzata dalla sua capacità narrativa di dominare fenomeni nuovi, ricchi ormai di una vasta bibliografia, riconducendoli a se stesso senza per questo mettersi in discussione così come dovuto al senso della materia che tratta. Comunque, uscita assai coraggiosa la sua, dato il suo ambiente di riferimento, in tutto letterario e culturale, così estraneo al problema del significato da attribuire al digitale, tanto sul fronte dei suoi accesi denigratori quanto su quello del vasto pubblico di lettori di cui dispone, certamente infatuato dalla qualità delle sue prestazioni libresche e artistiche.
La sociologia ha saputo raccontarci la modernità e in tale senso ne hai fatto uso tu stesso, ma da tempo ne hai preso le distanze, dicendoti convinto che la mediologia sarebbe assai più attuale e meglio attrezzata per darci conto della tarda modernità. Ma, considerato il fatto che con le ultime conseguenze della globalizzazione si può parlare sempre meno di tarda modernità, che cosa ci sarà o ci dovrebbe eventualmente essere dopo la mediologia per riuscire a comprendere la vita di domani già così evidentemente esplosa e implosa nel tempo presente?
Intorno agli anni Novanta, ad alcuni sociologi dei media come me influenzati da Benjamin e McLuhan era parso necessario che la loro disciplina mettesse in discussione le sue etichette mutandosi in altra disciplina da denominare mediologia: la scelta significò intraprendere due direzioni: 1) esaltare l’oggetto di studio, appunto i media, in una chiave estetica e antropologica (con i sostanziali contributi che la semiotica ha saputo suggerire), così da raggiungere la complessità espressiva dei linguaggi audiovisivi televisivi e post-televisivi, altrimenti a rischio di mancare di adeguata comprensione; 2) di conseguenza forzare la sociologia ad accettare l’idea che il suo oggetto di studio non poteva più riguardare la società moderna per la quale e dalla quale essa era nata come disciplina «nuova»: distinta, se non autonoma, dalle altre. La vita vissuta, prodotta e riprodotta, consumata e ri-consumata, abitava sempre più estesamente i territori dei media e in questi territori trasmutavano le forme – etiche, estetiche, sociali – che la civiltà industriale aveva disciplinato e messo in produzione nel corso di almeno due secoli. Ora si tratta di capire che cosa ci sia ancora da salvare nell’approccio mediologico. Come orientarsi nelle antinomie che si rinnovano ora nell’epoca degli algoritmi. «Le parole sono i primi algoritmi dell’umanità»: questa affermazione del filosofo Carlo Sini – che riporta la natura dell’algoritmo sino alle fasi pregresse del farsi del corpo umano e alla clamorosa congiuntura ambientale che gli ha concesso l’invenzione della mano e della voce – taglia la testa a gran parte dei discorsi che sono stati fatti e si vanno facendo sul conflitto tra destino umano e destino della tecnica. Tale conflitto non si può sanzionare perché esso è insanabile – è la sua qualità originaria nel senso di qualità inemendabile – anche quando si mostri insano rispetto alla ideologizzazione e agli affetti del passato (il legame umanamente indistruttibile tra nostalgia e speranza). La mediologia credo sia andata vivendo una scissione – ma anche ambiguità o distrazione reciproca, penso inevitabile – tra le sociologie dei media (analisi del contenuto, indicatori del pubblico, effetti sociali, ecc.) e la sua tendenza a proseguire con sempre più costanza con lo stesso spirito che l’aveva generata e ne aveva circoscritto il campo di osservazione e applicazione: il culto dell’immaginario collettivo. Un orizzonte su cui letteratura, antropologia, semiotica e sociologie dell’opinione pubblica potevano felicemente convergere. Dico «culto» in ambigua assonanza con «studi culturologici», secondo la denominazione scelta da Mauro Wolf per un’ampia area di studi in cui il polo di attrazione verso i fenomeni culturali non presentava forme di culto nei confronti del proprio oggetto di analisi. L’aspetto positivo di questa particolare vicenda – questo personale fascino per l’oggetto di analisi prima che attrazione per il suo metodo – è negli strumenti che essa ha offerto e sta offrendo per analizzare lo sviluppo degli elementi di continuità e di discontinuità dell’industria culturale. L’aspetto negativo, un rapporto forse perverso tra l’ampiezza del quadro di osservazione raggiunto o da raggiungere, nonché il raffinamento degli strumenti di interpretazione da investire sull’immaginario collettivo, per un verso, e la contrazione o l’oblio o anche l’usura delle motivazioni iniziali, per altro verso. Qual è stata e in buona parte continua a essere la motivazione, vocazione, di questi studi tra scientifici e amatoriali? Certamente l’innovazione delle competenze tecniche e professionali nel campo della fiction e – in quanto sempre più intrisi di stratagemmi finzionali – di tanti altri settori della moda, della comunicazione commerciale e del marketing. Riuscendo spesso con qualche successo a dare un contributo in campo politologico. Ma questa componente amatoriale, capace a suo tempo di funzionare da innovazione delle analisi sociali e dei conflitti di potere, può sopravvivere, può avere ancora un senso di rottura, invece che di nicchia autoreferenziale, rifugio nostalgico, ora che la formula immaginario collettivo sembra venire letteralmente surclassata e declassata dalla natura dei linguaggi di rete? Siamo ai confini tra due epoche, o meglio, siamo entrati in un’epoca che include quella passata rigenerandola su territori tuttavia radicalmente diversi. E dunque: perché siamo o dovremmo arrivare «ai confini della mediologia»? Questa mia formulazione ricalca il titolo di un mio vecchio libro collettaneo, Ai confini della serialità, dedicato al transito dei media e dei mercati della televisione generalista verso la loro metamorfosi post-televisiva.
Per avvicinarsi a questi passaggi d’epoca, credo sia necessario mantenere una prospettiva teorica che non perda la principale rotta di partenza. È sempre bene rifare il punto. L’ho già detto, ma è meglio ripeterlo: si narra per potere piacere e si ascolta per piacere. Questa è la vocazione mondana del narrare ed essere narrati. Fingere per affascinare e per affascinarsi. Rapire e lasciarsi rapire. Appunto: fare mondo e consegnarsi al mondo. Ed esserne preso in consegna. Fashion/Fiction: un ingranaggio che schizza fuori dalle distinzioni storiche tra dimensioni antiche, classiche e moderne. Una macchina che s’è messa all’opera da sola, grazie al desiderio umano di sopravvivere al silenzio della morte (da questa paura di non esserci più, di non essere più presenti a se stessi ma in un altrove indicibile rispetto all’ordinario, molti hanno detto e dicono sia nata persino la filosofia). Per inciso – ma per me è un passaggio teorico centrale – si tratta del desiderio umano che infine l’Occidente ha insieme rimosso e potenziato, sfruttato, inventandosi il Capitalismo. Idea anch’essa nata dalla paura della morte tanto quanto i miti e la filosofia. Ancora per inciso: il Capitalismo è quella realtà, dunque costruzione economico-politica che, per le doti fornitegli dalla sua ideologizzazione – doti in verità apparenti, come fu colto (involontariamente?) dalla formula spettrale «un fantasma gira per l’Europa» –, avrebbe fatto della natura umana un cattivo soggetto (un soggetto prigioniero) al posto del soggetto libero (brava persona) che, altrimenti, sarebbe stato, potrebbe essere o potrebbe diventare in mancanza del Capitalismo. Tutto cominciò, torno di nuovo alle mie letture giovanili, in una incompiuta – impossibile – avventura ai confini del mondo così come fu raccontata da Edgar Allan Poe, ovvero da Arthur Gordon Pym, a consuntivo, ormai già pienamente moderno, di ogni altro mitico o storico viaggio di conoscenza umana: costruzione di terre straniere da plasmare a propria immagine e somiglianza. Il lato interiore dell’imperialismo è questo: viaggi nella bara di un morto.
Ai confini della serialità ricalcava a sua volta Ai confini della realtà, una fiction americana di grande successo, vista e goduta poco dopo la Bomba: la sola risposta materiale – questo ordigno mortale di massa – che l’umanità, il suo desiderio di sopravvivenza, il suo istinto animale, aveva saputo/potuto dare alla integrale, perfetta, violenza umana. Il solo vero passaggio possibile, l’unico senza più bisogno di nuovi approdi (se non la Luna) in grado di superare quel grande terribile passaggio d’epoca – per eccellenza novecentesco/occidentale – che furono i campi di sterminio del nazismo. Quasi sincronicamente furono gettate le basi della cibernetica, il mondo che stiamo diventando. Ancora, di nuovo, fu la scienza più dura, più applicabile, a dare la nuda speranza di cui, impaurite, discettavano le scienze morbide dell’umanesimo.
Il titolo Ai confini della realtà suonava come una bella trovata, pur dicendo la banalità di ogni narrazione televisiva fatta per far piacere l’inquietudine e insieme l’attrazione per il nuovo: abitare ai confini tra la realtà e il reale che essa rimuove. Qui invenzioni umaniste in declino e invenzioni tecno-scientifiche in ascesa si invadevano tra loro, turbando abitudini e sentimenti. E, dunque, finendo sempre per tornare alla vita di prima, a meno di non cadere nel vuoto. Esercizi di sconfinamento tra scienze del futuro e abitudini culturali del passato. Ma credo sia necessario essere avvertiti nella interpretazione di questi immaginari di frontiera (magari anche ora di fronte alla fortuna delle distopiche narrazioni di Black Mirror). Ad alcuni filosofi è spesso piaciuto dire che rinvenire un limite, un confine, tra un territorio e l’altro, non significa un arroccamento nella propria terra o un oltrepassamento in terra straniera, quanto piuttosto una forma di appaesamento, diversa in quanto più ricca rispetto alla precedente. Senza volere riconoscere, se non raramente, che invece l’appaesamento è tra le forme più sofisticate, spesso più opportuniste e crudeli di dominio. Come si addice alla natura proprietaria del desiderio umano di abitare: terra e corpi o abiti e abitudini. L’appaesamento è diversità per mezzo dell’uguale. E viceversa. Ai confini della realtà giocava tra inclusione ed esclusione dal mondo. Tra le leggi dell’interno domestico e le leggi dell’universo.
La recente formula «ai confini della mediologia» ha quindi iniziato a frullarmi in testa per toccare alcuni aspetti cruciali delle cosiddette «nuove» dimensioni della vita umana in rete: ma in rete come da sempre era stata la vita ancora non umana della natura. Ovvero quella dis-umanità pregressa che ha incubato e prodotto l’umano. Il titolo m’è venuto in mente senza ancora sapere bene – come spesso mi accade – di cosa davvero avrei scritto o potuto scrivere. Essere capace, in grado di scrivere. Nella testa m’è semplicemente scattata appunto l’assonanza con Ai confini della serialità. Forse anche in quella precedente occasione avevo giocato d’azzardo puntando su un’interpretazione che annunciava, come fosse già in atto per allora, una fine dei consumi seriali televisivi da cui invece – in qualche modo a smentirmi clamorosamente – sarebbero esplosi di lì a poco quelli di ultima generazione: narrazioni sempre più vissute in rete invece che nelle stazioni riceventi e trasmittenti dei luoghi domestici, urbani e nazionali. Narrazioni che avrebbero avuto sempre più bisogno di sofisticate schiere di professionisti nell’arte complessa, post-narrativa, della sceneggiatura (scrittori finiti lì a far da filosofi e sociologi del futuro in quanto esperti del presente): testi in grado di soddisfare lo spettatore attraverso la trama sempre più complessa di immagini a forte impatto emotivo grazie alla loro capacità di entrare nelle tecnicalità della vita quotidiana. Le tecnicalità che essa ha in comune con i dispositivi e con gli apparati che la governano. A dirla tutta, credo che già da tempo, per riuscire a pensare la società, le istituzioni del sapere e della formazione di allora, i professionisti d’ogni disciplina avrebbero dovuto riconoscere in quegli sceneggiatori i «veri» intellettuali della tarda società di massa. Ma, allora, le tecnicalità erano ancora in debito con le narrazioni umane e stava solo iniziando il debito delle narrazioni umane con le tecnicalità.
Una delle sfide umane oggi più importanti consiste nello sviluppare sistemi di pratiche algoritmiche «responsabili», ossia basate sulla progettazione di macchine capaci di interiorizzare valori e principi morali e di originare, così, una forma di ragione (e di capacità decisionale) «etica». Il fatto che lungo l’intera civilizzazione dell’essere umano sia stata proprio l’idea di felicità a produrre il suo contrario mette in discussione, getta in ogni genere di sospetto, l’ipotesi che – almeno in questa fase di formazione della IA (assumo il termine in chiave onnicomprensiva) – si possa guidare il processo felicemente, cioè portarlo al buon fine previsto. Crediamo si possa davvero pilotare la navigazione della IA dentro i nostri sensori e motori biologici, cioè non più surfando sull’oceano mediatico delle narrazioni e delle immaginazioni sociali, senza cadere in sbavature o sviste che in breve ci intrappolerebbero ugualmente altrove dalla meta sperata? Crediamo che questo viaggio oltre ogni superficie, al di qua della pelle umana, nella sua carne e, insieme, nella carne di qualsiasi cosa vivente, si possa compiere con «umani» criteri di scelta? Criteri già molto sospetti, in quanto comunque socio-antropologicamente condizionati nella coscienza degli individui e delle loro aggregazioni in apparati decisionali chiamati ad affrontare qualcosa che è in tutto alieno dalla loro storia cosciente? Hartmut Rosa, sociologo di discendenza francofortese, ha teorizzato le conseguenze dell’accelerazione sostenendo che le strutture temporali della post-modernità si caratterizzano come frammentazione. Cioè attraverso la scomposizione delle esperienze e delle azioni in sequenze sempre più brevi e zone di attenzione che vanno sempre più riducendosi. Detto altrimenti: ogni progresso fa nascere il suo incidente. E ora la post-modernità funziona come accelerazione di incidenti. La norma è l’incidente. L’incidente produce futuro. È una prospettiva che spiega molto della società in rete, a patto che la si legga a fonte delle straordinarie capacità degli apparati di potere di connettere tale frammentazione alla loro volontà di potenza. Riflessioni analoghe, anche retroattive, si possono fare in ambito mediologico. A un giovane esteta del cinema – la forma narrativa più esemplare della modernità metropolitana – si deve l’intuizione che, per salvarsi dalla Tv, non era sufficiente spegnerla, perché comunque essa continuava a trasmettere, a meno di non farla a pezzi (Enrico Ghezzi lo fece all’interno della programmazione televisiva). È vero: la televisione è stata per lungo tempo la condizione materiale della vita umana divenendo il suo mondo. E ora il mondo è la televisione «fatta a pezzi». Quel giovane, che apparteneva al gruppo di Fuori Orario e di Blob (esperienze d’avanguardia nate dal basso dei consumi invece che dall’alto delle arti primo-novecentesche), spiegò la sua battuta (erano gli anni Ottanta) con ottime argomentazioni mediologiche, sostenendo che – di fronte a una Tv sempre più debordante, sempre più in trasmissione 24 ore su 24, con tanti universi possibili quante le emittenti in funzione – a quella fantascientifica invasione di replicanti e simulacri si poteva opporre soltanto una visione attiva, intermittente, frammentata, cortissima. Mi pare dicesse «scheggiata». A fronte della vasta letteratura sull’attuale passaggio dai linguaggi televisivi ai linguaggi di rete, mi sembra che le sue poche parole di operatore televisivo antecedente al mondo digitale possano funzionare come eccellente sintesi, a patto di spogliarle della loro motivazione esteticamente ideologica e ideologicamente estetica. Infatti, quella natura sovversiva è stata di fatto adottata dal sistema che si sperava di aggirare, se non abbattere. Per mantenere i loro profitti, i sistemi di informazione si sono sempre più fatti carico di compensare il disagio. Žižek, ad esempio, ha usato Stephen King per rimarcare l’eclissi dei finali di narrazione: lo spettatore non teme più un finale negativo, ma un qualsiasi finale, il finale di partita in quanto tale. Le serie tendono all’infinito e il consumatore non tollera più il loro estinguersi. La sua è una necessità non solo di dipendenza, ma paradossalmente anche di indipendenza: il consumo di serie ininterrotto, senza più sosta, inclina verso una sottrazione radicale dal tempo sociale. Un vincere le malìe della società vera attraverso le malìe della sua finzione. Distorsioni del desiderio: pratiche da accostare alla fortuna in rete dei giochi d’azzardo (consegnarsi a un surplus di sfruttamento da parte delle macchine dell’economia per godere in modo nichilistico del loro stesso inganno) e della pornografia (corpi che si immergono nella loro carne rifiutando ogni desiderio di procreazione di altri corpi). Ma qui si aprono modi di vita delle persone radicalmente ai confini della civiltà.
Chiudiamo l’intervista parlando del mondo in cui hai lavorato per quattro decenni. L’Università vive da anni una profonda trasformazione della sua natura e della sua funzione sociale. Otto anni fa hai rivolto un appello all’allora Presidente della Repubblica per sollecitarlo a salvare l’Università. Oggi che cosa ti senti di dire sul tema?
Fu un episodio per me significativo. Avevo frequentato Napolitano tra il ’69 e i primi anni Settanta, al tempo della sua direzione della Commissione Cultura del PCI e sapevo dunque assai bene a chi avevo lanciato, ormai al vertice della vita politica italiana, la mia lettera di allarme: fu scritta per dimostrare la sua non volontà o impossibilità, forse più ancora che incapacità, di capire. La sua appartenenza a un regime di valori e strategie immodificabile. Ma, detto questo, vorrei dare una risposta più ampia, in grado di farmi tirare le fila di quanto sino ad ora ho tentato di argomentare. Riguardo alla profonda trasformazione in corso nella nostra Università, direi piuttosto che da qualche anno – passando da governo a governo con l’incremento crescente degli interessi corporativi della politica, del suo sistema dominante (perverso insieme tra cinismo e incapacità professionale), dunque a tutto danno delle necessità reali della società in termini di condizione umana – sono infine esplose le prevedibili, ma assai poco previste, conseguenze di catastrofi già da tempo avvenute. Intendo quelle prodotte dalle riforme scolastiche e universitarie fatte passare tra il 1999 e il 2000 da Luigi Berlinguer. Riforme di marca modernizzatrice in senso progressista e democratico, agite letteralmente sul corpo dei valori a loro tempo assegnati (tagliando con l’accetta il discorso) alla formazione e alla ricerca da Gentile. Valori, quelli, in perfetta o quasi continuità rispetto al connubio storico tra élite sociali e vita identitaria, di classe, nazionale. Per capire cosa sia accaduto con Berlinguer, bisognerebbe risalire al dibattito accesosi intorno alla figura del sociologo Guido Martinotti – che ne fu uno dei principali piloti – tra le nostre culture accademiche di marca umanista e le culture sensibili agli assetti della formazione professionale di marca anglo-americana. Uno studioso di livello internazionale, Martinotti, fortemente e autenticamente sensibile alla necessità che le nostre istituzioni universitarie diventassero efficienti sul piano sociale, aprendosi a un reale accesso dei giovani al mercato del lavoro (c’erano dunque di mezzo i movimenti giovanili tra fine anni Sessanta e anni Settanta, dunque, una pressione ideologica dal basso o quasi, trattandosi piuttosto di avanguardie di massa, quindi di emergenti fenomeni di pressione per il ricambio generazionale, qualitativo forse più che quantitativo, dei ceti dirigenti). C’era anche una pressione europea in tal senso. Ricorderei in modo particolare il Processo di Bologna, nato nel 1999, ricco di ottimi propositi rimasti purtroppo in massima parte sulla carta, come ad esempio la parità tra studenti e docenti, ma soprattutto il diversamente-sapiente principio-guida per cui il triennio universitario sarebbe dovuto consistere nella formazione del giovane in quanto persona in ingresso nella società, prima ancora che gli venissero impartiti insegnamenti disciplinari e professionali. Arrivando a concludere la mia risposta a questa tua domanda, vorrei stringere il discorso sul rapporto tra persona e società. Ne ho già tenuto conto nelle mie precedenti risposte. E non a caso vi ho accennato ora esplicitamente ricordando uno dei fallimenti del Processo di Bologna. Esso, infatti, aveva intuito la possibile carica progettuale di questo rapporto, pur non avendo o non volendo avere un’idea chiara del fatto che la differenza tra persona e sua appartenenza sociale, identitaria e strumentale, così come pensata dai suoi estensori non era e mai avrebbe potuto essere così naturale, scontata, come questi credevano, in quanto comunque funzionari dei valori e contenuti dominanti della civilizzazione moderna. È qui in ballo il problema dell’eredità culturale moderna su tutte le politiche dell’abitare, siano esse di carattere conservatore, riformista o rivoluzionario. Primitivo o evoluto. Costituisce un drammatico problema emergente la possibile considerazione che, nel globale precipitare qui e ora della storia dell’umanità, via via polverizzatasi in diversi mix di qualità difformi e tra loro ostili, queste differenze di regime si rivelino in una sola dimensione tragica. La persona e il suo ruolo professionale e sociale (la persona che imbraccia un fucile o veste le toghe di giudici e docenti o presta servizio nei media o fa mestiere di politico, e via dicendo): è qui il cappio che lega la qualità della vita umana. I modelli di compatibilità o meno tra questi due regimi di senso (e tra ciascuna delle loro diverse declinazioni e contaminazioni orizzontali e verticali, centripete e centrifughe) sono andati grottescamente rivelando le loro affinità assai più che le loro differenze con i fattori di infelicità delle persone, della loro carne, quella che la distingue dal loro corpo sociale. Effetti dolorosi, psicofisici, che nel nostro immediato passato si poteva credere, e infatti ci si fa ancora credere, diversamente attribuibili ai regimi democratici versus quelli dittatoriali versus quelli rivoluzionari. E viceversa.
Una questione come questa è, a mio avviso, da affrontare in termini di urgenza estrema, approntando paradigmi culturali drasticamente diversi da quelli correnti e ricorrenti, in quanto nessuna delle forme di sapere tradizionali (sempre innovazioni e rimediazioni del loro nucleo fondante) è in grado di criticare la società se non dall’interno delle proprie regole sostanziali. Esse non lo sono perché vincolate a paradigmi del sapere sostanzialmente incapaci di cominciare da una radicale critica della natura umana in quanto tale e, quindi, superando la falsa coscienza che fa da imprinting del sapere umanistico in ogni sua articolazione: passata e presente, positiva e negativa. È in gioco – ragionando doverosamente a partire da Weber – la differenza tra vocazione e professione. L’eccezionale sviluppo delle tecno-scienze, di cui sino ad ora abbiamo detto in chiave mediologica, data la loro straordinaria ricaduta sulle forme espressive della socializzazione, va praticando una sempre più forte scissione, un vero e proprio balzo in avanti e tante mosse del cavallo, tra la formazione dei ruoli professionali e la vocazione delle persone che ad esse vengono affidate e sottoposte. Il nucleo della teoria sociologica di Weber – la sua stessa possibilità di pensiero coerente, socialmente praticabile, motivatamente critico – si basava sulla certezza di poter distinguere la vocazione e la formazione in un solo progetto borghese, in un solo omogeneo motore della storia. La situazione in cui ora la società si ritrova – ed è a massimo rischio tanto per chi ne condivide i contenuti e i valori quanto per chi non li condivide, vorrebbe riformarli o abbatterli – sta nel fatto che ogni attenzione alla necessità di modificare i contenuti e le strategie della formazione vocazionale della persona si è da tempo bloccata: la tecnoscienza procede a velocità vertiginosa ignorando sostanzialmente il problema di questo suo distacco dai saperi umanistici (ci sono di mezzo i valori e contenuti dei quadri e delle pratiche della politica e questo spiega il crescente degrado delle sue professioni). Il conseguente allargarsi del gap tra le due parti in gioco nella prospettiva weberiana spinge a considerare la vocazione della persona ancora negli stessi termini elaborati da Weber e perde ogni possibilità di pensare il ruolo della persona nelle condizioni del presente. Perfino sino al punto di cercare e trovare ragioni sufficienti a rimuoverla e lasciarla andare alla deriva. Tutto questo spiega la situazione delle istituzioni formative nel campo delle scienze umane. Spiega la crisi degli studi universitari nel loro insieme: vocazioni senza destino professionale e professioni senza basi vocazionali.
Penso che il tempo a me concesso da questa intervista volga al termine e, anzi, si sia già estinto. Debbo stringere le fila proprio del discorso che oggi più mi preme fare. Forse è un bene, data la difficoltà mia, ma credo anche oggettiva, di procedere su questi temi. Il piano da adottare in controtendenza sarebbe quello di far convergere sulla persona situazioni formative in grado di costruire e trattenere nella coscienza individuale (sarebbe un modo diverso di affrontare il grande tema marxiano della «falsa coscienza») un margine di distanza, distinzione, differenza rispetto all’obbligo di soffrire e far soffrire il vivente in cui la gettano le stesse necessità di sopravvivenza della società, civile o incivile che sia. Provo a cavarmela ricorrendo all’immaginario mediologico. A una figura tipica, trionfante, emersa nelle narrazioni pulp dagli anni Trenta-Quaranta americani e culminata nel presente. Si tratta del supereroe. Una versione profana del figlio di dio che scende a valle, sulla terra abitata, per salvare il genere umano. Si tratta di eroi doppi, dal doppio travestimento, dalla doppia identità (un’idea, per dirne una, venuta in mente alle mitologie antiche su dei che si travestono da umani per intervenire e risolvere faccende tra i mortali). Eroi del mutamento, mutanti, di lunga durata – prima e dopo la Bomba, prima e dopo l’allunaggio, prima e dopo il web – che nelle fiction dei fumetti e dei film americani si impegnano e vengono impegnati a tempo pieno nel salvataggio d’emergenza della città/metropoli/mondo dalla corruzione omicida che la invade e che essa stessa produce. La loro straordinaria efficienza è garantita da essere umani e insieme super-umani, non umani, post-umani. Corpi che hanno interiorizzato la gracilità della gente comune e, insieme, la potenza della tecnica al servizio del potere, la sua violenza. Dunque, il loro è un soggetto che ingloba in sé, facendolo fruttare a vantaggio della società, un in/compatibile antagonismo tra debolezza della persona e potenza del sistema al quale è soggiogata, tra vocazione personale e armatura professionale. Questo immaginario salvifico ha reso via via sempre più isterica, ciclotimica, tale doppiezza. Claustrofobica e letale per la persona che si è prestata così a lungo a questo gioco delle parti tra ciò che la salva e insieme l’affligge. A volere, dunque, affrontare l’attualità quotidiana, tragica perché senza possibile soluzione, della obbligata sutura tra professione e persona, proprio a questa spetterebbe il dovere di dissociarsi dalla violenza in cui è costretta a incarnarsi per sopravvivere. Quindi, da se stessa. Dovrebbe scendere in campo da sola, ripensarsi, ricredersi, e disincarnarsi dalla macchina del potere che essa stessa alimenta e, di conseguenza, agire di suo contro il regime di dominio che la assoggetta a sé. Dovrebbe riguadagnare i diritti di sopravvivenza della propria nuda vita.
Concludendo in modo meno immaginifico: un piano siffatto non può avere nulla in comune con le ideologie e utopie della politica, per il semplice fatto che la politica è arte del potere. Essa è la sfera di azioni umane più intimamente connessa allo stato di necessità della natura vivente. È la realtà più lontana dall’idea di una possibile libertà della persona dalla violenza del mondo. Lo stato di necessità e volontà di sopravvivenza la include nel Leviatano in ognuno dei suoi travestimenti storici. Il limite del pensiero filosofico, quand’anche capace di giungere a interpretare le estreme conseguenze della violenza politica sulla carne umana, alla fine fa un passo indietro ritornando ai principi umanistici della politica, alla necessità di un suo rinnovamento, di una sua nuova autenticità (penso a Roberto Esposito, che tuttavia è stato fondamentale per comprendere la differenza corpo/carne che è alla base dell’Internet delle cose). Oppure, pur dotato di un acuto senso pratico, machiavellico, della politica, il filosofo trattiene in sé i propri orizzonti metafisici (penso a Massimo Cacciari, al quale si deve purtuttavia il meglio della riflessione teorico-estetica sulla Krisis occidentale). La sfera della speculazione disciplinare su questo ordine di problemi – crollo e insieme responsabilità dell’umanesimo su uno sviluppo tecno-scientifico sempre più organico alle forme estreme, astratte e disumane, di sovranità assoluta sul mondo – è una sfera caratterizzata da due condizioni apocalittiche, cioè crucialmente rivelatrici. Un sapere enciclopedico abbandonato sempre più a un’esigua fascia di competenti che guardano e interpretano un mondo da loro tuttavia sempre più estraneo proprio sul piano comunicativo. La sua sempre più drammatica distanza dalla necessità di fornire risposte qui e ora, subito e ovunque, in grado di semplificare la complessità delle decisioni sul «che fare» della persona a fronte di quanto la civilizzazione la obbliga a «fare». Sì, il piano formativo che intendo è assai più ardito dell’idea classica di rivoluzione o riformismo della politica o delle masse o dell’economia: si fonda sulla possibilità che la persona possa anche solo di poco addolcire – invece che accendere e incrementare – la violenza alla quale la storia la obbliga da sempre.