AIS

2018/12

Intervista a Salvador Giner (Interview with Salvador Giner), di M. Nocenzi


L’intervista ripercorre alcune fra le principali fasi dell’esperienza scientifica e personale di Salvador Giner, uno dei più noti sociologi a livello internazionale. Dopo le prime esperienze formative, in Spagna, Giner sviluppa la sua attività in prestigiose università europee, negli Stati Uniti e in alcuni paesi dell’America latina, per approdare infine all’Università autonoma di Barcellona, di cui è attualmente professore emerito. Membro di diversi comitati, fra cui il Comitato scientifico del Premio Europeo per le scienze sociali di Amalfi, Giner è stato uno dei fondatori della Federación Española de Sociología e ha promosso, con altri colleghi europei, la creazione della European Sociological Association. Nel corso dell’intervista egli ripercorre le sue prime esperienze di sociologo, che lo portano inizialmente in Germania a Colonia, presso la cattedra di René König, poi a Chicago, dove conosce Shils, che lo indirizza a Hayek, di cui segue i corsi al King’s College di Cambridge e con il quale prepara la tesi di dottorato. Nel corso del colloquio, Giner rievoca il clima in cui è nata e si è diffusa la sociologia in Spagna e offre interessanti testimonianze dello sviluppo della disciplina in Europa. Illustrando il suo approccio, si sofferma sulla concezione di una «disciplina aperta, nel senso di non dogmatica perché non accetta alcun argomento, definizione, evidenza che sia solo il prodotto di un mero principio di autorità». Coerente con questa prospettiva è la sollecitazione che, concludendo l’intervista, egli rivolge ai giovani studiosi: «partire dai classici del pensiero dell’uomo e trovare in quelli le radici della nostra natura e del nostro pensiero», poiché solo in essi troviamo «l’essenza di questa scienza della società umana che integra in sé la dimensione umanistica e scientifica per studiare la realtà sociale umana con uno strumento che sia davvero cognitivo e razionale, etico e critico aspirando all’idea massima e universale [...] di una ‘buona società’, un mondo umano auspicabile».

The interview traces some of the main stages in the academic and personal experience of Salvador Giner one of the most highly renowned sociologists worldwide. After completing his early education in Spain, Giner’s academic career took him to prestigious universities in the Europe, the United States and various Latin American countries, before he worked a post at the Autonomous University of Barcelona, where he is currently professor emeritus. Spain's first sociology professor, mem-ber of the Academic Committee of the European Prize for social sciences in Amalfi, Giner was one of the founders of the Federación Española de Sociología, and together with other European colleagues, he was behind the creation of the Euro-pean Sociological Association. In the interview he retraces his early years as a sociologist, initially in Cologne, Germany, under René König, then in Chicago, where he met Shils, who directed him to Hayek, whose courses he attended at King’s College, Cambridge. During the conversation Giner describes the context in which sociology came into being and circulated in Spain, and offers an interesting perspective on the development of the discipline in Europe. Illustrating his approach to sociology, he dwells on the conception of a «discipline that is open, in the sense of not dogmatic, because it does not accept any argument or definition, but highlights how the latter are merely the product of a principle of authority». Reflecting this notion is the appeal that he makes to young academics at the end of the interview, to «start out from the classics of phi-losophy and there to seek the roots of our human nature and ideas», because only there can we find «the essence of this science of human society that integrates the humanistic and scientific dimension, studying human social reality with a tool that is genuinely cognitive and rational, ethical and critical, and that aspires to the highest, universal idea [...] of a 'good so-ciety', the kind of human world to hope for».

Salvador Giner de San Julián, professore emerito di Sociologia de la Universitat de Barcelona, è uno dei più noti sociologi a livello internazionale, grazie all’intensa attività didattica e di ricerca condotta in molti atenei nel mondo, oltre che nel suo paese natale, la Spagna, nella quale ha introdotto lo studio e l’insegnamento della sociologia in una fase storica, politica e culturale non favorevole. Nato a Barcellona nel 1934, Giner ha conseguito la laurea e il dottorato in Sociologia presso la University of Chicago, negli Stati Uniti, seguiti da un corso di specializzazione presso la Universität zu Köln (Colonia) in Germania. Tornato in Spagna, ha conseguito anche una laurea in diritto presso la Universitat de Barcelona. Successivamente, ha dovuto intraprendere all’estero la sua attività di ricerca e insegnamento. È stato Visiting Professor alla Universidad de Puerto Rico (1962-63), docente e direttore di Dipartimento presso la University of Cambridge (King’s College), Lecturer alla University of Reading (1965-70), Senior Lecturer alla University of Lancaster (1970-76) e, quindi, Reader e poi professore e Direttore del Department of Social Anthropology della Brunel University nella West London (1976-87), periodo durante il quale è stato anche Visiting Professor presso la University of Yale (1980-81). Con l’instaurazione della monarchia parlamentare, Giner torna in Spagna quale professore presso il Dipartimento di Sociologia alla Universitat de Barcelona, che ha anche diretto dal 1987 al 1990. Giner inizia a operare per istituzionalizzare la Sociologia in Spagna e in quegli anni è fra i fondatori della Federación Española de Sociología che ha presieduto dal 1987 al 1991. Nel frattempo, si fa promotore, assieme a molti colleghi europei, della fondazione della European Sociological Association e, grazie a questo suo ruolo, nel 1990 presiede il Comitato organizzatore del Congresso Mondiale della Sociologia e, nel 1991, della Prima Conferenza Europea delle Scienze sociali. Dal 1992 è membro del Comitato del Programma sul Capitale Umano e la Mobilità della Comunità europea. Questa attività internazionale, che prosegue con periodi di docenza presso l’Università di Roma La Sapienza (1994), la Universidad Autónoma Metropolitana de Méjico (1994) e la Universidad de Valencia in Venezuela (2005), si affianca a quella che conduce in Spagna, dove la Sociologia ha ormai acquisito un riconoscimento ufficiale e stabile. Fino al 1999 è Direttore e fino al 2013 Presidente dell’Instituto de Estudios Sociales Avanzados del CSIC e dal 2000 al 2003 coordina la Encuesta Metropolitana de la Región de Barcelona. La sua intensa attività è stata riconosciuta e premiata in Spagna, dove è stato insignito della più alta onoreficienza catalana, la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya, nel 1995, e nel 2006 con il Premio Nazionale di Sociologia e Scienza Politica (1995); ma anche all’estero, dove, fra l’altro, Giner è membro del Comitato scientifico del Congresso Europeo di Scienze sociali di Bruges e del Premio Europeo Amalfi per la Sociologia e le Scienze Sociali. Questo riconoscimento internazionale gli è accreditato anche quale Associated Editor dell’European Journal of Social Theory, oltre che membro del Comitato editoriale di molte riviste internazionali, fra le quali l’International Review of Sociology e Sociology. Revista Española de Investigaciones Sóciologicas». Della Revista Internacional de Sociología è Editor e della Gran Enciclopedia Catalana membro del Comitato scientifico, oltre che autore di alcune sue voci. Gli interessi sociologici nel campo della teoria e della filosofia sociale sviluppati nel corso della sua carriera sono altrettanto ampi quanto le sue attività di ricerca e docenza e contemplano aspetti macro e microsociologici delle società contemporanee, specie dell’Europa meridionale. Particolare interesse, fra gli altri, hanno suscitato gli studi sulla storia della teoria sociale, ma anche le analisi di istituti quali la democrazia, la cittadinanza, la governabilità. Le analisi longitudinali gli consentono di approfondire l’evoluzione dei processi analizzati, così come lo studio comparato di contesti sociali differenti e l’uso di strumenti multidisciplinari – quello dell’antropologia come della filosofia, della scienza politica come del diritto – rendono originale e prezioso il suo contributo scientifico alla conoscenza sociologica. Altrettanto ampia è anche la sua produzione che attesta l’attenta e articolata azione di ricerca e insegnamento. Fra le pubblicazioni più rappresentative si segnalano Historia del Pensamiento Social, Ariel, 1967; Sociología, Barcelona, 1968 (trad. it.: Sociologia, Sansoni, 1973); Mass Society, Martin Robertson, 1976; Ensayos Civiles, Ediciones Península, 1984; El Destino de la Libertad, Espasa Calpe, 1987; Carta sobre la Democracia, Ariel, 1996 (trad. it.: Le ragioni della democrazia, Laterza, 1998); Ciudadanía, desigualdad social y Estado de Bienestar, Ed. Peninsula, (2003). Ha curato Contemporary Europe. Vol. I, St. Martin’s Press, 1971; Contemporary Europe. Vol. II, Routledge & Kegan Paul, 1971.

 

Era la fine degli anni Novanta e insieme a tanti collaboratori della Cattedra di Sociologia del prof. Carlo Mongardini partecipavo, lavorando alla Segreteria, al Premio Europeo Amalfi per le Scienze Sociali. Come se non bastasse lo scenario di incanto dellHotel dei Cappuccini di Amalfi, tradizionale sede del Premio, non era raro consumare il pranzo o la cena allo stesso tavolo di illustri maestri della sociologia, o viaggiare al loro fianco fra Roma e Amalfi. Questo è stato il mio fortunato «approdo alla sociologia», sentendo discutere a cena di movimenti e del nuovo ruolo delle donne da Alain Touraine e di nuovi processi organizzativi del lavoro da Richard Sennett sulle curve della Costiera Amalfitana in arrivo alla sede del Convegno. Fra gli altri conquistò tutti gli organizzatori che lo conoscevano da tempo, gli ospiti che lo apprezzavano a partire dalla fama e noi freschi laureati che conoscevamo i suoi testi come quello sulla democrazia quel sociologo spagnolo sprizzante simpatia e concetti sociologici con straordinaria umiltà e grande intelligenza. Da quei miei primi passi nella sociologia a oggi ho incrociato più volte i concetti e i consigli di Salvador Giner, riuscendo ancora oggi a sorprendermi per la sua preveggenza. Quella scientifica rispetto a importanti concetti sociologici e quella professionale di accademico poliglotta che in tanti campus e dipartimenti nel mondo ha insegnato e fatto ricerca. Proprio a una sociologia che si impone in un contesto sociale privato della libertà e della conoscenza come quella che Giner fra i primi ha portato nel paese amico della Spagna si ispira la chiacchierata che segue con un sociologo che qualcosa di utile può certamente suggerire ai sociologi oltre che a lettori e studenti.

 

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Professor Giner, mai come nel suo caso la sociologia non è solo libertà di conoscenza, ma anche di vita. La sua scelta di diventare sociologo nella Spagna predemocratica si è imposta nonostante difficoltà e sacrifici. Cosa lha motivata a viaggiare allestero per studiare la sociologia e affermarsi professionalmente studiandola e insegnandola?

 

Ho scoperto la sociologia per puro caso. Dopo gli studi liceali, essendo figlio di insegnanti di scuola, volevo fare studi universitari e pensavo di fare il medico, ma la prova di accesso alla Facoltà richiedeva un esame di logica, così che scelsi il percorso di Laurea in Diritto, pur senza una vera vocazione. Avevo superato vari esami che, però, non mi entusiasmavano del tutto, fin quando trovai in una libreria un testo usato di un autore tedesco, Hans Freyer, pubblicato in spagnolo da una casa editrice di Buenos Aires, dal titolo Sociologia come scienza della realtà. Mi incuriosì al punto da leggerlo e da trovare altri testi sulla sociologia per scoprirne la storia. Da Condorcet, a Saint-Simon, a Comte mi appassionai ai loro studi e all’evoluzione di questa scienza mentre terminavo gli esami del Corso di Laurea in Diritto e diventavo avvocato. Avrei dovuto intraprendere quella carriera, ma invece mi informai per vedere se c’erano borse di studio per proseguire gli studi di sociologia. Il mio unico obiettivo era approfondirne la conoscenza in quello che al tempo era considerato il centro più importante a livello internazionale, il Dipartimento di Sociologia di Chicago – ancora oggi fra i quattro-cinque più prestigiosi. Così, mi rivolsi con determinazione al Consolato generale degli Stati Uniti di Barcellona dove presentai una application per ottenere una borsa di studio. Fui valutato con attenzione da cinque cattedratici di varie discipline non sociologiche e, in attesa del loro giudizio, decisi di attendere questo loro responso importante per me andando a studiare sociologia in Germania a Colonia presso la cattedra del Prof. René König, più tardi divenuto presidente dell’Associazione Internazionale di Sociologia. Ero uno studente non iscritto, senza molti soldi a disposizione – ricordo che ricevevo un pasto al giorno alla mensa studentesca, elargito dal sindacato degli studenti dell’ateneo tedesco – ma era grande il desiderio di poter approfondire la conoscenza della sociologia. Solo dopo circa nove mesi il Consolato generale degli Stati Uniti a Barcellona mi comunicò che mi aveva concesso la Borsa di Studio Fullbright per poter viaggiare a Chicago: il pagamento del viaggio di andata e ritorno e le tasse del primo anno di frequenza nell’università statunitense prescelta. Mentre gli altri miei amici e richiedenti la borsa avevano optato per college come Yale, Harvard, Stanford, io avevo scelto la University of Chicago e, molto più precisamente, il suo Department of Sociology, che mi era stato indicato dal Prof. Enrique Gómez Arboleya – che fu poi il primo cattedratico spagnolo di Sociologia – come il centro della sociologia nel mondo. Questo è stato il mio primo passo verso lo studio e la conoscenza sociologica anche fuori dalla Spagna, dal mio paese, e dove potevo abbeverarmi del vero sapere che ho sempre continuato a cercare profondamente.

 

Può indicare fra studiosi e pensatori che ha conosciuto durante la sua formazione e, più tardi come ricercatore, qualche «maestro»?

 

Le mie esperienze sociologiche importanti sono iniziate negli Stati Uniti. Era il lontano 1959. Andai negli Usa con l’ultima nave che faceva il percorso da Genova a New York passando per Gibilterra – dopo di allora sono stati inaugurati i voli aerei transoceanici. La mia avventura sociologica americana è iniziata con l’entrata nel porto di New York, di cui ricordo ancora l’immagine che mi si stagliò davanti della Statua della Libertà, dopo un viaggio di alcuni giorni e varie lungaggini burocratiche per il passaporto. Dopo tre mesi di soggiorno a Yale sono finalmente arrivato a Chicago dove ho studiato sociologia per tre mesi nel celeberrimo Dipartimento al terzo piano dell’Ateneo. Vi rimasi solo tre mesi perché, dopo aver studiato sociologia presso la cattedra del Prof. Edward Shils – amico di Parsons e coautore dell’importantissimo volume Toward a general theory of action (1951) fu proprio lui a indirizzarmi verso un diverso filone di studi. Sebbene a Madrid il prof. Enrique Gómez Arboleya mi avesse consigliato di studiare la Sociologia proprio a Chicago, il Prof. Shils, dopo questi miei primi mesi di studio presso il Dipartimento, aveva individuato in me una maggior propensione all’analisi delle teorie e delle idee sociali e minore per l’analisi empirica. Forte della fitta rete di conoscenze con sociologi connazionali, Shils mi introdusse al Prof. Fredrick Hayek dell’Università di Cambridge, dove aveva anche egli una cattedra, e io iniziai a seguire i suoi corsi al King’s College of Cambridge e a preparare la mia tesi di dottorato sul tema «La teoria della società di massa», concetto che era stato sviluppato da studiosi tedeschi, di cui io potevo leggere in lingua originale i testi. Negli anni del mio soggiorno fra Chicago e Cambridge, supportato molto dalla concessione di una borsa di studio dell’Università di Chicago e dalla nomina a Research Fellow del Department of Sociology, posso considerare molti studiosi e pensatori come miei riferimenti primi in questo percorso di studi per la tesi e per le mie iniziali ricerche, a partire da Shils. Mi considero un allievo ma non discepolo di Hayek, grazie alle cui indicazioni, però, ebbi modo di frequentare anche il corso semestrale che Hannah Arendt tenne proprio a Chicago sulla «Teoria della rivoluzione». Ricordo distintamente quel corso tenuto in un’aula non molto grande a una dozzina di studenti, durante il quale ci spiegò la sua teoria di classificazione del processo rivoluzionario ricorrendo a due modelli di riferimento: quella giacobina, violenta e radicale e quella democratica, pacifica e progressiva. Vorrei ricordare che alla fine di quel corso la Arendt pubblicò il suo On revolution (1963). Ebbi modo – e fu mio desiderio - di parlarle accompagnandola verso l’ufficio, ma mai entrai al suo interno perchè nel 1964 non era consentito a uno studente di sesso maschile entrare nello studio di una professoressa. Le lezioni, le sue idee e il suo impianto teorico sono stati per me sempre illuminanti. Da allora ho seguito e commentato per i giornali del mio paese i suoi scritti ed ebbi anche la sua autorizzazione a scrivere l’introduzione della versione spagnola di Le ragioni del totalitarismo, pubblicato in Spagna nel 1974. Quello che seguì personalmente fu il suo ultimo anno di corso al Department of Sociology, poiché scelse di spostarsi in altre sedi universitarie e di dedicarsi alla pubblicazione di opere come Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil (1963) e Men in Dark Times (1968). Tornando a Shils, ricordo che negli anni della mia permanenza a Chicago si spostò per esigenze didattiche anche al King’s College di Cambridge dove andai per motivi di studio anche io più volte, ottenendo alla fine del mio soggiorno americano, oltre al titolo di Research Fellow, anche quello di dottorato e di Master, di cui conservo un diploma mai esposto pubblicamente. Tornando a Barcellona, quello che mi trasmisero maestri come Shils e Arendt o Mircea Eliade, di cui seguì alcune lezioni sui miti che tenne a Chicago, fu molto di più. Accanto a loro indicherei il cattedratico di Filosofia del Diritto quale lo conobbi e, più tardi, primo ad avere una cattedra di Sociologia alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Commerciali dell’Università di Madrid, Enrique Gómez Arboleya. A lui mi legano i consigli preziosi di indirizzo verso l’Università di Chicago e l’introduzione della Sociologia in Spagna, oltre a un ricordo personale, sebbene molto triste, quello della sua morte per suicidio poco prima del Natale 1959. La notizia mi giunse a Chicago poco dopo aver ricevuto una sua lettera nella quale, fra l’altro, mi raccontava del suo disagio di vivere in una città «diabolica» come Madrid, lui un nobile di Granada.

 

La sua formazione oltreoceano, ancora prima in Germania, gli anni successivi da ricercatore e docente in vari campus nel mondo: quali elementi hanno apportato queste diverse esperienze al suo profilo scientifico che considera fondamentali?

 

Le mie esperienze fuori dai confini patri sono un patrimonio ricco che è parte integrante della mia stessa identità. Nel periodo compreso tra il 1965 e il 1989 sono stato professore all’Università di Cambridge, all’Università di Reading, all’Università di Lancaster e all’Università di Thames Valley (Brunel) e ho tenuto lezioni all’Università di Roma «La Sapienza», all’Università Nazionale Autonoma del Messico, all’Università di Porto Rico, all’Università della Costarica, all’Università di Buenos Aires e all’Università autonoma di Barcellona. A ragione si può parlare di tanti diversi elementi che le esperienze effettuate in altrettanto differenti paesi del mondo hanno contribuito ad apportare. Se ripenso all’esperienza statunitense posso apprezzare l’incontro con discipline altre dalla sociologia, come in quell’ateneo ebbi occasione di misurare rispetto all’antropologia con cui ebbi una vicinanza se si può dire anche fisica dal momento che nell’edificio dell’Ateneo di Chicago che ospitava al terzo piano il Department of Sociology, al secondo piano ospitava anche la sede del Department of Anthropology. Da allora questa disciplina è legata anche a un mio desiderio non realizzato: infatti, nei primi Anni Sessanta quel Dipartimento era il più importante del mondo per l’antropologia e avrei potuto – e voluto – studiare il tema per eccellenza che distingueva a quel tempo le ricerche degli antropologi di Chicago, cioè los pueblos indios, allora residenti nelle zone del Texas. Se avessi avuto coraggio e maggior fiducia in me stesso, avrei potuto utilizzare la mia lingua madre: parlavo spagnolo e avrei potuto dare un valido supporto a quel team di ricercatori e da lì chissà quali altri ricerche avrei potuto condurre... Sempre a partire dall’esperienza nordamericana ho potuto trarre un altro elemento di grande arricchimento personale. Lì, e più tardi nei vari campus universitari, ho incontrato persone di nazionalità disparate con cui condividevo spazi e strutture di ricerca, sebbene non le discipline di studio, altrettanto diverse fra loro, nelle quali si cimentavano con risultati per quei tempi d’avanguardia. Ricordo, fra i tanti altri, l’incontro a Chicago nei primi anni Sessanta con uno studioso italiano che stava analizzando i meccanismi di riproduzione di cellule tumorali. Ancora, negli anni in cui iniziavo la professione di sociologo in Spagna, questa disciplina si stava imponendo nei percorsi formativi di molte università europee ed ebbi l’opportunità di essere presidente o componente delle Commissioni giudicatrici di molti paesi, anche l’Italia, e di conoscere la rilevanza della disciplina, la preparazione dei candidati e il ruolo che questa disciplina andava acquisendo in quegli anni nell’alta formazione universitaria di vari paesi europei. Quale membro di quelle Commissioni di valutazione che richiedevano un componente di diverso paese europeo ebbi modo di osservare e misurare come la sociologia si inseriva nei piani formativi dei giovani che avrebbero popolato il mondo delle professioni dei decenni successivi, di verificare il peso che la disciplina acquisiva progressivamente in quegli anni e, soprattutto, anche se potrà apparire meno rilevante – ma non lo è – il carattere specifico dei vari popoli europei rappresentato dagli altri Commissari, dai candidati, dalla comunità scientifica con la quale mi sono relazionato. Devo dire che ho anche scritto molto e in modo critico, quasi derisorio, sul mito del carattere sociale di un popolo, ma devo ammettere che, alla luce delle mie esperienze in giro per il mondo, esistono caratteri tipici dei cittadini di singole culture nonostante la globalizzazione.

 

Può descrivere a studiosi e studenti italiani quali ritiene che siano state le fasi decisive della sua carriera accademica?

 

Quando nel 1964 tornai a Barcellona da Chicago, la mia città aveva da poco istituito una Facoltà di Scienze economiche e sociali insieme a una sede gemella a Madrid. Al Rettorato si pensò di aprire un primo Dipartimento di Sociologia, di non grandi dimensioni e rilevanza rispetto a quelli economici, e questa fu per me un’importante occasione per proseguire i miei studi e ricerche nel mio paese, forte delle acquisizioni scientifiche e, perché no, umane che avevo collezionato negli Stati Uniti con così importanti maestri. Così mi presentai al colloquio per l’assegnazione della cattedra di Sociologia con grande sorpresa della Commissione giudicatrice visti i miei trascorsi di studio a Chicago e in considerazione della situazione sociale complessa che il mio paese viveva in quegli anni. I commissari avevano un unanime parere sulle mie capacità e conoscenze e le giudicavano tali da poter cercare all’estero una più adeguata collocazione professionale e anche remunerativa. Ma io avvertì che quello era il posto dove la sociologia doveva proseguire le prime purtroppo fugaci esperienze coltivate dalla cattedra di sociologia del mio maestro Prof. Gòmez Arboleya. Così diventai il primo sociologo universitario in Spagna dopo la sua breve parentesi e in un sistema universitario che aveva riconosciuto alla sociologia una più evidente dignità disciplinare con Dipartimenti e cattedre nate espressamente per la sociologia e per formare nuovi sociologi. Aggiungerei questa fase a quella precedente che mi aveva visto viaggiare prima in Germania e poi negli Stati Uniti alla ricerca della sociologia per approfondirne concetti e modelli teorici distintivi rispetto alle altre scienze sociali. Come quei viaggi lo furono per me, così l’acquisizione nel sistema universitario spagnolo di corsi di studi e centri di didattica e ricerca sociologici affermano quanto io ho scritto sulla sociologia, ossia che «…è una delle strade più accessibili all’uomo moderno per prendere coscienza di sé stesso. La sua critica e la sua comprensione dell’universo umano sono un’affermazione della nostra volontà, della nostra capacità di confrontarci con il mondo guardandolo faccia a faccia. La sua prassi è anche prassi di libertà» (Manuale di sociologia generale, 2017).

 

Quale ruolo ha avuto la sociologia per la Spagna che ha vissuto la profonda rivoluzione verso la democrazia? Quale pensa che sia stato il suo ruolo e quale dovrebbe essere quello del sociologo nei processi di trasformazione sociale?

 

Diventato professore della cattedra di Sociologia nell’Università di Barcellona, sebbene giovane, ho presieduto a tutti i concorsi di assegnazione delle cattedre di sociologia in Spagna (Madrid, Granada, Santiago de Compostela e le altre successivamente): in quegli anni nel mio paese non furono opposti particolari ostacoli al favorire la diffusione di questo insegnamento rispetto a quanto si potrebbe pensare. Rilevante, soprattutto, in un paese per nulla unitario nella cultura, come dimostrano le quattro-cinque lingue – e non dialetti – che vi si parlano: ciò è la dimostrazione più evidente delle sue origini storiche, molto diverse fra loro, al punto da considerare la cultura di un luogo in Italia come Alghero un vero e proprio elemento distintivo di un’enclave italiana della Catalogna. Scenari sociali come questo e le evoluzioni che subirono a partire dagli anni Sessanta, quelli nei quali ho vissuto rientrando in Spagna e ho esercitato il ruolo di professore di sociologia, hanno messo in discussione la funzione semplificata, perché doppia, della sociologia che allora era generalmente assunta: scienza tradizionalmente intesa come descrittiva della società, della sua struttura e dei suoi processi – secondo quanto ho appreso dallo stesso Edward Shils e dalle teorie che conosciamo come parsonsiane; oppure scienza critica della società che ho sperimentato personalmente studiando la società spagnola ai tempi del regime franchista e anche altri paesi europei. Ricordo, fra gli altri, i miei studi «critici» sulla società francese degli anni Sessanta partecipando al gruppo di ricerca denominato «Ruedo Iberico» a Parigi. Il confronto fra queste teorie si è dimostrato insufficiente a spiegare le trasformazioni che si è inteso interpretare come prodotti delle ideologie rivoluzionarie di destra o di sinistra. In realtà, il cambiamento sociale si è affermato senza rivoluzioni radicali basate sulla verità che ognuno dei diversi gruppi ideologici proponeva. Il ruolo del sociologo, a mio parere, non è quello militante in prima linea, ma esplorativo e interpretativo dei processi sociali. Lo compresi fin dalla prima – e unica – esperienza politica che ebbi come studente universitario fondatore del primo gruppo comunista universitario spagnolo, dal quale, non a caso, fui espulso solo dopo due mesi perché il mio comportamento di vita, così come lo è sempre stato anche nello studio, non è mai stato nettamente orientato da un’ideologia politica. Fui definito dai miei compagni di avventura «comunista» anti franchista, un liberal non adatto alla politica, come lo fu, per esempio, il mio collega di studi e «cellula», poi divenuto socialista e anche ministro della Cultura, Jordi Soler. Per quanto mi concerne, vedo a me più confacente il ruolo di sociologo, cioè di quell’osservatore, come ho avuto modo di scrivere più volte, in grado di proporre una «visione della società come insieme di forze in conflitto e tensione dal cui ambito emerge l’uomo come creatura cosciente, intenzionale e morale. L’adozione di tale quadro teorico impedisce che gli esseri umani siano intesi quale mero prodotto dei condizionamenti sociali e biologici ai quali sono esposti per considerarli, invece, esseri dotati di una relativa autonomia. Gli uomini e le donne, cioè, sono esseri in grado di giudicare la desiderabilità o indesiderabilità di una situazione sia in base ai loro propri interessi o preferenze, sia in termini etici» (Manuale di sociologia generale, 2017). Quindi, ritengo che il mutamento storico che leggiamo attraverso le strutture sociali – e non solo non siano soggetti soltanto a una logica impersonale loro propria, ma sono al tempo stesso frutto dell’azione umana intenzionale. Come si può comprendere, per me che assumo come fondamentale questo significato per la sociologia, è ben chiaro quale debba essere il ruolo del sociologo in generale e quale lo sia stato attraverso la mia esperienza vissuta nel mio paese e in quelli in cui ho viaggiato per studio e ricerca.

 

C’è un rapporto indissolubile fra teoria sociale e analisi di processi sociali che ha analizzato direttamente come quelli di democratizzazione, di partecipazione attraverso i movimenti sociali o di attestazione dei diritti fondamentali. Oggi come giudica questo Suo approccio prediletto allanalisi dei fatti sociali?

 

Consapevole che altri sociologi possano avere diverse posizioni, ritengo che l’analisi dei fatti sociali così come io l’ho intesa da sempre non possa che essere tale considerando che, rispetto a tutte le altre scienze sociali che studiano l’uomo, il suo comportamento e gli effetti delle sue azioni, la sociologia analizza la struttura, i processi e la natura della società umana in generale, con un approccio sistemico al quale, al contrario, le altre discipline oppongono visioni di aspetti parziali. Avendo avuto la possibilità di compiere studi giuridici e filosofici, ho compreso come lo sguardo sociologico possieda un differente grado di generalità e, al tempo stesso, una diversa enfatizzazione dei fenomeni che non la pongono in rapporto di superiorità con le altre discipline come riteneva ai suoi tempi Comte. Piuttosto, come sottolineò Vilfredo Pareto, ritengo che «la società umana è oggetto di numerosi studi. Alcuni costituiscono discipline speciali come il diritto, la storia, l’economia politica, la storia delle religioni ecc., ma alla loro sintesi che mira a studiare la società umana in generale si può dare il nome di sociologia» (Manuale di sociologia generale, 2017). Questo rende, in verità, molto più presumibilmente, la sociologia dipendente dai risultati e dalle esperienze delle altre discipline, una scienza sociale non del tutto autonoma, che può ingenerare confusioni, In realtà, però, la sociologia può contare su una sua specifica e unitaria natura che deriva dal suo metodo di analisi applicato all’osservazione e interpretazione della vita delle collettività e delle relazioni interumani mettendo sempre in relazione fenomeni che appartengono a vari livelli della vita sociale. Ciò le consente di stabilire connessioni definite fra fenomeni politici e religiosi, economici e artistici, etici e culturali. Nel tentativo di leggere e delineare l’unità e la diversità del mondo sociale con la fondamentale interdipendenza della realtà sociale la sociologia adotta quell’approccio inter-relazionale che è suo tipico e che è meglio conosciuto come «immaginazione sociologica». Posso dire di avervi fatto sempre ricorso nello studio dei processi e dei fatti consapevole, nella veste di sociologo, di dover evidenziare quali siano i fattori predominanti in ciascun processo e situazione analizzata. Perché la sociologia è assieme una scienza teorica ed empirica. Lo è nel primo riferimento perché tenta di spiegare ogni volta una parte della realtà riferendosi a proposizioni generali connesse logicamente e ordinatamente, proponendo, quindi, una teoria che universalizza e integra le conclusioni parziali, i dati e le evidenze che vengono da altre discipline dalla visione più parziale e, o, dalla sua analisi empirica. È scienza empirica, quindi, perché la totalità delle sue conoscenze viene da osservazioni effettuate sulla società concreta, esaminata rigorosamente e in modo neutrale con strumenti tanto diversificati quanto è varia la stessa realtà osservata. Ne deriva, in conclusione, quello che nella domanda si descriveva come un «approccio prediletto»: la sociologia può essere considerata una disciplina aperta, nel senso di non dogmatica perché non accetta alcun argomento, definizione, evidenza che sia solo il prodotto di un mero principio di autorità. L’approccio prediletto è, dunque, quello empirico, teorico e aperto nel senso di a-dogmatico e cumulativo: dati, ipotesi, teorie sempre più elaborate e verificate, quindi migliori e, al contempo, migliorabili, si sostituiscono a quelle precedenti sottoposte a un continuo processo di riesame e dubbio metodico.

 

Negli ultimi anni la sua attività di ricerca si è sviluppata in istituzioni e contesti molto più vicini alle sue origini, nella terra natia della Catalogna, a favore della quale la sua azione intellettuale si traduce in partecipazione nella società civile. Questa esperienza cosa apporta al suo patrimonio scientifico?

 

Credo che il riferimento al ritorno alla mia terra patria per le attività scientifiche sia ben rappresentato dalla mia esperienza presso l’Institut de Estudis Catalans, l’Istituto di Studi Catalani di Barcellona, di cui sono membro dal 1995 avendo ricoperto il ruolo di vice Presidente dal 2002 al 2005 e di Presidente per due mandati consecutivi dal 2005 al 2013. Questo Istituto, ubicato in uno splendido palazzo barocco di cui è notissimo il patio, è un centro di lingua catalana le cui attività scientifiche sono suddivise in sezioni e società sussidiarie. Il suo ruolo è promuovere e sviluppare la ricerca nei diversi campi della scienza e della tecnologia, ma principalmente di farlo preservando tutti gli elementi della cultura catalana. Può operare in tal senso diffondendo ricerche e lavori scientifici attraverso iniziative che ospita presso la sua sede e anche attività di altre istituzioni strettamente legate alla ricerca e alla cultura. Le sezioni scientifiche di cui si compone l’Institut - storico-archeologica, di Scienze Biologiche, di Scienza e tecnologia, di Filologia e di Filosofia e Scienze Sociali – promuovono attività di ricerca in Catalogna, ma anche nell’ambito di Accordi di collaborazione con le università dei paesi catalani e nel mondo con organizzazioni del settore scientifico e culturale, partecipando a programmi internazionali. Oltre ai risultati di questi studi, l’Institut mette a disposizione le relative pubblicazioni e un fondo bibliografico al quale ho contribuito donando gran parte dei miei libri e documenti. Anche all’Institut, come membro e come massimo rappresentante istituzionale ho inteso proporre il ruolo di scienziato sociale che ho seguito sempre nel corso della mia carriera che, a sua volta, è intriso della cultura e del carattere catalano che mi distingue, assieme a quello basco che ho ereditato dalla mia mamma. Si tratta di una miscela unica, che non si può ripetere, forse proprio per questo del tutto significativa o non significativa affatto. Tornare a lavorare e a vivere più stabilmente a Barcellona comporta certamente una maggiore immersione nella società catalana, senza incursioni nella sua politica o nel suo sistema economico, come spiegavo precedentemente, quanto più a contatto con la società, parte della società, quella che in termini scientifici si identificherebbe come «società civile». Ho avuto modo di definirla per l’Enciclopedia Treccani (1998), proprio qui in Italia, come «quella sfera storicamente costituita di diritti individuali, libertà e associazioni volontarie, la cui autonomia e reciproca concorrenza nel perseguimento dei propri interessi e desideri privati sono garantite da un’istituzione pubblica, chiamata Stato, la quale si astiene dall’intervenire politicamente nella vita interna di questo ambito di attività umane». Se assumiamo questa sfera sociale come configurabile attraverso i cinque tratti distintivi dell’individualismo, della privacy, del mercato, del pluralismo e della struttura di classe, possiamo ben comprendere come natura, dinamiche e processi della società civile siano complessi per l’analisi e per la loro stessa evoluzione. Basti pensare a uno di questi tratti per comprendere l’importanza del vivere la società civile e quanto questa possa apportare all’analisi sociologica come a un’esperienza di vita. Se in termini sociologici il pluralismo «rappresenta il riconoscimento e la legittimazione della frammentazione sociale in termini di classe, ideologia, etnia, religione e occupazione, nonché di quelle coalizioni, associazioni e istituzioni a cui danno luogo i conflitti generati da tale diversità» (Enciclopedia Treccani delle scienze sociali, 1998), nella realtà si assiste a una distribuzione asimmetrica di potere e influenza fra queste unità molteplici che formano l’universo plurale. L’asimmetria non è solo data fra unità – partiti, imprese o associazioni – fra loro analoghe, ma anche fra quelle che si affrontano per distribuirsi beni da posizioni diverse ma complementari, come accade tra il padronato e i sindacati. Quello dell’asimmetria di potere e influenza è un tratto della realtà che è inversamente proporzionale al pluralismo e, nello specifico, al riconoscimento pubblico degli attori che compongono la società civile. Eppure, questo, così come gli effetti perversi di individualismo, privacy, struttura di classe e mercato, possono solo limitare natura ed evoluzioni della società civile, ma non eliminarla perché ciò che conta è il grado effettivo e reale del pluralismo, non i suoi limiti manifesti. E ciò è ancor più vero innanzi alle minacce di invasione dello Stato e della tecnologia che hanno profondamente trasformato la società civile tradizionalmente intesa e hanno profilato l’espansione dell’individualismo, l’affermarsi della società delle organizzazioni o dell’informazione, ma anche l’imporsi di un associazionismo altruistico, di movimenti sociali indipendenti dai partiti e dalle ideologie tradizionali e lo sviluppo di un’economia cooperativistica o sociale, che ha dato nuova linfa alla società civile. Questa oggi è attiva sia sotto l’egida dell’ordine e delle garanzie delle democrazie pluralistiche e parlamentari che in ordinamenti diversi. Nei primi trova, comunque, una protezione parziale viste le ingerenze di potere dello Stato, delle organizzazioni di potere, delle forze economiche – come, per esempio, gli interessi commerciali di grandi imprese mediali o industriali non avulse da interessi politici. Si tratta di un’importante sfida, strategica, per la società civile, espressione della cittadinanza, quella di proporre ancora il loro potenziale di valori, cultura, finalità, progetti cercando, quando non è loro assicurata, legittimazione e autonomia. Una grande lezione per la società e per la sociologia che la studia.

 

Il suo rapporto con l’Italia, con la sua sociologia e i suoi studi è da sempre molto intenso. Su cosa si basa questo suo legame speciale con la Sociologia italiana?

 

Ritengo il legame con l’Italia, mio e della cultura di cui sono espressione, radicato nella storia e nelle similitudini che si rintracciano sin nelle nostre origini. Basti pensare alle espressioni artistiche e culturali. Per me è evidente, per esempio, tutte le volte che mi accosto alla poesia italiana. Ripenso a Quasimodo, allo stesso Leopardi. Forse è proprio al vostro poeta di Recanati che mi sono ispirato, nello specifico alla sua opera dello Zibaldone, quando in questo ultimo anno ho raccolto quelle idee «che muovono il mondo e danno senso alla vita», in spagnolo Ideas cabales, come recita il titolo della mia ultima pubblicazione con la quale le ho diffuse grazie alla amorevole collaborazione con la società editrice Alianza editorial. Tornando all’Italia, questo paese ha un posto speciale per il sociologo Giner e per l’uomo Salvador. Numerose sono le collaborazioni di studio e ricerca che ho svolto con colleghi italiani e, qui in Italia, fra tutte, si può citare la mia partecipazione al Comitato scientifico del Premio Europeo per le scienze sociali di Amalfi, presieduto dal collega Carlo Mongardini che, fra gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila ha seguito l’evoluzione della sociologia attraverso i più importanti studiosi europei riconosciuti nel loro ruolo nella cornice prestigiosa e suggestiva della costiera amalfitana. Queste collaborazioni, i miei viaggi, le attività scientifiche hanno favorito la nascita di splendide amicizie e arricchito il mio patrimonio di evidenze sulla società italiana, a quella spagnola così vicina. Il luogo in cui si svolge questa intervista – l’Istituto Sturzo a Roma a margine degli incontri organizzati dall’Alta Scuola Internazionale di Sociologia - e l’onore di parlare a lettrici e lettori della Rivista dell’Associazione di Sociologia Italiana ne sono un’altra dimostrazione.

 

Infine, vorrei chiederle di rivolgersi ai sociologi di domani con raccomandazioni, consigli, indicazioni…

 

Nel corso della mia carriera mi sono rivolto spesso ai sociologi di domani. Diversi fra i miei allievi sono divenuti sociologi e studiosi molto apprezzati nel mondo. Fra loro, vorrei ricordare Joan David Tábara, sociologo dell’ambiente, attivo in molti centri e network di ricerca a livello mondiale, il quale, come si nota dalla sua specializzazione, ha approfondito i suoi studi in ambiti non molto prossimi a quelli che abbiamo esplorato assieme quando iniziò a studiare la sociologia. Ma questo è il potere della sociologia che ho tentato di trasmettere attraverso i miei studi e pubblicazioni, specie quelli rivolti proprio a chi voglia intraprendere il percorso sociologico di studio. Ricordo, in tal senso, significativa l’opera del Dicionario de Sociologia redatto in lingua spagnola da un gruppo di ricercatori da me coordinati tutti di lingua ispanica, di cui uno proveniente anche dalle Filippine. La sociologia veniva pensata, vissuta e trasmessa dall’interno della nostra cultura verso le altre grazie all’opera di molti sociologi del domani. Forse potrà sembrare anacronistico, ma da uomo e pensatore «moderno» quale mi ritengo, credo che raccomandazioni, consigli, indicazioni – se si possono dare – rispetto allo studio della sociologia convergono nell’unico e più importante per me: partire dai classici del pensiero dell’uomo e trovare in quelli le radici della nostra natura e del nostro pensiero. Da Aristotele a Ibn Khaldùn, da Machiavelli a Montaigne, da Hume a Saint-Simon, a Comte e, da lui, a Durkheim, Marx, Pareto, Weber, Simmel e Toennies, Freud e Malinowski, Popper e Piaget, fino ad arrivare alla generazione dei miei maestri, Mannheim, Parsons, Merton e Mead. Solo in questi pensatori, qualcosa di più di autori di buone letture sui fondamenti della sociologia, può leggersi racchiusa l’essenza di questa scienza della società umana che integra in sé la dimensione umanistica e scientifica per studiare la realtà sociale umana con uno strumento che sia davvero cognitivo e razionale, etico e critico aspirando all’idea massima e universale – condivisa da tutti quei pensatori – di una «buona società», un mondo umano auspicabile.

  • Articolo
  • pp:203-216
  • DOI: 10.1485/AIS_2018/12_3435610
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