Con il saggio di apertura di questo numero, la Rivista rende omaggio a Luciano Gallino, nell’imminenza del primo anniversario della sua scomparsa e in vista del Congresso di fine mandato dell’Ais, dedicato alla sua memoria. Abbiamo scelto di ricordarlo con un intervento di Paola Borgna, sua allieva e collaboratrice per molti anni, che è riuscita nell’impresa, apparentemente impossibile, di attraversare l’imponente produzione scientifica di questo straordinario protagonista del dibattito sociologico e, in generale, della vita politico-culturale nel nostro Paese, per restituirci il senso più profondo della sua attività di scienziato. Un’attività caratterizzata da un estremo rigore concettuale, associato alla non comune capacità di guardare la realtàsociale mantenendo intatta sino alla fine la stessa vivacità, curiosità, passione degli esordi. Ciò che ha fatto di Gallino un acutissimo osservatore di tale realtà è stato il suo essere «uno scienziato schierato», suggerisce Paola Borgna. Era schierato contro i costi umani e sociali impliciti nell’organizzazione economica, politica, culturale delle società contemporanee e, al tempo stesso, teso ad affermare un’immagine della sociologia come «progetto» scientifico che, nota l’autrice, «diventa democratico quando sottoponga i suoi risultati a prova di carattere realmente pubblico e collettivo», proponendosi, così, come un progetto di «autocoscienza sociale». Ed è un progetto senza fine, perché l’oggetto della sociologia è in continuo mutamento, proponendo sempre nuove sfide alla capacità della disciplina di produrre «conoscenze tali da permettere alla realtà sociale di comprendere se stessa».
Gli altri saggi della rubrica teoria e ricerca rispecchiano pienamente due criteri che hanno caratterizzato le scelte della Rivista sin dai primi numeri. Innanzi tutto, l’intenzione di dare spazio a un ampio ventaglio di temi, particolarmente significativi nel dibattito sociologico contemporaneo. In secondo luogo, una decisa apertura a contributi di giovani ricercatori, in una prospettiva di confronto e dialogo con quelli di colleghe e colleghi che godono ormai di uno status consolidato nella nostra disciplina.
Questa prospettiva è particolarmente evidente nel secondo saggio, frutto della collaborazione di Paolo De Nardis e Luca Alteri, che costituisce, fra l’altro, una chiara testimonianza delle sfide con cui si confronta la conoscenza sociologica, oggi, a causa del mutamento epocale del suo oggetto. In particolare, nel saggio in questione, i due autori mettono a fuoco le difficoltà di leggere le trasformazioni della città nella nuova «geografia della società globale». In tale contesto, si viene affermando una prospettiva di «localismo globale», nella quale lo spazio urbano assume una fisionomia inedita rispetto al passato, proponendosi, secondo gli autori, come l’«elemento strategico di una nuova organizzazione politico-spaziale». Il saggio presenta una sintesi del dibattito su questi temi, sottolineando l’emergere di una «nuova scienza urbana» e proponendo una costruzione idealtipica, capace di reggere le sfide che essa pone, particolarmente all’analisi sociologica.
Il terzo contributo di questa rubrica, di Fiammetta Corradi, ricostruisce il dibattito sulla «Critical Discourse Analysis» (CDA), dalla sua progressiva costituzione come specifica area disciplinare, alle principali critiche avanzate da numerosi autori sia verso i suoi fondamenti teorici, sia verso gli orientamenti metodologici che ne sono scaturiti. Nonostante l’esistenza di innegabili aspetti problematici, l’autrice – contrariamente alla maggior parte dei critici – ritiene possibile individuare delle soluzioni metodologiche in grado di potenziare le valenze esplicative e critiche della CDA. In tal senso, Fiammetta Corradi avanza un’interessante proposta ispirata dalla rivisitazione dei lavori di Propp e di Toulmin.
Anche Lorenzo Migliorati prende spunto da una prospettiva teorica ormai entrata a far parte del corpus di conoscenze consolidato della sociologia, per verificarne la capacità esplicativa con riferimento a questioni tornate di attualità in tempi recenti. Nello specifico, l’autore applica la teoria del «cultural trauma» di Alexander all’analisi delle modalità con cui si è evoluta la memoria della Grande Guerra nel dibattito pubblico italiano. Migliorati presta particolare attenzione alla tensione tra soggetti del ricordo e oggetto della memoria, da cui sono scaturite diverse e contrastanti narrazioni nell’immediato dopoguerra. E mostra come le forme memoriali che sono state elaborate nei decenni successivi abbiano contribuito a «disinnescare» il potenziale destabilizzante implicito nell’iniziale conflitto di memorie, trasformando la narrazione stessa dell’evento «fino a renderla oggi una memoria ampiamente routinizzata e, per certi versi, persino dai tratti favolistici».
La prima sezione di questo numero si chiude con un saggio di Monica Santoro, sulla divisione dei compiti domestici nelle coppie conviventi. Facendo riferimento a una ricerca svolta a Milano su un campione di coppie, giovani e meno giovani, che convivono o hanno convissuto prima di un eventuale matrimonio, l’autrice si propone di verificare se, anche nel nostro Paese, si profila una maggiore simmetria fra queste coppie, rispetto alla diseguale distribuzione delle incombenze domestiche che caratterizza tradizionalmente le relazioni di quelle sposate. E si propone di capire se l’eventuale maggiore simmetria dipende effettivamente dall’«incompleta istituzionalizzazione» del rapporto che caratterizza la convivenza, come suggerisce Baxter, analizzando che cosa succede nella relazione fra partner – quindi, anche nella negoziazione della divisione dei compiti domestici – quando dalla convivenza si passa al matrimonio.
Il focus di questo numero è concentrato sul tema della valutazione in ambito universitario: una questione quanto mai delicata e tuttora molto problematica non solo in Italia, ma anche, come emerge dai saggi che presentiamo, in paesi che hanno un’esperienza molto più consolidata della nostra in questo ambito. Come spiega il curatore Davide Borrelli nel suo saggio introduttivo, la scelta dei temi è stata guidata dalla consapevolezza che i nuovi processi di valutazione costituiscano ormai «un tratto distintivo della cultura contemporanea», per cui è specifica responsabilità della comunità sociologica ampliare l’attuale dibattito su specifici aspetti tecnici e procedurali dei diversi sistemi, per aprire uno spazio di riflessione e di confronto internazionale sulla «cultura della valutazione» e sulle sue implicazioni politiche. Siamo, perciò, molto grati a Ian McNay e a Jochen Gläser, due fra i massimi esperti di valutazione in ambito europeo, per aver accettato di contribuire all’avvio di questa riflessione sulla Rivista.
Il saggio di McNay prende le mosse da una ricostruzione delle finalità e dei modi con cui, trent’anni fa, nel Regno Unico, è stato avviato il RAE (Research Assessment Exercise), primo esercizio di valutazione della ricerca, mettendo in luce le problematicità che esso ha generato anche nel corso delle successive evoluzioni del processo di valutazione nel suo Paese. Ciò che colpisce, in questo saggio, oltre all’indubbio interesse della ricostruzione di un lungo processo da parte di chi l’ha vissuto da protagonista, è il senso di déjà vu che esso suscita nel lettore italiano, confrontato in questi anni con problemi che altrove sono venuti alla luce da tempo e che i successivi aggiustamenti non sono riusciti a risolvere.
Il contributo di Gläser – un esperto di grande esperienza in tema di impatto del sistema di valutazione sulla realtà accademica tedesca – affronta la questione dal punto di vista della qualità e dell’efficienza del management istituzionale. La sua critica, perciò, non è tanto giocata – come nel saggio del collega britannico – sul piano della libertà di ricerca e di insegnamento, quanto sull’efficacia di una prospettiva finalizzata ad applicare il modello aziendalistico alla realtà accademica.
L’auspicio della redazione è che questi saggi contribuiscano a far compiere un salto di livello al dibattito italiano sulla valutazione, sottraendolo alla prospettiva provinciale che oggi lo caratterizza, per aprirlo a una seria riflessione sul futuro della formazione e della ricerca che si prospetta alle giovani generazioni, ormai proiettate in un orizzonte globale.
Il numero di ottobre si chiude con l’intervista a Franco Rositi, una personalità di primo piano della sociologia italiana, la cui reputazione deriva da quel mix di rigore intellettuale e passione civile, che caratterizza le personalità più significative della tradizione sociologica. Rositi non ha soltanto contribuito allo sviluppo della disciplina con numerose pubblicazioni e iniziative editoriali di rilievo, ma è stato anche l’ideatore di importanti progetti a sostegno dell’eccellenza nell’università italiana ed ha assunto ruoli importanti di promotore culturale, fra cui si annovera la presenza per oltre dieci anni nel Consiglio di Amministrazione del Piccolo Teatro di Milano, del quale è stato Presidente e vice-Presidente. Nella prima parte dell’intervista, Rositi rievoca il clima politico-culturale e le figure-chiave della sua formazione intellettuale, le sue esperienze di ricerca nazionali e internazionali, i legami con diversi luoghi – quello d’origine e quelli d’elezione – che hanno segnato la sua esperienza di vita. La seconda parte è dedicata alla precisazione di alcuni aspetti centrali del suo pensiero, fra cui si distingue la riflessione sull’oggetto della sociologia, in una prospettiva che mette in primo piano il concetto di struttura sociale. Indipendentemente dall’indubbio interesse di questi aspetti, l’intervista assume un significato particolare, in virtù del messaggio che trasmette ai ricercatori più giovani, ai quali Rositi consegna un’esortazione all’umiltà intellettuale nell’approfondimento della conoscenza dei classici e, contemporaneamente, un invito alla consapevolezza del valore della prospettiva sociologica nell’attuale panorama culturale.