Alberto Martinelli è uno dei sociologi italiani più noti internazionalmente. Ha svolto per quasi quarant’anni una intensa attività di insegnamento universitario, ricerca pura e applicata, pubblicazione di libri, saggi e articoli, cooperazione scientifica internazionale e consulenza a organi di governo. Ha lungamente insegnato presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università statale di Milano, di cui è stato anche Preside dal 1987 al 1999, prima come professore incaricato, poi, dal 1980, come professore straordinario, dal 1983 come professore ordinario di Sociologia economica e, infine, dal 1987, come professore ordinario di Scienza della politica. Dal 1972 al 2001, è stato inoltre professore di Sociologia all’Università Bocconi ed ha insegnato in numerose università straniere, tra cui l’Università di California a Berkeley, l’Università di Stanford, la New York University, l’Università di Valencia, l’Università Ain Shams del Cairo, l’Università di San Pietroburgo, la Sun Yat-sen University di Guangzhou. È stato Presidente della International Sociological Association (ISA) dal 1998 al 2002 e Presidente dell’International Social Science Council (ISSC) per il quinquennio 2013-2018. Ha svolto attività di consulenza nel campo della formazione, dell’organizzazione e della comunicazione per grandi imprese italiane e multinazionali. Attualmente, è Presidente della Fondazione AEM del Gruppo a2a, che svolge un’intensa attività sociale e culturale. Collabora con Il Corriere della Sera, ha scritto e scrive per diversi quotidiani e settimanali italiani e ha partecipato a numerose trasmissioni televisive.
Tra i suoi volumi, ricordiamo: La società europea (con A. Cavalli), Il Mulino 2015; Mal di nazione. Contro la deriva populista, Università Bocconi Editore 2013; Transatlantic Divide. Comparing American and European Society, OUP 2007 (trad. it. L’Occidente allo specchio. Modelli di società a confronto, Università Bocconi Editore 2008); Global Modernization, Sage 2005; La democrazia globale, Università Bocconi Editore 2004; Recent Social Trends in Italy, 1960-1995 (con A. Chiesi e S. Stefanizzi), McGill-Queens’ University Press 1999; La società italiana (con A. Chiesi), Laterza 2002; Il bilancio sociale (con A. Chiesi e M. Pellegatta), Il Sole-24 Ore 2000; La modernizzazione, Laterza 1998; Sociologia economica (con N.J. Smelser), Il Mulino 1995; L’azione collettiva degli imprenditori italiani, Ed. di Comunità 1994; International Markets and Global Firms, Sage 1991; Economy and Society (con N.J. Smelser), Sage 1990; Progetto ’89 (con M. Salvati e S. Veca), Il Saggiatore 1989 e 2009; The new International Economy (con H. Makler e N.J. Smelser), Sage 1982; I grandi imprenditori italiani, Feltrinelli 1981; Gli imprenditori e la crisi (con D. Bratina), Il Mulino 1979; Università e società negli Stati Uniti, Einaudi 1978; Sociologia della medicina (con G. Maccacaro), Feltrinelli 1971; Il campus diviso (con A. Cavalli), Marsilio 1971; Section Editor della International Encyclopedia of the Social and Behavioral Sciences, Elsevier 2001.
Vorrei iniziare questa intervista chiedendoti del tuo interesse per la sociologia, come nasce, ovvero conoscere il contesto del tuo percorso formativo, l’ambiente socio-politico-culturale dell’epoca, l’influenza dell’ambiente familiare, la presenza di maestri, o comunque figure-chiave ai fini degli sviluppi successivi.
I valori della cultura familiare erano l’etica del lavoro, l’onestà (esemplare la figura di mio padre Giovanni), la sobrietà (la morte di mio padre quando avevo 12 anni ci imponeva uno stile di vita dignitoso, ma parsimonioso e ha rinforzato i legami di affetto e di solidarietà con mia madre Anna, mia sorella Elena e la mia nonna materna Nina), la solidarietà, l’amore per la cultura in particolare musicale (mia madre era stata in gioventù un apprezzato soprano amatoriale).
Successivamente, ho condiviso gli orientamenti etico-politici e il clima intellettuale della famiglia di mia moglie Barbara Boneschi (le famiglie di entrambi i suoi genitori hanno partecipato alla Resistenza, suo padre Mario è stato esponente del partito d’Azione, protagonista di importanti battaglie civili e apprezzato avvocato milanese). Negli ultimi anni del liceo classico (il Carducci di Milano), avevo sviluppato un crescente interesse per le scienze sociali (psicologia, economia, sociologia) e un orientamento politico socialista. Erano anni di profonda trasformazione socio-economica e sentivo un forte desiderio di comprendere e di contribuire a costruire una società migliore. Al momento della scelta dell’università, sono stato in dubbio tra la Facoltà di Medicina alla Statale di Milano e quella di Economia alla Bocconi, viste entrambe come percorsi, sia pur assai diversi, attraverso cui approdare alla Psicologia. Ho scelto la Bocconi, dove ho acquisito una solida formazione economica e una preferenza per il paradigma keynesiano (che era allora minoritario in Bocconi, ma godeva dell’ottimo insegnamento di Ferdinando Di Fenizio). Lo studio delle materie economiche, aziendali e giuridiche non mi sembrava tuttavia sufficiente e lo integravo, quindi, con letture di storia, filosofia e scienze sociali. Mi sono laureto con una tesi in Statistica e Sociologia su Paul Lazarsfeld, metodologo delle scienze sociali e teorico dei mass media, con Francesco Brambilla e Angelo Pagani, che mi ha iniziato agli studi sociologici ed è stato, pur per breve tempo (è morto nel 1972), la mia figura di riferimento. Grazie a una borsa di studio Harkness, ho studiato due anni all’Università di California, a Berkeley, per il Ph.D. in Sociologia, in particolare con Neil Smelser e ho svolto la ricerca sul movimento studentesco americano, che ho pubblicato insieme ad Alessandro Cavalli. Alla fine degli anni Sessanta, Berkeley era il centro della protesta politica americana, tappa obbligata per scienziati, intellettuali e artisti progressisti in visita negli USA e il Dipartimento di Sociologia raccoglieva gli studiosi più significativi della disciplina, dal già citato Smelser a Bendix, Goffman, Lipset, Lowenthal, Schurmann, Selznick, Bellah, Wilenski e molti altri. Le due figure più importanti nella mia formazione sono state Angelo Pagani, per la capacità di coniugare ricerca e impegno sociale e la generosità di docente e Neil Smelser, per il rigore metodologico, l’intelligenza critica, la valorizzazione della collaborazione interdisciplinare.
Prima di entrare nel merito della tua biografia scientifica, vorrei parlare con te del tuo impegno di rappresentanza, che nel tuo caso è veramente importante: nell’accademia in primo luogo, ma anche in politica e nella militanza di partito. Per non dimenticare, poi, le esperienze che hanno riguardato il rapporto tra impegno civile e politico, da un lato, e le attività di rappresentanza scientifica, dall’altro. Iniziamo dalle responsabilità accademiche. Su questo fronte, va ricordato in particolare il tuo impegno nell’International Sociological Association (ISA), di cui sei stato Presidente dal 1998 al 2002, ma anche vice-Presidente per il quadriennio precedente (1994-1998) e membro del comitato direttivo (1990-1994), e la tua presidenza all’International Social Science Council (2013-2018). Come giudichi questo lungo periodo di rappresentanza e che immagini ne hai ricavato della sociologia italiana dai colleghi stranieri? Pensi inoltre che la rappresentanza accademica abbia subito delle trasformazioni importanti da quel periodo, e su quali aspetti?
Ho sempre attribuito molta importanza alle associazioni di rappresentanza scientifica internazionale e ad esse ho dedicato una parte rilevante del mio tempo e della mia attività. Ho partecipato a tutti i congressi mondiali di Sociologia, da quello di Varna in Bulgaria nel 1970 all’ultimo, che si è tenuto a Toronto nel 2018. Ho fondato, insieme a Fernando Enrique Cardoso, Neil Smelser, Harry Makler e Arnaud Sales, il comitato di ricerca «Economy and Society» e svolto diversi incarichi di coordinamento di team di ricerca nazionali e internazionali, organizzazione di convegni, conferenze e seminari scientifici, direzione di riviste. Come presidente dell’ISA, ho sviluppato il programma di seminari per gli studenti di Ph.D., con particolare attenzione a quelli provenienti dai paesi meno dotati di risorse, ho promosso il dialogo interdisciplinare, ho organizzato un congresso con migliaia
di partecipanti a Brisbane in Australia (per la prima volta in quella parte del mondo) e ho difeso la libertà di ricerca in paesi con regimi autoritari e repressivi. Come presidente dell’ISSC, ho dato impulso ad attività come il World Social Science Report (ultimo in ordine di tempo quello sulle disuguaglianze globali), il World Social Science Forum (ultimo in ordine di tempo quello che si è svolto a Fukuoka in Giappone nel settembre 2018 su Security and Equality for Sustainable Futures), ho promosso il College for Early career scientists, ho sviluppato progetti di ricerca multidisciplinari come Transformations to Sustainability nell’ambito del programma Future Earth e, soprattutto, ho realizzato, insieme a Gordon McBean, Presidente del Council gemello delle scienze naturali, la fusione dei due consigli in un’unica organizzazione mondiale della scienza, che sia una voce internazionalmente forte e autorevole in difesa della scienza, intesa come bene pubblico globale (come abbiamo scritto nell’articolo «Blurring disciplinary boundaries» sulla rivista Science, 24 novembre 2017: «L’ambizioso programma dei Sustainable Development Goals dell’ONU mostra come i problemi globali complessi costituiscano l’oggetto sia delle scienze naturali che di quelle sociali e la loro soluzione richieda un approccio integrato. La fusione tra ICSU e ISSC, organizzazioni internazionali leader nei rispettivi settori, lancia un messaggio potente: il futuro della scienza dipende dall’abbattimento dei muri che dividono le discipline accademiche»). La trasformazione più importante della rappresentanza accademica nel periodo della mia presidenza è consistita proprio nel sempre più convinto spirito di collaborazione e clima di fiducia reciproca che hanno condiviso scienziati di formazione intellettuale, appartenenza culturale ed esperienza di lavoro assai diverse, nel segno della scienza come bene pubblico globale. Circa le immagini della sociologia italiana che hanno i colleghi stranieri, direi sinteticamente che, spesso, non ne sanno abbastanza, ma quando hanno occasione di conoscerci ci apprezzano.
La tua biografia di intellettuale impegnato è inoltre arricchita dalle molte partecipazioni in comitati, commissioni e consigli nazionali, non tutti qui riproducibili. Segnalo solo i più importanti: membro del Consiglio Nazionale della Scienza e della Tecnologia (CNST); vice-Presidente della Commissione nazionale per le scienze politologiche, sociologiche e storico-istituzionali; membro del Comitato di esperti sulla educazione permanente del Ministero della pubblica Istruzione; membro del Comitato di valutazione dei programmi di intervento nelle aree depresse per il Mezzogiorno; membro del Comitato tecnico per la politica economica e sociale della Presidenza del Consiglio; consigliere del Presidente del Consiglio dei ministri Prodi per le politiche metropolitane; coordinatore del Comitato nazionale per l’integrazione degli immigrati; membro del Comitato di studio sulle riforme istituzionali, elettorali e costituzionali della Presidenza del Consiglio, Dipartimento per le riforme istituzionali (1994). Tutte queste responsabilità come hanno influito sulla tua attività di ricerca e come, a sua volta, la ricerca ne ha tratto giovamento?
Ritengo che la partecipazione a comitati di esperti, consigli e organi di governo centrale e locale rientri nelle attività della «terza missione» dell’università e, da un lato, costituisca una componente utile e necessaria del ruolo di ricercatore e professore universitario e, dall’altro, contribuisca a sviluppare il necessario rapporto tra scienza e politica (science for policy), del conoscere per deliberare, che è parte integrante del processo democratico di policy making. A questo riguardo, va rilevato che, nel contesto italiano, il contributo di sociologi, politologi, psicologi, antropologi è sempre stato assai meno richiesto e valorizzato che in altri paesi sviluppati, oltre che meno considerato di quello degli esperti di diritto e di economia. Va inoltre osservato come si stia oggi verificando nel nostro paese, ancor più che in altri, una svalutazione dell’esperto e dello specialista, a seguito della marea montante di quello che definisco nei miei saggi il nazional-populismo, che coinvolge nel suo risentimento contro le élite anche scienziati e intellettuali. I nuovi media, come facebook e twitter, alimentano il populismo. La rete potrebbe essere usata per migliorare la conoscenza della realtà, sviluppare lo spirito critico, attuare esperimenti di democrazia deliberativa, educare i cittadini al rispetto delle diverse opinioni e rendendoli più disponibili al dialogo, al confronto e alla ricerca di ragionevoli compromessi. È invece prevalentemente impiegata per denunciare e denigrare, costruire «capri espiatori», esprimere frustrazioni e pregiudizi, diffondere «post-verità», rifiutare l’autorevolezza fondata sulla conoscenza e l’esperienza da chi si ritiene esperto di tutto, lamentarsi attribuendo sempre ad altri la responsabilità delle difficoltà collettive e dei fallimenti personali.
Passando, infine, alla militanza politica in senso stretto, anche qui non mancano attività da segnalare. Nel 2001, sei stato eletto, primo per preferenze nella lista DS, nel Consiglio comunale di Milano e, nel 2007, nella Assemblea nazionale costituente del Partito Democratico. Come sei riuscito a conciliare il ruolo di scienziato sociale con quello di rappresentante politico?
La politica non è mai stata la mia attività primaria, potrei dire di aver partecipato «dalla seconda fila». Sono stato consigliere comunale di Milano nel 2001-2006 (capolista dei Democratici di sinistra nelle elezioni comunali del 2001). Nello stesso anno, sono stato proposto come candidato sindaco (ma non è stata accolta la mia proposta di organizzare le primarie e, nella consultazione finale tra i rappresentati eletti dei partiti della coalizione di centro-sinistra, ha prevalso Sandro Antoniazzi). Sempre nel 2001, ho sfidato Umberto Bossi nel collegio Milano 3, dimezzando il divario che divideva la coalizione di centro-sinistra da quella di centro-destra rispetto alle elezioni politiche precedenti del 1996, ma, nonostante il buono risultato, al momento di ripetere l’elezione nel collegio a seguito della malattia di Bossi, mi è stato preferito un altro candidato «paracadutato» da Roma. Nello stesso periodo, sono stato coordinatore lombardo dell’Ulivo e membro dell’Assemblea nazionale costituente del Partito Democratico. Ho anche fondato, insieme a Massimo Cacciari e Nicola Pasini, il Centro di formazione politica (CFP) che ha formato alcune decine di ottimi giovani, alcuni dei quali si sono successivamente distinti in politica. Credo di avere dato alla politica più di quanto abbia ricevuto e, malgrado alcune delusioni, non mi pento di aver fatto questa esperienza che ha contribuito a farmi conoscere dall’interno processi e istituzioni che sono stati oggetto di alcune mie ricerche, come quelle sui gruppi di interesse organizzati e sulle forme di intermediazione. Ho, tuttavia, sempre pensato che il ruolo di scienziato sociale vada chiaramente distinto dal ruolo di rappresentante politico e che un’esperienza politica sia utile se limitata nel tempo, se si considera prioritaria, come fatto io, la professione intellettuale di scienziato e docente. Sono convinto della saggezza di questa mia scelta, perché dalla mia estemporanea esperienza politica ho concluso che, in ultima analisi, io non miglioravo la politica e la politica non migliorava me.
Venendo alla tua produzione scientifica, la cosa che immediatamente salta agli occhi scorrendo la tua ampia bibliografia è la ricchezza e la varietà dei temi trattati, difficile da ridurre e da racchiudere in così poco spazio. Semplificando al massimo, possiamo dire che quattro sono le piste di ricerca più chiaramente individuabili: l’attenzione per le trasformazioni della società italiana e in particolare per i ceti produttivi; lo sguardo lungo e continuato sulla società americana; il filo rosso della passione per i classici del pensiero sociologico e politico; la globalizzazione, e con essa l’Europa e lo stato nazionale. Prima di affrontarle una ad una, vorrei però chiederti che cosa ti ha spinto a muoverti su fronti così diversi, e come pensi – ragionando a posteriori – si possano ricollegare tra loro.
Premesso che, in cinquant’anni di produzione scientifica, c’è spazio per una quantità di contributi diversi, penso che le ragioni di questa molteplicità di interessi siano essenzialmente tre: in primo luogo, una formazione culturale ampia (il liceo classico al Carducci, la Facoltà di Economia all’Università Bocconi, la scuola di specializzazione in Filosofia alla Statale di Milano, il dottorato di ricerca a Berkeley) che ha influito sulle letture ad ampio spettro di una intera vita e che continuano oggi (testimoniate anche dalle centinaia di presentazioni di libri cui ho partecipato nel corso del tempo). In secondo luogo, una spiccata curiosità per le trasformazioni sociali e le questioni politicamente rilevanti in atto, che sono state la fonte primaria dei miei interessi di ricerca, assai più delle tendenze e «mode» prevalenti nella disciplina nelle diverse fasi del suo sviluppo (ad esempio, negli anni Settanta, quando i sociologi italiani studiavano il sindacato, io ho svolto la prima survey nazionale sui cambiamenti ai vertici delle grandi imprese italiane, oltre a condurre ricerche sulle aziende familiari e sulle risposte alla crisi economica). Penso che il mio interesse per il cambiamento sociale e politico sia stato influenzato dal fatto che, per la mia generazione, i passaggi da una fase all’altra del proprio ciclo di vita siano avvenuti contemporaneamente a mutamenti radicali di un contesto dinamico (gli anni del «boom» economico, i conflitti degli anni Settanta, l’approfondimento dell’integrazione politica europea negli anni Novanta). In terzo luogo, la costante attenzione ai rapporti interdisciplinari, in particolare alle relazioni della sociologia con la scienza politica, l’economia e la storia; questa propensione per l’interdisciplinarità ha orientato le mie scelte verso questioni di ricerca «di confine», come, ad esempio, l’organizzazione degli interessi imprenditoriali al confine tra sociologia e scienza politica, i contributi classici all’analisi del rapporto tra economa e società (Marx, Weber, Schumpeter, Polanyi, Parsons e Smelser) e i rapporti tra sviluppo economico e modernizzazione socio-culturale, al confine tra sociologia e storia economica. Due ulteriori considerazioni connesse a questa terza ragione: la mia idiosincrasia nei confronti dell’artificialità di certi confini disciplinari e l’iper-specializzazione. In merito ai confini artificiali, quelli tra sociologia e scienza politica sono spesso dettati più da motivazioni di potere accademico che non da differenze sostanziali di metodi e paradigmi teorici. Circa l’iper-specializzazione, ho sempre trovato noiosa e poco utile la tendenza di alcuni studiosi a riformulare continuamente la propria analisi di una singola questione e vedo con preoccupazione l’attuale orientamento nelle valutazioni concorsuali delle scienze sociali ad attribuire più peso a un articolo iper-specialistico pubblicato su una rivista «di fascia a», rispetto a una monografia di più ampio respiro.
Come si diceva, una pista di ricerca importante della tua produzione scientifica ha riguardato certamente l’interesse per le trasformazioni della società italiana e, in particolare, per i ceti produttivi, impresa e imprenditori in primis, spesso intrecciata con l’analisi delle vicende della società locale. Non si contano i volumi e gli articoli ad essi dedicati nella tua lunga carriera: dalla loro cultura imprenditoriale e organizzativa fino alla riflessione sulla rappresentanza dei loro interessi. Ciò che si ricava da questa letteratura, se posso dirlo, è però non solo l’attenzione tipica dello studioso verso gli scopi conoscitivi, quanto invece quella ben più ampia dell’intellettuale engagé che osserva La società italiana in trasformazione (è il titolo di un tuo libro) e cerca di coglierne le tendenze in atto. Che cosa hai ricavato da queste ricerche, e che idea ti sei fatta dello specifico tessuto produttivo italiano?
Mi limito ai lavori più ampi, e cioè I grandi imprenditori italiani, L’azione collettiva degli imprenditori italiani e La società italiana, che ho scritto insieme ai miei allievi (con Antonio Chiesi tutti e tre, con Nando Dalla Chiesa nel caso del primo, con Marco Maraffi nel caso del terzo). I grandi imprenditori italiani è stata la prima ricerca empirica sul profilo sociale (origini, percorsi di carriera, requisiti e percezione del ruolo), atteggiamenti politici, elettorali e sindacali e rapporti con le altre componenti della classe dirigente dei presidenti, consiglieri delegati e direttori generali delle 563 più grandi imprese con sede in Italia, integrata da un esame del ruolo degli imprenditori nella questione meridionale e da un’analisi dei rapporti tra borghesia industriale e potere politico. È una ricerca che sarebbe molto interessante replicare a quarant’anni di distanza, in un contesto profondamente cambiato. Circa la specificità del tessuto produttivo italiano, due rapidissime osservazioni: l’inadeguata dimensione di molte imprese che, unita a carenze del sistema creditizio, riduce le opportunità di finanziamento e gli investimenti, ma, nonostante ciò, la perdurante capacità di molti imprenditori italiani di essere tecnologicamente all’avanguardia e competitivi nell’economia globale.
Il tema della rappresentanza imprenditoriale, solo accennato in I grandi imprenditori italiani, è stato sviluppato nel volume dei primi anni Novanta L’azione collettiva degli imprenditori italiani, che è parte di un ampio progetto di ricerca multinazionale e inter-disciplinare che ho avviato insieme a Philippe Schmitter e Wolfgang Streeck sulle business interest associations. Il libro affronta il tema, prevalentemente politologico, della logica dell’influenza, e il tema, prevalentemente sociologico, della logica dell’appartenenza nella rappresentanza degli interessi organizzati, prima, in generale e, poi, con riferimento agli imprenditori, per concludere con l’analisi del caso italiano, in cui si anticipa la questione della crisi della intermediazione nella democrazia rappresentativa, divenuta oggi di grande attualità.
L’altro principale prodotto della ricerca internazionale curato da me è International Markets and Global Firms, pubblicato nel 1991, uno studio analitico, con contributi di diversi autori, tra cui Wyn Grant, dell’impatto della globalizzazione, delle politiche statali e dell’Unione Europea e del ruolo delle associazioni imprenditoriali in un’industria-chiave come quella chimica. Nel mio percorso scientifico, è un lavoro che mi ha introdotto allo studio della globalizzazione.
Come si è osservato, queste ricerche sono parte del mio interesse più generale per le trasformazioni della società italiana, esemplificato da numerosi scritti, tra cui ricordo almeno l’antologia, curata insieme a Gianfranco Pasquino, La politica nell’Italia che cambia del 1978 (con saggi, tra gli altri, di Alessandro Pizzorno, Guido Martinotti, Sabino Cassese) e Il terzo Rapporto sulle priorità nazionali, Quale federalismo per l’Italia della Fondazione Rosselli (1997). L’opera più compiuta, a questo riguardo, è La società italiana, scritta insieme ad Antonio Chiesi e pubblicata nel 2002, che è parte di un progetto di ricerca internazionale Comparative Charting of Social Change, coordinato da Henry Mendras e Theodor Caplow, che ha pubblicato una collana di studi monografici sul cambiamento sociale dei più grandi paesi sviluppati, condotti sulla base di ipotesi, dati, indicatori e indici condivisi. Nell’ampio capitolo introduttivo, espongo il mio modello interpretativo delle trasformazioni della società italiana nella seconda metà del XX secolo come caso di modernizzazione disuguale, analizzando i fattori strutturali di cambiamento e integrazione, le strategie e ideologie degli attori pubblici e privati e le tre sfide fondamentali dell’unificazione nazionale e del consolidamento democratico, dello sviluppo economico e della modernizzazione sociale, della globalizzazione e dell’integrazione europea, dedicando particolare attenzione al ruolo del mercato, della famiglia e dei partiti politici e all’interazione tra fattori domestici e internazionali.
Un’altra tua grande passione è stata quella per gli Stati Uniti, in particolare per il suo sistema universitario e per i temi della partecipazione e della protesta politica. Si tratta di un interesse immediato e continuato nel tempo, costantemente. Il primo articolo è già del 1967, dedicato agli attivisti di Berkeley, l’ultimo è L’Occidente allo specchio, di poco tempo fa e su cui torneremo, nel quale compari la società americana con quella europea. Da che cosa nasce questo interesse per l’America e perché è stato così profondo per te?
Il mio interesse per gli Stati Uniti precede i miei studi post-laurea in quel paese. Trae origine dalla rilevanza della cultura americana (cinema, letteratura, musica, stili di vita e modelli di consumo) e della politica americana (la «nuova frontiera» kennediana, la lotta per i diritti civili degli afro-americani, la protesta degli studenti, il movimento contro la guerra in VietNam) per la mia generazione, che è diventata adulta negli anni Sessanta. Deriva anche dal fatto che chi è interessato ai processi di cambiamento sociale in un’epoca tendenzialmente globale, ovvero in un mondo sempre più integrato e interconnesso, non possa prescindere da una conoscenza approfondita di ciò che avviene nella potenza egemone, gli Stati Uniti, e dei suoi effetti su paesi come l’Italia. La conoscenza approfondita di molti aspetti della società americana, maturata in svariati periodi studio, ricerca e insegnamento (a Berkeley, Stanford e New York University) mi ha vaccinato contro i diffusi pregiudizi sia degli anti-americanisti che degli america-entusiasti, che sono tra gli esempi più evidenti del perdurante provincialismo della cultura italiana. Il programma di studio della Fondazione Harkness del Commonwealth Fund di New York richiedeva saggiamente ai borsisti di destinare tre mesi dei due anni di permanenza a viaggi nei diversi stati americani per evitare che la loro conoscenza si limitasse agli enclaves dorati delle grandi università e si estendesse invece a molti altri aspetti contraddittori di quella complicata società. Parafrasando Mario Soldati, potrei dire «America primo amore» (un amore condiviso da mio figlio Filippo e mia nuora Stefania, entrambi neurologi, che si sono specializzati a New York) perché mi hanno sempre affascinato la realtà contraddittoria di quel grande paese, la passione per la libertà, la bellezza dei grandi spazi aperti, l’eccellenza scientifico-tecnica, l’orientamento al futuro, ma anche le disuguaglianze, l’ingiustizia sociale, la violenza, il pregiudizio etnico. Per uno scienziato sociale, gli Stati Uniti sono una specie di paese delle meraviglie, un laboratorio di ricerca a cielo aperto, con enormi opportunità di indagine e di riflessione critica.
Il costante interesse per la società e la politica americana ha prodotto il libro su Università e società negli Stati Uniti, una rielaborazione della mia tesi di dottorato a Berkeley (Structural Contradictions and Organizational Response in American Higher Education) e una continuazione del lavoro Il campus diviso (scritto con Alessandro Cavalli), una indagine della politica studentesca, inquadrata nell’analisi del contesto organizzativo della grande università multifunzionale. Questa prospettiva viene ampliata nel lavoro di tesi e nel libro Università e società, nel senso che lo studio del movimento collettivo di protesta e del conflitto istituzionale diviene il modo per analizzare, in prospettiva comparata, non solo le contraddizioni dell’istruzione superiore e i problemi organizzativi delle grandi università di ricerca, ma anche la dinamica della società nel suo complesso, dalla riproduzione della classe dirigente ai rapporti tra ricerca accademica e grandi imprese, nonché le risposte di una struttura istituzionale diversificata e flessibile. Accanto al lavoro principale, ci sono antologie come quelle sul movimento studentesco (Gli studenti americani dopo Berkeley) e la protesta degli afro-americani (Il Black Panther party) e saggi su argomenti diversi, dal New Deal rooseveltiano alla politica economica e alla National security strategy dei diversi presidenti.
In tutto questo variare, una cosa che non è mai venuta meno è il tuo interesse per il pensiero dei classici, sociologico e politologico. Un filo rosso che sempre ti ha accompagnato nella professione di studioso, rilevabile soprattutto con la tua particolare predilezione per il campo economico – penso, ad esempio, alle tue Lezioni di Sociologia economica o all’Introduzione della traduzione italiana di Economia e società di Parsons e Smelser, nei quali fai i conti con questa tradizione sociologica classica – ma anche per quello politologico, su tutti: Gaetano Mosca, Hanna Arendt e Robert Dahl. Perché e da chi hai ricevuto questa passione, oggi che la sociologia classica non gode di grande attenzione?
Ed è un peccato. Non ci si può fermare ai classici, perché il mondo è profondamento cambiato dal loro tempo, ma non si possono, d’altro canto, ignorare i loro insegnamenti teorici e metodologici. E non si tratta solo dei «padri fondatori» delle scienze sociali moderne, ma anche dei «classici recenti» della seconda metà del Novecento (Parsons, Merton, Arendt, Goffman, Dahrendorf, Aron, Luhman, Linz, Dahl, per fare solo qualche nome). Capita spesso di leggere articoli in riviste, libri e addirittura manuali, in cui si ignorano contributi di autori ancora attuali, sostituendoli con versioni leggermente modificate, presentate come contributi originali di autori contemporanei («old wine in new bottles»). In alcuni casi, si tratta di un vero e proprio «esproprio intellettuale», sintomo di una ignoranza deplorevole che va contrastata con l’inserimento nei curricula di studio della lettura critica di opere classiche. Leggere Il 18 Brumaio di Marx, Il lavoro intellettuale come vocazione di Weber, La sociologia del partito politico di Michels o Asylums di Goffman è assai più utile e gradevole che leggere l’ennesimo articoletto che espone i risultati di una regressione multipla per «spiegare» un fenomeno ovvio o banale. La conoscenza della statistica, il rigore metodologico sono, ovviamente, componenti necessarie della cassetta degli attrezzi di un bravo sociologo, ma lo sono anche la conoscenza della storia e dei classici del pensiero.
Ho sempre pensato che facesse parte del mio lavoro intellettuale, da un lato, recuperare grandi esponenti della nostra tradizione culturale a cominciare da Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto e, dall’altro, introdurre nel dibattito scientifico italiano le idee di studiosi stranieri di grande interesse, come Arendt, Parsons, Smelser, Dahl, Bendix, Schurmann, Gilpin, Fligstein. A questi due intenti se ne è aggiunto di recente un terzo: promuovere la conoscenza all’estero e, in particolare, nel mondo anglosassone (vista la centralità dell’inglese nel discorso scientifico contemporaneo) di studiosi italiani poco noti internazionalmente come Carlo Cattaneo. A questo riguardo, ho promosso la traduzione in inglese di La Psicologia delle menti associate nell’edizione critica curata da Barbara Boneschi ed edita dall’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere e la pubblicazione da parte della casa editrice Brill di un’antologia degli scritti di Cattaneo su sviluppo economico e modernizzazione sociale.
Il frutto più rilevante del mio interesse per i classici, oltre alle introduzioni critiche alle opere tradotte che ho citato in precedenza, è Economia e società, una raccolta di saggi sui modelli teorici dell’economia politica classica, Marx, Weber, Schumpeter, Polanyi, Parsons e Smelser e, in particolare, sulle relazioni tra la dimensione economica e sociale della vita collettiva. Il libro assume come punto di partenza il paradigma dell’economia politica classica, con i suoi postulati utilitaristico-razionali e il rovesciamento operato da Marx, e si sviluppa attraverso la ricostruzione critica di quattro approcci alternativi: l’analisi weberiana dei rapporti tra economia e forme di relazione sociale, con specifico riferimento alla singolarità del razionalismo occidentale; la teoria schumpeteriana dello sviluppo economico e della crisi sociale del capitalismo; la critica del mercato autoregolato e l’antropologia comparata di Polanyi; il tentativo di Parsons e Smelser di ricondurre la teoria economica entro una teoria generale dell’azione. In questo modo, si affrontano questioni fondamentali delle scienze sociali contemporanee, come la specificità del capitalismo come sistema di produzione e organizzazione sociale e il rapporto tra gli apparati concettuali della scienza economica e della sociologia. Economia e società è tra i miei libri quello che ha avuto più ristampe (insieme a La modernizzazione), ben noto alle migliaia di studenti che hanno frequentato Sociologia in Bocconi nel corso di quasi trent’anni (accade spesso di incontrare ex studenti che me ne parlano con apprezzamento).
Veniamo ora alle successive piste di ricerca, le cui radici pure sono lontane. Notiamo, infatti, che da un po’ di tempo il tuo interesse di studioso si è particolarmente concentrato sull’analisi dei processi di globalizzazione e sulle sue diverse articolazioni. Nello specifico, la tua riflessione è ricaduta sui temi – assai intrecciati – della modernizzazione e della governance democratica della globalizzazione, dell’Europa e dello stato-nazione – sulla loro tenuta e sull’emergere dei «nazional-populismi», come li chiami tu – e del dialogo interculturale. Global Modernization, La democrazia globale, La società europea (con Alessandro Cavalli), Mal di nazione. Contro la deriva populista e L’Occidente allo specchio sono solo i titoli più significativi di questa tua produzione dell’ultimo periodo. Su di essi vorrei soffermare ora la mia attenzione.
In un testo di qualche tempo fa, La modernizzazione (1998), tu concludevi incrociando i temi della modernizzazione con quelli della globalizzazione e affermando come il primo dei due processi si stesse ormai estendendo a livello planetario costituendo la spinta propulsiva dei cambiamenti nei vari paesi nonché provocando in essi reazioni del tutto specifiche. Questo tema è poi stato meglio sviluppato in Global Modernization, di più recente pubblicazione. Cosa c’è di diverso e di nuovo in questo tuo lavoro rispetto a quella iniziale intuizione?
Il libro sulla modernizzazione, nato su sollecitazione di Paolo Ceri, aveva l’obiettivo di rivalutare i concetti di modernizzazione e sviluppo politico e gli studi su questi temi condotti negli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta, troppo frettolosamente liquidati come prodotti ideologici del contesto della Guerra fredda, anche alla luce della ripresa del dibattito sulla modernità a partire dalla metà degli anni Ottanta, per l’effetto combinato dei grandi processi di fine millennio: le trasformazioni del capitalismo (globalizzazione dell’economia, dispiegarsi della società postindustriale, passaggio dalla organizzazione del lavoro nella grande fabbrica con produzione di serie di tipo fordista-taylorista a forme automatizzate e flessibili, crescente centralità del consumo rispetto alla produzione); il rapido e intenso sviluppo economico dei paesi dell’Asia orientale (innanzitutto le «quattro tigri» asiatiche – Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong – ma sempre più anche la grande Cina e la grande India) e di alcuni paesi dell’America Latina, che seguono percorsi di modernizzazione fondati sul connubio tra liberismo economico e autoritarismo statale, il cui successo economico metteva in difficoltà sia le teorie neomarxiste della dipendenza e del crescente divario tra paesi centrali dominanti e periferie sottosviluppate, sia le teorie liberali che sostenevano il reciproco rafforzamento della crescita economica e della democrazia politica; e la serie di eventi traumatici, e in larga misura inattesi dall’opinione pubblica mondiale e non, previsti dalla grande maggioranza degli studiosi (implosione dell’Unione Sovietica, riunificazione tedesca e avvio della difficile trasformazione economica e politica dei paesi post-sovietici e post-comunisti dell’Europa orientale).
Questi profondi e spesso traumatici cambiamenti avevano ravvivato l’interesse per lo studio della modernizzazione come area di ricerca sociologica e politologica assai vitale e promettente, in grado di offrire strumenti indispensabili per analizzare sia i percorsi dei paesi sviluppati, sia le trasformazioni e le crisi rapide e tumultuose di molti paesi asiatici e latino-americani, sia la transizione dei paesi postcomunisti dell’Est europeo. Il mio libro ha inteso dare un contributo di analisi concettuale, ricostruzione dei diversi percorsi verso e attraverso la modernità, disamina critica dei principali approcci di ricerca (teoria della modernizzazione, sociologia storica, teoria dello sviluppo politico, approcci neomarxisti della dependencia e del sistema mondo, studi di political economy e di analisi comparata delle culture), formulando una sintesi degli aspetti qualificanti, esaminando le tendenze in atto nelle società occidentali sviluppate alla luce del dibattito su modernità, postmodernità e modernità radicale, e concludendo con una discussione del rapporto tra modernizzazione e globalizzazione.
La nuova edizione di La modernizzazione, pubblicata nel 2009, Global Modernization: Rethinking the project of modernity (2005) e le successive edizioni russa (2008) e cinese (2010) introducono revisioni e aggiornamenti necessari a seguito delle grandi trasformazioni nei processi di sviluppo e di modernizzazione, nelle relazioni internazionali, nella vita degli individui e dei popoli che si sono verificate nel periodo relativamente breve che li separa dalla prima edizione del 1998. Il «passaggio di secolo» (e di millennio) non è stato, infatti, tale solo simbolicamente: ricorrenti crisi culminate nell’attuale crisi finanziaria globale e nella connessa recessione economica, guerre sanguinose e attentati del terrorismo internazionale, accentuazione delle diseguaglianze e del degrado ambientale; ma, anche, poderosa crescita economica e profonda trasformazione sociale e culturale dei grandi paesi in via di sviluppo, a cominciare dalla Cina, dall’India e dal Brasile, diffusione delle istituzioni democratiche e della cultura dei diritti umani, crescente consapevolezza di dovere affrontare insieme i problemi della agenda globale (Millennium Development Goals).
La principale aggiunta in Global Modernization è l’analisi del rapporto tra modernità e globalizzazione (cui l’edizione originale dedicava solo un breve paragrafo conclusivo) che è l’oggetto di un capitolo apposito, il quinto, in cui si declinano i vari significati del concetto di globalizzazione e interpretazioni di questo fenomeno distintivo dell’epoca presente; si discute criticamente l’approccio delle «modernità multiple», sostenendo che nel mondo contemporaneo si sviluppano percorsi differenti verso e attraverso la modernità (in virtù di un duplice ordine di fattori: lo specifico «codice genetico» dei diversi paesi e la loro posizione relativa nell’economia globale e nel sistema politico internazionale); si analizzano il rapporto tra religione e modernità e l’avvento della società post-secolare, la trasformazione dello stato (argomentando che gli stati nazionali continuano a essere agenti proattivi di modernizzazione e sviluppo, nonostante l’erosione della sovranità) e si pone l’accento sull’esigenza di una governance globale poliarchica, multilaterale e multilivello per gestire la tensione tra interdipendenza e frammentazione.
Ti sei anche preoccupato di indagare le modalità e le sfide del governo dei processi globali. In La democrazia globale affronti le contraddizioni più evidenti tra interdipendenza economica e frammentazione politica e culturale, dalle cui modalità di regolazione politica – questa la tua opinione – dipende il governo stesso del processo di globalizzazione. Secondo te, come dovrebbe funzionare questa regolazione, e ne intravedi delle possibilità?
La questione della governance globale con cui si chiude Global Modernization è l’oggetto del mio libro successivo, Democrazia globale, in cui discuto le questioni-chiave dell’integrazione e della regolazione dei rapporti sociali a livello mondiale, sviluppando alcune tesi strettamente connesse. La prima tesi afferma che l’epoca attuale è caratterizzata dalla contraddizione tra interdipendenza economico-tecnologica e frammentazione politica, interconnessione sociale ed eterogeneità culturale; la seconda che non esiste una forma univoca e inevitabile di globalizzazione, ma che la configurazione che essa può assumere e gli effetti positivi e negativi che può produrre dipendono dalle modalità di regolazione e di governo del processo; la terza che l’interazione dialettica di istituzioni e norme che si richiamano ai principi dello scambio, dell’autorità e della solidarietà produce una forma complessa di governance globale, multipolare e multilivello; la quarta che componente essenziale di questo tipo di governance è l’Unione Europea che può costituire un modello per unioni sovranazionali in altre regioni del mondo; la quinta che la democrazia globale costituisce l’orizzonte utopico verso cui indirizzare l’azione politica dei popoli e dei governi. Democrazia globale è, insieme a L’azione collettiva, il mio lavoro più chiaramente interdisciplinare, perché utilizza concetti e modelli teorici sia sociologici che politologici, chiarendo tuttavia, nel primo capitolo, che entrambe le prospettive devono essere cambiate, la prospettiva sociologica (focalizzando l’attenzione sul carattere contraddittorio della realtà sociale nel XXI secolo come, allo stesso tempo, sistema unico e mondo frammentato) e quella politologica (sostenendo la necessità di passare dallo studio delle relazioni internazionali a quello della politica globale). L’interconnessione del sistema mondiale richiede che entrambe le prospettive non considerino più lo stato nazionale come unica unità di analisi e cornice di riferimento, delle loro ricerche, pur non sottovalutandone l’importanza. Dopo aver discusso, nel primo capitolo, le principali dimensioni, cause, conseguenze e sviluppi potenziali della globalizzazione e formulato la mia interpretazione del fenomeno, nel secondo analizzo, in una prospettiva prevalentemente sociologica, il ruolo dei mercati, delle organizzazioni di governo e delle comunità come meccanismi istituzionali di integrazione e di regolazione del sistema mondiale alla luce dei concetti di scambio, autorità legittima e solidarietà. E nel terzo esamino, in una prospettiva prevalentemente politologica, le relazioni di potere e i modelli di governance liberal-democratico e di democrazia cosmopolitica e delineo il mio modello di governance globale democratica, valutandone il grado di coerenza con gli scenari di probabile evoluzione della politica mondiale e dedicando particolare attenzione alla natura e ai limiti dell’egemonia americana.
Con riferimento all’Europa, invece, in più occasioni tu hai ribadito che si tratta di una realtà storica frutto della modernità occidentale, la cui identità di fondo risiede nella costante tensione tra razionalità e individualismo, organizzazione sociale e libertà individuale. Nel libro pubblicato da Oxford University Press Transatlantic Divide (2007), e nella edizione italiana Occidente allo specchio (2011) che contiene anche la tua interpretazione della crisi finanziaria globale, hai poi specificato che tale realtà – concretizzata dall’Unione Europea – può essere considerata una delle due varianti fondamentali della modernità occidentale e dunque osservabile in prospettiva comparata con quella americana. Quali sono allora i suoi tratti più distintivi? E qual è il tuo giudizio sul futuro dell’Unione Europea?
La società europea e la società americana sono varianti della stessa civiltà occidentale moderna perché condividono i valori culturali di fondo (razionalismo, individualismo/soggettività, libertà individuale e solidarietà/identità collettiva). Questi valori, e gli atteggiamenti, le interpretazioni della realtà e i programmi culturali connessi, si combinano nella civiltà moderna con un insieme di nuove forme istituzionali, anche queste per lo più sperimentate prima in Europa e quindi diffuse in America e nel resto del mondo, dando vita alle istituzioni caratteristiche del mercato e dell’impresa capitalistica, dello stato nazionale e della democrazia poliarchica, dell’università e della comunità di ricerca. Allo stesso tempo, tuttavia la società europea e quella americana sono due specifici modelli di società, con analogie e differenze che si accentuano o si attenuano nel tempo e variano nello spazio, a seconda delle regioni considerate (Europa settentrionale e meridionale, stati costieri e interni negli USA). Le somiglianze nascono non solo dalla condivisione dei valori e delle istituzioni (sono entrambe società post-industriali, complesse economie di mercato e democrazie rappresentative), ma anche dall’intensa reciproca fertilizzazione inter-culturale e dall’egemonia politica e culturale degli Stati Uniti favorita dal ruolo dominante della lingua inglese (la europeizzazione originaria dell’America ha retro-agito sull’Europa attraverso l’egemonia culturale esercitata dagli Stati Uniti in molti settori). Le economie dell’Unione Europea e degli Stati Uniti si integrano sempre più in termini finanziari, produttivi e commerciali (nonostante il neo-protezionismo di Donald Trump), le loro popolazioni diventano sempre più simili negli stili di vita e nei comportamenti di consumo, ma esse continuano a essere diverse, e a divenire ancor più diverse per alcuni aspetti, come le credenze e gli atteggiamenti verso la religione, la propensione al rischio e all’innovazione, il ruolo dello stato nel governo dei problemi sociali, il nazionalismo e l’impiego della forza nella giustizia criminale e nelle relazioni internazionali.
Le cause delle diversità tra le due unioni derivano, in primo luogo, dal fatto che gli elementi valoriali e istituzionali di fondo che hanno definito l’identità europea e americana non costituiscono un insieme coerente, ma sono entrati spesso in conflitto, come il mercato e la democrazia, le credenze religiose e il metodo della scienza, il nazionalismo e la pace. Ognuna delle due varianti della modernità occidentale ha, di volta in volta, accentuato un aspetto rispetto all’altro, o ha cercato precari equilibri tra elementi contraddittori (così, ad esempio, gli americani tendono ad associare la libertà con l’autonomia dell’individuo, gli europei con la solidarietà e la coesione sociale; negli Stati Uniti, democrazia e religione sono strettamente connesse, nella maggior parte dei paesi europei non lo sono). Le differenze sono riconducibili anche alla diversa eredità storica e alle diverse forme di path dependency: la società americana non è stata afflitta dalle guerre di religione e la democrazia americana non è stata mai seriamente minacciata da movimenti totalitari; nonostante Trump, il patriottismo americano è di natura diversa da molti nazionalismi europei; la religiosità degli americani è diversa da quella degli europei; negli Stati Uniti, democrazia e religione sono strettamente connesse, nella maggior parte dei paesi europei non lo sono. Le diversità derivano, infine, dal diverso ruolo nella politica mondiale e nell’economia globale e nelle diverse exit strategies dalla crisi.
Tu scrivi che lo stato-nazione, sintesi storica tra razionalità politica e sentimento di legame primordiale, è un bene da valorizzare e da perseguire, ma solo quando è compatibile con il progetto sovranazionale e quando è capace di rafforzare l’identità politico-civile degli europei. Più che l’ethnos, tu sottolinei, sono l’ethos e l’epos a dover informare i contenuti e i programmi educativi e politici delle istituzioni europee. Eppure, oggi accade il contrario. In La società degli europei, scritto insieme ad Alessandro Cavalli, ma soprattutto in Mal di nazione. Contro la deriva populista, tu descrivi la crescita dei partiti «nazional-populisti» europei. In particolare, ti soffermi sul collegamento, non scontato, tra «nazionalismo» e «populismo», il cui esito è un’ideologia che organizza in modo strumentale il risentimento popolare contro le istituzioni e l’establishment, raccolta intorno al fascino dell’antipolitica, ma soprattutto dal carattere ostile verso l’Unione Europea dei nazional-populismi. Quali sono, secondo te, le cause della fusione delle due ideologie? E perché l’ostilità verso l’Europa ne costituisce il tratto più caratterizzante?
Innanzitutto, desidero ribadire che, nonostante le difficoltà attuali, considero l’integrazione europea una storia di successo e l’Unione la più importante innovazione politico-istituzionale della seconda metà del XX secolo e il più grande progetto del XXI secolo per i popoli europei. Come sostengo ne La società europea, la questione del nazionalismo è al centro delle due principali contraddizioni della odierna politica dell’Unione Europea. La prima consiste nel progetto di costruire una unione sopranazionale usando gli stati nazionali come elementi costitutivi, ma liberandosi dei connessi nazionalismi. La seconda è la contraddizione tra il trasferimento di porzioni crescenti di sovranità nazionale dal livello statale a quello sopranazionale (dapprima la gestione comune di importanti settori economici, dalla siderurgia all’agricoltura, e le misure volte a creare lo spazio unico europeo per la libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali, poi la moneta unica, nel prossimo futuro, auspicabilmente, la politica fiscale e la politica estera) e il tuttora inadeguato trasferimento di impegno e lealtà dai cittadini dei diversi paesi membri alle istituzioni di una comunità sopranazionale in fieri. Le due contraddizioni sono strettamente correlate. Le decisioni politiche prese a livello dell’Unione distribuiscono in modo diseguale costi e benefici, non solo tra i diversi gruppi sociali, ma anche tra i diversi paesi membri, alimentando così una rinazionalizzazione del conflitto, che richiede di essere controllata e depotenziata grazie a forti sentimenti di appartenenza e di adesione a un progetto comune.
Come sostengo in Mal di nazione e nei saggi pubblicati da Ispi (Beyond Trump: populism on the rise e When populism meets nationalism), il nucleo dell’ideologia populista è l’anti-pluralismo, l’anti-costituzionalismo e la contrapposizione tra il popolo, indistintamente inteso e buono per definizione, e le élite inefficienti, corrotte o comunque preoccupate solo del loro interesse. Grazie alla plasticità di questo nucleo sottile ma forte, il populismo si combina facilmente con ideologie più strutturate e meglio articolate, come in particolare il nazionalismo (priorità assoluta dell’interesse nazionale, rigidi criteri di inclusione, legame con il territorio) che le forniscono obiettivi e rivendicazioni. L’anti-europeismo è il punto di coagulo del nazionalismo e del populismo. L’ideologia nazional-populista fa un uso strumentale del risentimento popolare contro le istituzioni e l’establishment, del fascino esercitato dall’antipolitica (che diventa lo strumento principale di coinvolgimento del popolo e quindi di acquisizione del consenso) per diffondere il proprio messaggio nazionalistico e anti-europeo. Le istituzioni comunitarie, la burocrazia del «superstato» europeo, l’euro, la tecnocrazia di Francoforte divengono il principale capro espiatorio e bersaglio critico. Ma anche le élite nazionali sono criticate, in quanto incapaci di opporsi o addirittura complici della tecnocrazia sopranazionale europea e devono essere sostituite al potere dai veri difensori dell’interesse nazionale. Sostengo che una risoluta ripresa del percorso di integrazione politica, riforma della governance europea e potenziamento della democrazia, sono l’unico antidoto al risorgere del nazionalismo che ha causato tragedie nel passato e non costituisce una risposta efficace alle sfide del presente.
Vorrei, a conclusione di questa intervista, porti ancora due ultime domande: mi piacerebbe sapere dei tuoi progetti futuri e chiederti una valutazione sullo stato della sociologia e sulle prospettive per i giovani.
Sto lavorando all’edizione inglese di La società europea (con Alessandro Cavalli) e continuerò a studiare vari aspetti del processo di integrazione dell’UE (come faccio nel saggio su «Che cosa significa essere europei» del volume collettaneo di carattere divulgativo sullo stato dell’Unione Europea, insieme a Maurizio Ferrera, Pier Gaetano Marchetti, Antonio Padoa Schioppa). Continuerò anche il filone di studi sulla modernizzazione e lo sviluppo politico (a breve con il keynote speech che terrò al Third World Modernization Forum di Beijing il prossimo maggio). Nel futuro prossimo, scriverò uno dei due saggi introduttivi (l’altro sarà di Carlo Lacaita) all’antologia critica degli scritti di Carlo Cattaneo in tema di sviluppo economico e civile. A più lungo termine, ho in progetto di sviluppare l’analisi della trasformazione della società italiana, aggiornando lo studio pubblicato con Chiesi nel 2002 e di rivisitare criticamente il contributo teorico degli esponenti della grande scuola elitista italiana (Mosca, Pareto, Michels, Ferrero), affinché abbiano il giusto riconoscimento nella comunità internazionale degli scienziati sociali e politici.
Inoltre, come presidente della Fondazione AEM-Gruppo a2a, sto realizzando una serie di progetti di tutela e valorizzazione del patrimonio industriale, educazione ambientale per gli studenti della scuola secondaria, formazione specialistica per gli studenti universitari, ricerca in tema di sostenibilità nell’ambito del programma ONU sui «Sustainable Development Goals» (ai quali è dedicata anche la serie di conferenze interdisciplinari che ho curato all’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere).
Circa lo stato della sociologia, penso che l’entità delle trasformazioni sociali in atto e il conseguente clima di incertezza e insicurezza della vita contemporanea richiedano, ancor più che in altre fasi storiche, la capacità di sviluppare la buona ricerca sociologica, intendo dire una sociologia metodologicamente rigorosa, teoricamente solida e innovativa, che sappia valorizzare le grandi interpretazioni del passato e, nel contempo, delineare le tendenze in corso e immaginare gli scenari futuri. Se così intesa, la sociologia, al pari delle discipline sociali affini e complementari, dalla scienza politica all’economia, dalla psicologia all’antropologia, possono rappresentare un’avventura intellettuale affascinante, un terreno promettente, una prospettiva di agire dotato di senso per i giovani.
La ricerca nelle scienze sociali, come e ancor più nelle altre scienze, soffre di risorse economiche inadeguate, diffidenza di molti governi, ignoranza diffusa, bulimia informativa e pretesa di molti navigatori del web di essere esperti di tutto. Proprio in ragione di queste difficoltà, penso ci sia più che mai bisogno di giovani motivati, curiosi e intellettualmente ambiziosi, formati con studi approfonditi, dotati di intelligenza critica, aperti alla collaborazione interdisciplinare e capaci di dare risposte scientificamente fondate alle grandi questioni dell’agenda politica globale, dalla gestione non violenta dei conflitti al contrasto di disuguaglianze e povertà, dalla difesa dell’ambiente al rispetto per le diverse culture. Non sono pessimista circa il futuro della scienza in generale e di quella sociale in particolare e continuo a considerare, weberianamente, il lavoro intellettuale come una vocazione cui val la pena di dedicare la propria vita.