Alessandro Cavalli è nato a Milano nel 1939. Ha studiato Economia e Commercio all’Università L. Bocconi di Milano, dove si è laureato nel 1963 con una tesi in Storia Economica; ha studiato Sociologia alla Yale University e alla University of California a Berkeley come Harkness Fellow del Commonwealth Fund (1965-1967). Professore di sociologia all’Università di Pavia, dove ha insegnato dal 1967 al 2008, ha tenuto corsi anche nelle Università di Siena e di Bolzano. è stato membro del Comitato per le Scienze Economiche, Statistiche e Sociologiche del CNR (1972-1975), membro dell’Executive Committee della International Sociological Association (1982-1986), Max Weber Gastprofessor all’Università di Heidelberg (1989), L. Leclerq Professor all’Université Catholique de Louvain-la-Neuve (1994), Fellow del Collegium Budapest, Institute for Advanced Studies (1995). Membro del Comitato Direttivo dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani (1984-1998), Direttore della Rassegna Italiana di Sociologia (1978-80), Direttore de il Mulino (1994-2002), Direttore responsabile di Mundus, Rivista di Didattica della Storia. Già Presidente dell’Associazione Il Mulino (2003-2009), già Presidente del Consiglio Scientifico dell’Istituto Iard, già vice-Presidente della Associazione Italiana di Sociologia, è attualmente membro dell’Academia Europaea, membro nazionale non residente dell’Accademia delle Scienze di Torino, membro corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, fondatore del Cirsis (Centro Studi e Ricerche sui Sistemi di Istruzione Superiore) dell’Università di Pavia. Ha fatto parte (2002-2004) della Commissione ministeriale per la revisione dei programmi della scuola secondaria e, fino al 2008, del Consiglio Direttivo della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo. Nel 2010 gli è stato conferito il premio «Antonio Feltrinelli» dall’Accademia Nazionale dei Lincei.
Alessandro Cavalli ha contribuito alla diffusione in Italia del pensiero di alcuni classici del pensiero sociologico, tra cui Max Weber, Georg Simmel, Werner Sombart, Norbert Elias e più recentemente M. Rainer Lepsius, curando le traduzioni italiane e le presentazioni per le Edizioni Comunità e per il Mulino.
Tra i suoi temi di ricerca empirica vanno almeno annoverati: la condizione giovanile, la socializzazione, il sistema formativo e di istruzione, dalla scuola elementare fino al sistema accademico, gli insegnanti e le loro auto-percezioni professionali, il rapporto scuola/università/mondo del lavoro, la memoria storica e l’insegnamento della storia e dell’educazione civica ai giovani, l’europeismo, gli squilibri e i dualismi territoriali.
È autore di più di 260 pubblicazioni in italiano, francese, inglese e tedesco. Tra quelle in italiano, ricordiamo almeno: Le origini del capitalismo (a cura di, 1973), Il Tempo dei Giovani (a cura di, 1985), Momenti di Storia del Pensiero Sociologico (2011, Ledizioni), i rapporti Iard sulla condizione giovanile in Italia (il Mulino, 1984, 1988, 1993, 1997, 2002, 2007) e quelli sulle condizioni di vita e di lavoro degli insegnanti (il Mulino, 1992 e 2000), le voci Generazioni, Giovani, Istituzioni, Memoria, Sociologia, Tradizione in Enciclopedia delle Scienze Sociali, nonché la stesura, con A. Bagnasco e M. Barbagli, del Manuale di Sociologia pubblicato dal Mulino nel 1997, di cui vi sono state varie edizioni e ristampe fino ad oggi.
Troppo spesso, a mio avviso, si pubblicano interviste nelle quali rimane inespresso il tipo di rapporto che intercorre, o è intercorso, tra intervistato e intervistatore. Il lettore, sospettando una reciproca estraneità tra gli interlocutori, giustamente si domanda se si siano mai incontrati prima dell’occasione offerta dall’intervista.
Io conobbi per la prima volta Alessandro Cavalli quando ancora ero studentessa all’Università di Pavia e avevo aggiunto l’esame di Sociologia generale al mio curriculum di studi filosofico in vista della tesi sul problema dell’ordine sociale in Z. Bauman. Rimasi subito colpita dalla chiarezza con cui Alessandro parlava a noi giovani del mondo, proprio mentre ne tratteggiava la complessità. Nel corso degli anni, quando Alessandro ha seguito la mia tesi di dottorato e abbiamo poi lavorato insieme a un progetto Prin, sul ruolo dell’eccellenza accademica in vari paesi europei nell’ambito del Cirsis, ho avuto vari saggi della sua abilità didattica nell’insegnare a un giovane a fare ricerca. Ricordo ancora bene, nonostante siano passati oltre dieci anni, quando mi disse che è cruciale per un giovane scienziato (sociale ma non solo) darsi grandi obiettivi conoscitivi, porsi mete intellettuali ambiziose, sempre un po’ oltre le proprie capacità attuali, per sfidarsi e provare costantemente a superarsi.
Ad ogni nostro incontro, ieri come oggi, mi stupisco della sua curiosità; ammiro la costante attenzione alla profondità storica, e cerco di apprendere, per quanto posso, quella peculiare onestà intellettuale che deriva dalla consapevolezza dei limiti della conoscenza sociologica. Alessandro ha dunque rivestito un ruolo molto importante nella mia formazione di sociologa, ma io conosco poco la sua, perciò questa mi sembra una occasione imperdibile per chiedergli: vi sono state esperienze particolarmente significative che hanno segnato il tuo percorso di formazione?
Adesso che sono diventato anziano, posso dire qualcosa che probabilmente trenta o quaranta anni fa non avrei osato né dire né pensare. Oggi riconosco che la famiglia ha avuto un impatto importante nella mia formazione, poiché in essa s’intrecciavano tradizioni diverse. Un cattolicesimo critico dalla parte di mia madre. Si andava a messa la domenica, ma non in parrocchia, bensì scegliendo la chiesa, a seconda del predicatore. La Prima Comunione l’ho fatta a un’età più tardi del solito, quando, secondo mia madre, potevo capirne il significato e il catechismo non l’ho seguito nella parrocchia di quartiere, ma in un’altra chiesa dove c’era fama di educatori non bigotti. Mio padre, che allora era impiegato di banca, si era rifiutato di fare domanda di iscrizione al partito fascista, dato che l’iscrizione era obbligatoria. Alla fine della guerra, si iscrisse al Partito d’Azione. Uno dei miei zii, quello che ho sempre più apprezzato, era mazziniano convinto. Insomma, una famiglia dove convivevano dialetticamente, dialogando, idee diverse, dove però non c’era posto per contrapposizioni settarie.
Di un’altra cosa sono molto riconoscente a mio padre. Quando avevo più o meno 14-15 anni, mi ha detto pressappoco così: «nella vita potrai fare quello che vuoi, però prima devi assolutamente imparare le lingue e, siccome il tedesco è un po’ più difficile, i tre mesi di vacanze quest’estate e l’estate prossima li farai in casa di un professore austriaco che conosco e che ti insegnerà la lingua». Da allora, diciamo che ho avuto un accesso privilegiato alla cultura europea di lingua tedesca. Poi ci ho preso gusto e ho imparato abbastanza bene anche inglese e francese. Le lingue sono delle finestre aperte verso altre culture. Non si può fare il sociologo, ma anche tante altre professioni, senza leggere, parlare e scrivere in almeno altre due o tre lingue oltre la propria.
C’è infine un’altra «esperienza», questa volta dolorosa, che devo alla mia famiglia. Nel periodo tra la fine del liceo e l’università, mia sorella, di tre anni più anziana di me, ha incominciato a mostrare sintomi di una grave malattia mentale. Fino alla sua morte, ho dovuto confrontarmi con la presenza costante della malattia mentale. Credo che per me sia stata una (tremenda) occasione di crescita su tanti piani.
Al di là della famiglia, ci sono state altre esperienze che hanno influenzato la tua formazione?
Certamente l’impegno politico in un movimento assai poco «tradizionale». Ero diventato militante del Movimento Federalista Europeo che, dalla metà degli anni ’60 in poi, sotto la spinta di personalità di grande forza morale e intellettuale, come Altiero Spinelli e Mario Albertini, era diventato un movimento extra-parlamentare ante litteram. Non credevamo nei partiti nazionali, perché pensavamo che fosse prioritario il superamento dello stato nazionale e la creazione di uno stato federale europeo e di un nuovo ordine mondiale. Per giovani tra i quindici e i vent’anni, l’incontro con idee e persone di grande levatura lascia un segno indelebile. Quando penso ai giovani d’oggi e ai modelli ai quali sono esposti, non posso non riconoscere di essere stato enormemente «fortunato» per aver incontrato idee e persone capaci di dare un senso all’esistenza. Non che ritenessimo irrilevante la distinzione tra destra e sinistra. In linea di massima, eravamo orientati più a sinistra che a destra, ma eravamo convinti che non si potesse realizzare una vera emancipazione nei confini ristretti dello stato nazionale che aveva prodotto i mostri del fascismo e del nazismo.
Questa visione aveva un’implicazione che, poi, mi ha accompagnato nello sviluppo del mio pensiero e che ho ritrovato nella storia del pensiero sociologico. Le istituzioni umane non sono eterne, nascono, si affermano, si trasformano e poi sono destinate a decadere, più o meno drammaticamente e ad essere sostituite da nuove istituzioni. Il motore di questa dinamica sono sempre lotte e conflitti, più o meno pacifici o violenti, più o meno incanalati da regole. In poche parole, i fatti e i fenomeni sociali si possono cogliere soltanto nella loro storicità. Questo è stato il grande insegnamento che ho ricevuto dall’esperienza politica nel federalismo europeo.
A parte l’impegno federalista e l’interesse costante per la politica, ho sempre cercato di mantenere una certa «distanza di sicurezza» dalle lotte per il potere. Ogni tanto mi è venuta la tentazione di impegnarmi in modo più diretto, ma credo di non avere tutte le qualità necessarie per fare politica.
Come e quando hai deciso di intraprendere una professione intellettuale?
Mi sono iscritto a Economia e Commercio alla Bocconi, un po’ in opposizione a mio padre, che voleva che io realizzassi le aspirazioni che lui non aveva potuto seguire (era orfano di padre, aveva il diploma di ragioniere, aveva fatto giovanissimo la I Guerra Mondiale e si era poi laureato alla Bocconi come «studente lavoratore» solo a ventisette anni), voleva cioè che facessi Scienze Naturali. Gli interessi politici mi portavano invece verso le scienze sociali. Abbastanza presto, mi resi conto che le materie «aziendali» non mi davano stimoli sufficienti. Incominciai a seguire con maggiore interesse i corsi di Politica Economica, di Scienza delle Finanze, di Statistica, di Geografia Economica e di Storia Economica. Nell’Istituto di Statistica alla Bocconi si tenevano seminari volontari, extra-curricolari ed è lì che incontrai la Sociologia attraverso Angelo Pagani. Fu una vera e propria boccata d’aria fresca. Decisi di fare una tesi su tematiche sociologiche, anche se, ufficialmente, la materia non era ancora insegnata. Armando Sapori, allora Rettore e ordinario di Storia Economica, mi suggerì di studiare il metodo storico-sociologico in Weber, Sombart e Lucien Fèvre. Per la strada, ho perso contatto con Fèvre e la scuola degli Annales, Weber e Sombart bastavano e richiedevano tutta la mia attenzione. E così, alla fine, seguito da Angelo Pagani per il versante sociologico e da Luciano Cafagna per il versante storico, ho lavorato a una tesi di laurea che ha segnato la mia scelta definitiva per il lavoro intellettuale. Non mi pento affatto di essere arrivato alla sociologia attraverso l’Economia e la Storia economica. Altri della mia generazione sono arrivati dalla Filosofia, altri dal Diritto, o dalla Scienza Politica. Le generazioni successive sono arrivate alla Sociologia dalla Sociologia. Non mi sembra che questo abbia rappresentato un «passo avanti».
L’approdo alla Sociologia, per quanto da una strada laterale, è dunque avvenuto attraverso lo studio approfondito di alcuni autori classici e tramite la traduzione delle loro opere dalla lingua originale. Prima di approfondire il tuo rapporto con i classici tedeschi, vorrei però chiederti di raccontare qualcosa della tua esperienza di studio e ricerca in due prestigiose università statunitensi. A quegli anni risalgono infatti lavori forse meno noti al grande pubblico, ma certamente preziosi per la comunità scientifica, tra cui per esempio la presentazione per l’edizione italiana al libro di Louis Wirth, Il Ghetto (Edizioni Comunità, 1968).
Appena laureato, dopo un breve parentesi con una borsa di studio all’Istituto di Storia economica (mi occupavo della storia dell’industria della carta in Lombardia), ho lavorato con Angelo Pagani, che allora era impegnato in una ricerca sui giudici, presso l’Ilses (Istituto Lombardo di Studi Economici e Sociali) e poi, grande fortuna, ho avuto una ricca borsa di studio per studiare due anni negli Stati Uniti. Un anno l’ho passato alla Yale University seguendo corsi di Sociologia e anche di Scienza Politica (insegnavano allora personaggi come Harold Lasswell, Robert Dahl, Karl Deutsch, Wendell Bell, Burton Clark e Ted Mills). Avevo scelto Yale perché speravo che Holligshead fosse sempre interessato agli studi sui giovani, che già da allora mi incuriosivano, ma trovai invece altri stimoli. L’anno successivo, passai in California a Berkeley, dove ho potuto seguire i corsi di Reinhard Bendix, Bill Kornhauser, Neil Smelser, Philip Selznick e Herbert Blumer. Ho potuto fruire del meglio che allora potessero offrire la Sociologia e la Scienza Politica americane con una forte impronta della tradizione europea. Berkeley era un luogo di straordinaria effervescenza intellettuale, ma anche politica, il centro dei movimenti degli studenti, contro la guerra in Vietnam e per i diritti civili dei neri. Ci siamo trovati contemporaneamente a Berkeley con Alberto Martinelli e Massimo Paci nel 1966, non potevamo perdere l’occasione di osservare quello che succedeva intorno. Da lì sono nati la ricerca sugli attivisti del movimento studentesco e gli studi che poi io e Alberto, insieme o separatamente, abbiamo pubblicato una volta tornati in Italia. Venivo dall’Italia, avevo fatto un’immersione nella cultura tedesca dell’inizio secolo, l’esperienza americana mi aveva fatto diventare definitivamente un sociologo.
Veniamo ora ai tuoi «padri sociologici». In un tuo testo pubblicato sugli Annali di Sociologia nel 1992, si legge: «Le vicende della mia biografia intellettuale, non appartenendo ad una scuola e non avendo avuto “padri sociologi naturali”, mi hanno condotto ad adottare Simmel e Weber (e forse qualche altro) come padri, come guide alle quali porre delle domande e alle quali chiedere consiglio». Ritieni che questo sia un percorso atipico?
A parte la lettura e la traduzione di opere dalla lingua originale, assai infrequente oggi per testi scritti in lingue diverse dall’inglese, non credo che il mio caso possa essere ritenuto singolare e atipico: nelle scienze sociali, molto più che in altri campi del sapere, il rapporto con i classici tende ad assumere le caratteristiche della «paternità intellettuale adottiva». Il rapporto con gli autori classici è inevitabilmente intriso di componenti affettive e assai spesso cela l’operare di meccanismi di identificazione: di conseguenza, la metafora della paternità intellettuale non mi sembra in questo caso fuori luogo. Certamente, sorgono vari problemi, nei casi di poli-paternità, quando i «padri» danno risposte diverse, discordanti e in conflitto tra loro (come spesso accade nella nostra disciplina). Allora, si impone la necessità di scegliere, di stabilire una distanza critica, di garantire una propria autonomia di giudizio. Anche qui, la metafora della parentela intellettuale serve per illuminare la natura dei problemi: di fronte al conflitto dei genitori, i figli adottano talvolta strategie di conciliazione, talvolta si alleano con un genitore contro l’altro, altre volte ancora si allontanano per sfuggire alla necessità di scegliere e cercano altrove altri punti di orientamento.
In ogni caso, come ho già scritto nella prefazione a una raccolta di miei saggi dedicati ai classici (tra cui, Weber, Simmel, Sombart, Elias) pubblicata nel 2011, sono contento di avere dedicato una buona parte del tempo di lavoro lungo l’arco di mezzo secolo allo studio dei classici. E mi ritengo fortunato ad avere avuto l’occasione di conoscere personalmente Parsons, Coleman, Merton e, in particolare, Elias.
Nel 1986 hai intervistato Norbert Elias per la RAI…
Sì, ho avuto il piacere di incontrarlo in diverse occasioni, tra il 1980 e il 1986. Per esempio, a un seminario organizzato dallo Zif (Zentrum für Interdisziplinäre Forschung) di Bielefeld, al quale era presente anche Pierre Bourdieu. Ogni volta che ci incontravamo, mi raccontava dei suoi progetti di studio e di ricerca, e aggiungeva, con vivo rammarico, di essere consapevole di non poterli realizzare tutti… La sua curiosità era insaziabile, la sua mente, lucidissima.
Ritieni che lo studio approfondito dei classici sia ancora imprescindibile per la formazione di un giovane studioso di scienze sociali?
Certamente. Può sembrare banale ripeterlo, ma salire «sulle spalle dei giganti» serve per guardare più lontano e per orientarsi nel presente. Proprio l’anno scorso ho scritto un saggio dedicato a una rivisitazione del pensiero di Simmel, alla luce della crisi dell’euro (2013), mostrando tra l’altro come sia vero che un classico è un autore o un’opera che non ha ancora finito di dire ciò che può dire. Per questa ragione, ma non solo, ritengo un grave difetto di molti sociologi contemporanei avere abbandonato lo studio della storia, anche della loro disciplina.
Per la seconda volta, emerge, nel corso di questa conversazione, la storia. Permettimi di affrontare questo tema ricorrente nel tuo percorso professionale, cominciando da una questione metodologica. In un tuo saggio pubblicato all’inizio degli anni Ottanta, Il rapporto tra conoscenza storica e sociologia in Max Weber (1980), sostenevi che il rapporto tra conoscenza storica e conoscenza sociologica rappresenta uno dei punti chiave del programma scientifico di Weber, nonché uno dei nessi che non può essere trascurato da chi scelga di adottare una prospettiva weberiana. Sei, dunque, ancora convinto che tra conoscenza storica e conoscenza sociologica debba instaurarsi una reciproca complementarietà?
Sì. Nell’impostazione weberiana sussiste una sostanziale fluidità di passaggi tra storia e sociologia. Non andrebbe, infatti, dimenticato che la costruzione di un impianto concettuale di tipo sociologico diventa in Weber un modo per la produzione sistematica di ipotesi di ricerca storica e, quindi, lo strumento principale per trasformare il discorso storico da narrativo-descrittivo in problematico-esplicativo. Mi piace ricordare che qualche anno fa ho riaffermato la mia adesione a questa posizione metodologica, presentando a Pavia, in una conferenza in memoria di Mario Stoppino, un programma di studio/ricerca sugli squilibri territoriali che non esiterei a definire di «sociologia storica». Si tratta del programma di studio a cui vorrei dedicare i prossimi anni. I due problemi di partenza sono la questione del Mezzogiorno in Italia e la questione delle province orientali in Germania. Il tema è, manco a dirlo, weberiano, non solo perché intendo impostarlo in un’ottica storico-comparativa, ma perché il mio interesse per le province ad Est dell’Elba è nato dalla lettura, tanti anni fa, delle indagini di Weber sulle condizioni dei contadini in quelle regioni, dove il mondo slavo e il mondo germanico si incontrano e si scontrano. Finora, ho la sensazione di avere solo piste che si inoltrano in un territorio sconosciuto, ma il taglio metodologico sarà immancabilmente storico-comparativo. Un’indagine priva di profondità storica, infatti, non è in grado di spiegarci come si è giunti al punto in cui siamo. Bisogna partire da lontano, la questione meridionale è antica almeno quanto lo stato italiano e la giustapposizione tra la Germania renana e la Germania prussiana non è certo più recente. Procederò, quindi, per affermazioni e ipotesi che dovranno essere tutte verificate.
Tra i tuoi interessi recenti, c’è proprio l’insegnamento della storia contemporanea ai giovani, come provano il tuo impegno editoriale in Mundus, Rivista di Didattica della Storia, ma anche la tua partecipazione ad alcune ricerche comparative a livello europeo dedicate a questo tema.
La storia è sempre stata per me una fondamentale fonte di conoscenza e un prezioso strumento pedagogico, di cui è cruciale sorvegliare la qualità didattica e i contenuti nella trasmissione alle nuove generazioni. Questa convinzione è più antica di quanto non traspaia dalle mie attività recenti e trova riscontro nel mio interesse per il tema della memoria storica e per quello più generale del tempo. In termini teorici, ho analizzato la categoria del tempo in Simmel (1993), rintracciando nell’opera di questo autore un vero e proprio programma di ricerca dedicato alle determinazioni temporali per la vita delle forme sociali – programma che, tuttavia, non realizzò mai; in termini empirici, già all’inizio degli anni Ottanta, ho analizzato le dimensioni temporali che caratterizzano i vissuti dei giovani, la loro varietà, continuità o discontinuità, le forme della progettualità e il rapporto tra tempo e identità, i motivi e gli effetti di presentificazione, le moratorie psico-sociali, il ruolo del tempo nelle «scelte cruciali». Questi sono rimasti interessi costanti delle indagini che, insieme ad una stessa equipe di amici e colleghi, ho condotto presso l’istituto Iard, a partire dalla ricerca Il tempo dei giovani (Cavalli, a cura di, 1985). Sebbene oggi abbia ormai pressoché esaurito l’interesse per questi temi, me ne sono occupato per oltre trent’anni, quasi per dovere civico. I rapporti Iard, non solo hanno monitorato in senso longitudinale vari aspetti della condizione giovanile in Italia (tra cui il rapporto dei giovani con la famiglia, il lavoro, la vita di gruppo, la politica…), ma hanno anche offerto preziosi elementi informativi sul corpo insegnante, sulle condizioni di vita e di lavoro nelle scuole di vario ordine e grado. è forse anche il caso di aggiungere che proprio agli insegnanti si rivolge, oltre che agli storici di professione, la rivista Mundus. Essa si propone come luogo di discussione di problemi relativi alla didattica della storia, ma vuole essere anche un repertorio di strumenti e di soluzioni concrete, validate dalla ricerca, per il lavoro del docente.
Oltre che ai principali attori del sistema formativo, hai dedicato una parte consistente delle tue ricerche di sociologia dell’educazione all’analisi della morfologia e della fisiologia dei sistemi d’istruzione, dalla scuola elementare fino all’università. Mi sembra di poter dire che le indagini comparative che hai diretto, o a cui hai partecipato, fossero volte, oltre che alla produzione e sistematizzazione di conoscenza scientifica, ad una riflessione critica e problematizzante sull’eventuale importazione, nel nostro sistema formativo, di assetti e/o «buone prassi» già sperimentati con successo in altri paesi. Se condividi questa affermazione, potresti illustrarla con qualche esempio?
Il mio interesse per la scuola è sempre stato orientato a ricavare indicazioni utili per le politiche scolastiche. Il ricercatore e il politico sono due ruoli distinti, ma che devono trovare il modo di dialogare, senza però invadere il terreno dell’altro. Gli intellettuali e i ricercatori hanno delle responsabilità nei confronti della politica, ma il loro compito non è quello di prendere delle decisioni. Siccome ho accumulato qualche competenza sulle cose di Germania, ho studiato alcuni aspetti del funzionamento del sistema educativo e formativo tedesco, soprattutto negli aspetti che lo differenziano maggiormente dal nostro. In Germania, col sistema «duale» è stata data molta importanza alla formazione professionale in diretto rapporto con le imprese, da noi c’è un ranking di prestigio tra licei, istituti tecnici e istituti professionali che svalorizza la «cultura del lavoro» e l’apprendistato riguarda un segmento limitatissimo della popolazione giovanile. Mi sembra che abbiamo qualcosa su cui riflettere e, forse, qualcosa da imparare.
Come da molti anni ormai si parla di crisi dell’università italiana, così pure da oltre mezzo secolo o più si discute di crisi della Sociologia, definita da Benedetto Croce «l’inferma scienza», come tu stesso ricordi in un argomentato intervento sullo stato della sociologia italiana (2010). Tra le ragioni di tale infermità, oltre alla cronica carenza di risorse e strutture per la ricerca (comune a tutte le discipline) e alla concorrenziale ostilità della cultura umanistica (eredità crociana anche questa), tu annoveri una intrinseca frammentazione valoriale. In proposito scrivi: «Alla crescita culturale e scientifica della sociologia italiana ha nociuto la sua segmentazione lungo linee, apparentemente connesse a opzioni ideali, che di fatto però coprivano (e coprono ancora) interessi di controllo delle opportunità nella competizione per la distribuzione di posti e risorse in base a criteri estranei al valore scientifico e intellettuale». Pensi che il nuovo sistema di abilitazione nazionale ideato dall’Anvur sia in grado di superare o almeno attenuare l’impatto di queste nocive, ma pur perduranti frammentazioni?
Non so dare una risposta netta: ci sono segnali positivi e negativi ad un tempo. L’Anvur si è mossa su un terreno, dove la cultura della valutazione era ancora assai fragile e talvolta ha proceduto per prove ed errori. La direzione, però, è quella giusta. L’ambiente accademico è pieno di persone e gruppi refrattari ad ogni forma di valutazione e questo riflette una società dove la meritocrazia non è considerata una virtù. Per quanto riguarda la Sociologia italiana, posso dire che mi auguro che l’articolazione per «componenti» sia giunta in prossimità del tramonto. Personalmente, ho cercato di gettare dei ponti piuttosto che lanciare degli anatemi.
Nel già ricordato intervento sullo stato della Sociologia, scrivi che è stata «più merce di importazione che di esportazione». Secondo te, sarebbe possibile (e, nel caso, desiderabile), iniziare o ricominciare a produrre una sociologia «made in Italy», cioè riconoscibile a livello internazionale per temi, metodi o altri aspetti tipici del fare sociologia «all’italiana»?
Se per «sociologia italiana» si intende una sociologia attenta ai temi e ai problemi del Paese, va bene, se invece si intende una sociologia che abbia un’inconfondibile impronta nazionale per metodi e approcci, spero proprio che non succeda. Io sono per una Sociologia che proceda con un approccio storico-comparativo (questo però non vuol dire «assenza di teoria»). In Italia, vi sono sociologi che hanno dato contributi rilevanti in questa direzione, ma non per questo hanno elaborato una «sociologia italiana». La sociologia economica italiana, per esempio, ha prodotto importanti ricerche dedicate alla Terza Italia e ai distretti industriali, che certamente sono ben note anche all’estero.
Per concludere, non posso astenermi dal chiederti di dare qualche consiglio ai «sommersi» della prima tornata di abilitazione nazionale Anvur, e ai «castigati» dall’ultimo esercizio Vqr, giovani e meno giovani. Per esempio, in quale direzione pensi andrebbero orientati in futuro i nuovi sforzi pubblicistici? Verso una maggiore specializzazione, verso la lingua inglese…
Questa domanda evoca anzitutto in me la contro-domanda di Max Weber: «credete di poter sopportare di vedervi passare avanti anno dopo anno una mediocrità via l’altra senza amareggiarvi e corrompervi l’animo? […]. Da parte mia, posso dire soltanto “se la vostra passione per la scienza è autentica, nessun incidente di percorso, ancorché dovuto alla malvagità degli uomini o alla inadeguatezza delle istituzioni, sarà in grado di scoraggiarvi”». Poi, scegliete temi rilevanti e approfonditeli con impegno, ma non limitatevi a coltivare il vostro orticello, guardate anche a tutto quello c’è intorno (anche al di fuori della Sociologia). Una volta fatte delle buone ricerche, cercate di pubblicarle su riviste prestigiose che utilizzino criteri rigorosi di selezione. è meglio se si tratta di riviste internazionali, ma non tutte le riviste in inglese sono riviste prestigiose. Ve ne sono anche in Italia nella cosiddetta «fascia A» accreditata dall’Anvur, dove però (e lo dice uno che ha fatto parte del «gruppo di lavoro» consultivo sulla classificazione delle riviste) l’attribuzione di «eccellenza» è stata fin troppo generosa.