Intervista
Karl-Siegbert Rehberg è uno dei più noti sociologi tedeschi. Scrittore prolifico ed eclettico, gode di solida reputazione nel mondo di lingua tedesca e di un’ampia fama internazionale.
È nato ad Aquisgrana (Renania-Settentrionale-Vestfalia), il 2 aprile 1943. Il suo percorso accademico è iniziato con gli studi in sociologia e scienze politiche presso l’Università di Colonia e di Aachen ed è proseguito con la tesi di dottorato, sotto la guida di Arnold Gehlen, dedicata agli «Approcci a una sociologia prospettivistica delle istituzioni» (Ansätze zu einer perspektivischen Soziologie der Institutionen) e discussa nel 1973 all’Università di Aachen (Rheinisch-Westfälischen Technische Hochschule Aachen, RWTH).
Già nel 1973 è divenuto assistente presso il medesimo ateneo e l’anno seguente è stato ivi nominato ricercatore (Akademischer Oberrat). Dal 1985 è stato accolto nel corpo docente dell’Università della Renania Vestfalia di Aquisgrana. Professore incaricato presso l’Universität Göttingen (1989/90), Visiting professor alla Rijksuniversiteit Leiden in Olanda (1991/92). Privatdozent nel 1992 e, dal medesimo anno, ordinario per la cattedra di Sociologia, di nuova istituzione presso la Technische Universität Dresden (TUD). Rehberg ha ricoperto importanti ruoli istituzionali: dal 1994 al 1997 è stato preside della Facoltà di filosofia della TU Dresden e, nel periodo 2003-2007, ha presieduto la Deutsche Gesellschaft für Soziologie (Associazione tedesca di sociologia). Dal 2015, è infine Senior Professor presso la TU Dresden, dove svolge attività di ricerca e insegna teorie sociologiche, storia del pensiero sociologico, sociologia della cultura e dell’arte.
Durante la sua carriera accademica, Karl-Siegbert Rehberg ha ottenuto numerosi premi e onorificenze: Friedrich?Wilhelm?Preis dalla RWTH Aachen (1992); premio scientifico della Aby-Warburg-Stiftung di Amburgo (2011); «Chevalier dans l’Ordre des Palmes Académiques» (2011); socio onorario della sezione «Sociologia della cultura» della DGS – Deutsche Gesellschaft für Soziologie (2013).
Nel 2003, gli è stata dedicata la Festschrift, Kunst, Macht und Institution. Studien zur philosophischen Anthropologie, soziologischen Theorie und Kultursoziologie der Moderne, a cura di Joachim Fischer e Hans Joas (Frankfurt a.M. / New York, Campus).
Fin dall’impegno giovanile nel partito socialdemocratico (SPD), Rehberg ha coniugato una proficua attività scientifica a livello nazionale e internazionale con l’impegno politico e civile.
Nella vastissima produzione scientifica di Karl-Siegbert Rehberg si possono distinguere almeno cinque grandi filoni di riflessione teorica e di ricerca empirica.
- Saggi sulla storia del pensiero sociologico e sui contributi teorici sia dei padri fondatori (tra cui Marx, Weber, Simmel, Sombart, Mead) sia dei sociologi del Novecento, tra cui si annoverano Gehlen, Elias, Scheler, Plessner, Freyer, Schelsky. In questo campo, l’attenzione di Rehberg si è concentrata soprattutto sul pensiero sociologico e sull’antropologia culturale di Arnold Gehlen (1904-1976), incontrato già negli anni Sessanta del secolo scorso. Dopo la morte del padre, la figlia di Gehlen, gli ha affidato l’incarico di curarne l’opera omnia. Al pensiero del suo Doktorvater, Rehberg ha poi dedicato alcuni importanti studi, in parte apparsi anche in italiano: «L’antropologia elementare di Arnold Gehlen», «Prefazione» a Gehlen, L’Uomo: la sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, 1983, nonché la «Prefazione» a Mazzarella (a cura di), Arnold Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Guida, 1990. Ha poi dedicato un volume magistrale a Norbert Elias (1897-1990) e alla sua concezione del processo di civilizzazione: Norbert Elias und die Menschenwissenschaften. Studien zu Entstehung und Wirkungsgeschichte der «Zivilisationstheorie», Suhrkamp, 1996.
- Nell’ambito della teoria sociologica, Rehberg ha dato un notevole contributo, fin dalla sua tesi di dottorato, all’analisi del concetto di potere e di quello delle istituzioni, intese come ordinamenti simbolici. Il volume Symbolische Ordnungen. Beiträge zu einer soziologischen Theorie der Institutionen (con Hans Vorländer, a cura di), Nomos, 2014, mette in luce come le istituzioni non abbiano perso ruolo nelle società del mondo globalizzato, nonostante siano state caratterizzate da processi di individualizzazione. Il libro, frutto di anni di riflessioni, indaga, a partire dalla prospettiva della sociologia storica, i meccanismi sociali da cui le istituzioni, in quanto assetti simbolici, hanno origine, i modi in cui esse cambiano e i processi che le portano a stabilizzarsi. Sempre da una prospettiva storica, il libro curato con Gert Melville, Dimensionen institutioneller Macht. Fallstudien von der Antike bis zur Gegenwart, Böhlau, 2012, ricostruisce i meccanismi del potere istituzionale dall’antichità ad oggi.
- A partire dal suo trasferimento a Dresda, capitale della Sassonia, dopo aver vinto il concorso di professore ordinario nel 1992, Rehberg si concentra su nuovi temi di ricerca, collegati ai profondi cambiamenti sociali e culturali della Germania dopo la riunificazione. Innanzi tutto, le disuguaglianze sociali, che la caduta del muro ha acuito. Da sempre Rehberg, a differenza di molti altri sociologi tedeschi, ha insistito sul permanere della struttura di classe nelle società tedesca. Emblematico, al riguardo, è il volume Soziale Ungleichheit, kulturelle Unterschiede (con Dana Giesecke, a cura di), Campus, 2004, che contiene i contributi del XXXII congresso della «Deutsche Gesellschaft für Soziologie». Un saggio tradotto in italiano su questo tema è «L’invisibile società di classe. La sociologia e le tendenze del capitalismo moderno», in Mongardini (a cura di), Lo spirito del capitalismo contemporaneo, Bulzoni, 2007.
- Un ulteriore ambito di ricerca, sviluppato dagli anni Novanta ad oggi, riguarda le arti figurative nei Länder della ex Germania dell’Est e la relazione degli artisti con il potere durante il regime comunista. Un primo, denso volume su questo tema di ricerca, curato da Rehberg e Paul Kaiser e intitolato Enge und Vielfalt – Auftragskunst und Kunstförderung in der DDR: Analysen und Meinungen Gebundene Ausgabe, è apparso presso Junius nel 1999. Gli stessi studiosi hanno poi proposto Abstraktion im Staatssozialismus. Feindsetzungen und Freiräume im Kunstsystem der DDR, VDG, 2003. In italiano è apparso il saggio di Rehberg «Le arti figurative nella DDR. Dall’immaginazione di una nuova società al “Bilderstreit” tedesco dopo la riunificazione», in Martini e Schaarschmidt (a cura di), Riflessioni sulla DDR. Prospettive internazionali e interdisciplinari vent’anni dopo, Il Mulino, 2011. Infine, il terzo importante testo che va menzionato sulla riflessione dell’arte figurativa nella ex DDR è Bilderstreit und Gesellschaftsumbruch: Die Debatte um die Kunst der DDR im Prozess der deutschen Wiedervereinigung (con Paul Kaiser, a cura di), B & S Siebenhaar Verlag, 2013.
Rehberg ha analizzato in profondità la corrente artistica della Scuola di Lipsia (Leipziger Schule) e alcuni percorsi biografici dei maggiori esponenti come Willi Sitte, Werner Tübke e Bernhard Heisig.
- All’occhio vigile e attento di Rehberg non poteva certo sfuggire il movimento populista di destra «Pegida», nato proprio nelle piazze di Dresda nel 2014. Dopo alcuni anni di osservazioni partecipanti e interviste in profondità, realizzate con aderenti al movimento, Rehberg pubblica (con Franziska Kunz e Tino Schlinzig, a cura di), Pegida. Rechtspopulismus zwischen Fremdenangst und «Wende»-Enttäuschung?: Analysen im Überblick, Transcript, 2016.
Rehberg è il curatore dell’opera omnia di Arnold Gehlen, pubblicata con Klostermann di cui ricordiamo i seguenti volumi: Arnold-Gehlen-Gesamtausgabe Band 7: Einblicke, Klostermann 1978; Bd. 3: Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt; Bd. 4: Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, 1983 (trad. it. Mazzarella, a cura di, Arnold Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Guida, 1990); Arnold Gehlen, Zeit-Bilder. Zur Soziologie und Ästhetik der modernen Malere, 1986 (prima ed. 1960); Bd. 6: Die Seele im technischen Zeitalter und andere sozialpsychologische, soziologische und kulturanalytische Schriften, 2004; Urmensch und Spätkultur. Philosophische Ergebnisse und Aussagen, 2004; Moral und Hypermoral. Eine pluralistische Ethik, 2004.
Oltre ai lavori citati in precedenza, altre rilevanti pubblicazioni di Rehberg sono: Gründungsmythen – Genealogien – Memorialzeichen. Beiträge zur institutionellen Konstruktion von Kontinuität (con Gert Melville, a cura di), Böhlau 2004; Kunst im Kulturkampf. Zur Kritik der deutschen Museumskultur (con Lutz Hieber e Stephan Moebius, a cura di), Transcript 2005; Mobilität – Raum – Kultur. Erfahrungswandel vom Mittelalter bis zur Gegenwart (con Walter Schmitz e Peter Strohschneiderund, a cura di), Thelem 2005; Sammeln als Institution. Von der fürstlichen Wunderkammer zum Mäzenatentum des Staates, (con Barbara Marx, a cura di), Deutscher Kunstverlag 2006; «Realität» der Klassengesellschaft – «Klassengesellschaft» als Realität, MV Wissenschaft, 2007 (con Gunther Gebhardt e Tino Heim, a cura di); Arnold Gehlen: Die Seele im technischen Zeitalter. Sozialpsychologische Probleme in der industriellen Gesellschaft (a cura di), Klostermann, 2007; 60/40/20. Kunst in Leipzig seit 1949, Seemann, 2009 (con H.-W. Schmidt, a cura di); Willi Sitte – Frühe Werke 1950-1960 (con Rüdiger Hurrle), Heinz W. Holler, 2011; Dimensionen institutioneller Macht. Fallstudien von der Antike bis zur Gegenwart (con Gert Melville), Böhlau, 2012; Der Grenzraum als Erinnerungsort. Über den Wandel zu einer postnationalen Erinnerungskultur in Europa (con Patrick Ostermann e Claudia Müller, a cura di), Transcript, 2012; Abschied von Ikarus. Bildwelten in der DDR – neu gesehen (con Wolfgang Holler e Paul Kaiser, a cura di), König, 2012; Bilderstreit und Gesellschaftsumbruch. Die Debatten um die Kunst aus der DDR als Stellvertreterdiskurs im Prozess der deutschen Wiedervereinigung (con Paul Kaiser, a cura di), Siebenhaar, 2013; Transformationsprozesse im Kulturbereich. Eine vergleichende Studie zum «Dritten System» in Mittel? und Osteuropa, (con Patrick Ostermann e Karen Voigt), Leipziger Universitätsverlag, 2005; Symbolische Ordnungen. Beiträge zu einer soziologischen Theorie der Institutionen, Nomos, 2014 (una raccolta di saggi quasi tutti inediti salvo uno, scritti da Rehberg durante gli anni 1990-2005. Il volume è stato curato da Hans Vorländer); Pegida. Rechtspopulismus zwischen Fremdenangst und «Wende» Enttäuschung? Analysen im Überblick (con Franziska Kunz e Tino Schlinzig, a cura di), Transcript, 2016.
Ho incontrato per la prima volta Karl-Siegbert Rehberg nel novembre del 2015, due anni dopo il mio trasferimento a Berlino e la docenza presso la Freie Universität Berlin. Naturalmente, lo conoscevo già attraverso i suoi scritti, soprattutto quelli sulle disuguaglianze sociali e sull’arte figurativa nella DDR, ma non avevo ancora avuto modo di parlargli direttamente. Ci siamo incontrati in occasione di una conferenza, organizzata a Dresda, dallo stesso Rehberg, sul movimento politico «Pegida».
Il giorno successivo, abbiamo scambiato alcune considerazioni sul nostro percorso intellettuale e sulla sociologia sia in Germania sia in Italia. Di lui mi ha colpito subito la capacità di comprendere, di calarsi nel contesto sociale e politico. Rehberg è un sociologo di grande esperienza, che conserva però uno sguardo giovane, non stereotipato.
Nell’estate 2017, la lunga intervista di quasi tre ore, con gli spunti di riflessione e gli interludi ironici e spontanei, ha confermato la mia prima impressione sullo studioso, la sua carica di umanità e la sua volontà di superare i confini tra le discipline.
Vorrei iniziare dalla sua formazione. Quale è stato il percorso che l’ha portato ad abbracciare gli studi di sociologia e in che modo il contesto familiare e socio-culturale hanno influenzato tale scelta?
Appena nacqui, fui adottato da una famiglia che, da Aachen, mi portò a Breslau, in Slesia, allora parte della Germania. Sul finire della Seconda guerra mondiale, fuggimmo da Breslau, attraverso l’Erzgebirge, e ritornammo ad Aachen, città natia della mia madre adottiva. A quel tempo, molti orfani della Germania occidentale venivano dati in adozione a famiglie che vivevano nei Länder della Germania orientale, perché si pensava che la guerra lì non sarebbe arrivata. Così, ebbi la fortuna di avere una famiglia.
Sebbene io abbia avuto un’infanzia felice ad Aachen nel Land della Renania Settentrionale-Vestfalia – così sono almeno sono i miei ricordi – percepivo anche un sentimento di estraneità e di marginalità, in quanto la mia famiglia ed io eravamo protestanti. In un contesto profondamente impregnato dalla cultura cattolica, non essere cattolici rappresentava uno stigma sociale. Capii solo più tardi che era qualcosa di più di un senso di estraneità: si trattava di una vera e propria inimicizia, un’ostilità nei nostri confronti.
Frequentai per quattro anni la scuola Montessori, che era stata riaperta dopo che il regime nazista, durante la guerra, l’aveva chiusa. Ho adorato quei primi quattro anni di scuola, poiché mi sentivo a mio agio, felice di esprimermi come desideravo. Gli anni che seguirono, invece, della scuola pubblica, li detestai. Non capivo cosa volessero da me gli insegnanti, quando mi chiamavano alla lavagna e mi interrogavano.
Avevo deciso che una volta terminata la scuola, non avrei studiato un giorno di più. Mia madre era disperata per questa scelta e mi esortava invece a proseguire gli studi. Pensai allora di diventare pastore protestante. Alla fine, invece, decisi di fare il libraio, professione che mi permetteva una formazione auto-didatta. Potevo leggere tutto quello che desideravo, da Immanuel Kant fino ad Albert Camus, senza il disturbo e l’imposizione del sistema scolastico!
Durante il mio lavoro nella libreria, pensai che mi sarebbe piaciuto fare il giornalista. E così ho incominciato a scrivere gratuitamente per un piccolo giornale locale del Frankenthal e per la Kölner Stadt-Anzeiger.
Che cosa significava per lei l’attività giornalistica?
Il giornalismo per me è stato un’esperienza straordinaria. Mi ha permesso di entrare nella società, negli ambiti e ai livelli più disparati, cosa che altrimenti mi sarebbe stata preclusa. Potevo osservare i fenomeni sociali più diversi – le associazioni, il carnevale, le ultime pièce teatrali – descriverli e analizzarli. Così è iniziato il mio interesse per la società e per i suoi meccanismi. Per poter fare carriera come giornalista, per perseguire una mobilità sociale ascendente, ho pensato che fosse indispensabile studiare. Mi guardavo intorno e constatavo che tutti i giornalisti che avevano ottenuto posizioni di prestigio nella società tedesca del dopoguerra possedevano un livello di istruzione universitario. E così mi sono iscritto inizialmente a Scienze politiche, presso l’Università di Aachen come uditore, visto che non possedevo la maturità (Abitur) e poi ho proseguito con lo studio della sociologia, che trovavo più stimolante della scienza politica. Mi sono immerso nei classici, in primis in Max Weber (1864-1920) e in Georg Simmel (1958-1918), ma anche in autori più marginali, non della sociologia mainstream, che allora non venivano più letti, come Vilfredo Pareto (1848-1923) e Gaetano Mosca (1858-1941). Durante i primi anni universitari, mi ero anche avvicinato alla politica. Sono entrato nel partito socialista tedesco (SPD) come assistente di un politico potente. Era un parlamentare del Parlamento tedesco (Bundestag) ed era il braccio destro dell’allora Ministro per le relazioni interne (Bundesministerium für gesamtdeutsche Fragen), Herbert Richard Wehrer (1906-1990). Wehrer rimase in carica dal 1966 al 1969. Sebbene fossi una piccola ruota del carro, era esaltante vedere come funzionava il Parlamento.
Passiamo ora all’influsso che ha avuto il filosofo e sociologo Arnold Gehlen (1904-1976) sul suo percorso intellettuale. Con Gehlen, Lei si è addottorato nel 1973 all’Università di Aachen, con una tesi sugli approcci a una sociologia prospettivistica delle istituzioni. Anche dopo il dottorato, ha continuato ad interessarsi al pensiero di Gehlen, tanto da divenirne il curatore dell’opera omnia. Come l’ha conosciuto, che rapporto ha avuto con lui e quali sono stati i contributi teorici di Gehlen che l’hanno maggiormente stimolata?
Mi sono imbattuto in Gehlen quando ho iniziato a frequentare i corsi di sociologia presso l’Università di Aachen. Il mio rapporto con lui è stato arricchente dal punto di vista intellettuale, ma anche molto ambivalente e conflittuale dal punto di vista ideologico. Se, da una parte, lo stimavo ed ero affascinato dal suo rigore e acume intellettuale, dall’altra parte, lo trovavo politicamente inaccettabile. Non solo per il suo passato, ma anche per le posizioni ideologiche che aveva negli anni Sessanta. Com’è noto, nel 1933 Gehlen entrò a fare parte del partito nazista e, come molti docenti allora, divenne membro dell’associazione dei docenti nazisti sebbene non sia stato un filosofo del nazismo. Negli anni Sessanta, quando io frequentavo l’Università, Gehlen era un rigido conservatore, sprezzante verso la massa, critico fino all’inverosimile verso la giovane Repubblica federale tedesca e, ça va sans dire, verso tutto il movimento studentesco di sinistra. Poiché io ero influenzato dalla Scuola di Francoforte, in particolare da Theodor Adorno e dal movimento studentesco e poi dalla SPD, questo era fonte di non pochi conflitti tra di noi.
Come tanti giovani studenti, criticavo l’era Adenauer: ero di sinistra, ero un giovane socialista della SPD. Spesso tra di noi c’era molto tensione, freddezza e, da parte sua, indifferenza. Talvolta mi ignorava. E questo per me era difficile, perché il mio percorso formativo, prima ancora che la mia carriera accademica, dipendevano dalla sua valutazione. Per poter essere ammesso all’Università, dovevo passare l’esame di recupero maturità, cosa che mi è in effetti riuscita.
Bisogna tener presente che, in quegli anni, i professori ordinari in Germania avevano un’ampia capacità di manovra e molto potere. Talvolta facevano scrivere i loro libri agli studenti e poi li firmavano loro, oppure potevano licenziare una persona dall’oggi al domani, anche se era molto capace e produttiva. Tutto questo mi sembrava molto ingiusto già allora. La prima presentazione di un mio elaborato in classe (Referat), durante il corso di Gehlen, andò molto bene, a differenza della seconda. Infatti, nella seconda presentazione, avevo criticato il volume di Ernst Forsthoff (1902-1974), un intellettuale di destra, studioso dello Stato di diritto e allievo di Carl Schmitt. Ciò non piacque per nulla a Gehlen. Dopo questo elaborato, non ci parlammo per mesi.
Gehlen era filosofo e antropologo di formazione e si era avvicinato alla sociologia solo in un secondo tempo. I campi in cui il suo pensiero mi ha influenzato, e mi ha offerto spunti di riflessione per la mia analisi teorica, sono sostanzialmente quattro.
Nella sua opera Urmensch und Spätkultur und philologische Perspektive, Gehlen si focalizza sulle istituzioni e sul perché esistano. Da lì sono partito per la mia tesi di dottorato. Urmensch und Spätkultur fu, a suo tempo, un best-seller. Le istituzioni sono la premessa, l’antecedente per potere spiegare e comprendere l’uomo. Secondo Gehlen, le istituzioni alleviano l’ansia di dover prendere decisioni (Entlastungleistungen). E, su questo punto, concordo pienamente con lui. Non potremmo vivere senza istituzioni, che per me vanno intese come ordinamenti simbolici. A mio parere, però, Gehlen ignorava quanto le istituzioni possano rappresentare per gli uomini anche un fardello, una grande costrizione. E questa era la mia critica al suo pensiero, che ho sviluppato nella mia tesi di dottorato. Le istituzioni sono caratterizzate anche dal fatto che rendono invisibile il potere, sebbene ci sia sempre una struttura di potere, anche all’interno di una coppia, anche tra donne. Simili rapporti di potere non si possono tematizzare, ma esistono e trovano la loro espressione. E queste istituzioni possono naturalmente cambiare e trasformarsi. Non sono determinate una volta per tutte, ma sono sempre lì, anche in nuove costellazioni. L’approccio istituzionalista è per me molto importante, così come lo è la prospettiva storica. Sono convinto che la storia faccia parte del presente. Il secondo concetto che, per me, è stato rilevante è quello dell’uomo come «essere manchevole» (Mängelwesen), che troviamo nel suo volume del 1940, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt. Un essere manchevole, che però si riscatta grazie al proprio agire. È un essere che agisce con una grande capacità creativa, un essere che è estremamente plastico e produttivo. Molti anni dopo, nel 2010, scrissi un saggio proprio su questo tema, intitolato Der Mensch als Kulturwesen. Perspektiven der Philosophischen Anthropologie, in un volume sulla sociologia della cultura, curato dalla sociologa Monika Wohlrab-Sahr. Il terzo concetto, per me importante è quello della morale, che viene sviluppato nell’opera Moral und Hypermoral. Eine pluralistische Ethik. L’ho trovato molto stimolante, sebbene non condividessi la seconda parte del libro, in cui Gehlen vede la decadenza dello Stato a causa del Sessantotto. Questo fu motivo di forti discussioni tra di noi. Questo libro fu anche fortemente criticato. Non solo da uno dei suoi più fedeli allievi, Wilhelm Friedrich Schelsky (1912-1984), ma anche da illustri esponenti della Scuola di Francoforte come Jürgen Habermas. Infine, nel suo testo Zeit-Bilder. Zur Soziologie und Ästhetik der modernen Malerei, pubblicato nel 1960, che ho appena fatto ripubblicare sotto la mia curatela, proprio in questo periodo, Gehlen sottolinea la dimensione sociale dell’arte. Concordo con lui su questo punto, da cui sono partito per le mie riflessioni sulle arti figurative durante gli anni Novanta nella ex Germania orientale. È interessante come un autore così conservatore come Gehlen abbia scritto un libro entusiasta sulla modernità. Questo ha irritato molti. Egli vede nell’arte del Novecento lo spirito innovativo e dinamico della società industriale, mentre nell’arte contemporanea vede solo il decadimento.
Quali sono stati i sociologi, dai padri fondatori a quelli contemporanei, che hanno avuto un ruolo significativo per il suo percorso intellettuale di sociologo?
Di Max Weber mi interessava soprattutto la prospettiva storica, che anch’io adotto spesso nei miei scritti, ma anche la sua biografia politica, come dalla politica arriva alla sociologia. Proprio perché Weber era così coinvolto nella politica, aveva bisogno di una teoria dell’obiettività e di una separazione della politica dalla scienza sociologica.
Poi, mi piacevano molti esponenti della Scuola di Francoforte, tra cui Theodor Adorno – il «suo Adorno» mi diceva sempre Gehlen con disprezzo –, Herbert Marcuse ed Ernst Bloch. Di Adorno ho amato non tanto gli scritti sulla musica, che conoscevo poco, ma quelli sulla letteratura, che trovavo molto importanti e, in generale, l’impostazione critica della Scuola di Francoforte, critica nei confronti dello status quo.
Il Sessantotto per me è stato importante come movimento, sebbene il mio stile di vita e la mia quotidianità si discostassero dal modello dei sessantottini. Mi ero sposato molto presto, sono diventato padre (ho due figlie) e, dopo il dottorato, sono diventato «collaboratore scientifico» e poi assistente universitario, grazie anche alle relazioni che avevo stretto in quegli anni. Il sistema universitario e il reclutamento di allora erano poco trasparenti. Il reclutamento è diventato maggiormente meritocratico, sebbene anche oggi si possano fare non poche critiche. Gli scritti sociologici e politici di quel periodo e dei teorici del Sessantotto mi stimolavano molto e mi hanno influenzato. E, poi, Norbert Elias (1897-1990), che ho avuto il grande onore di conoscere nei primi anni di docenza, dopo il mio dottorato, quando tenevo diversi corsi di sociologia. Mi interessavo anche di sociologia dell’arte, che avevo seguito al tempo della mia formazione con Gehlen. Dato che il sistema accademico tedesco richiede che si cambi con frequenza il tema del proprio insegnamento, mi sono occupato di diversi argomenti, tra cui il barocco e le feste che si organizzavano a quei tempi. Norbert Elias, di origini ebraiche, in quegli anni stava riscuotendo un grande successo, dopo una vita vissuta ai margini della società inglese, a seguito della sua fuga e migrazione dalla Germania nazista, dove era assistente di Mannheim. Mi confessò di essersi sentito, in Inghilterra, come cittadino di terza classe: nessuno lo leggeva o si interessava del suo pensiero sociologico. Elias, per me, è stato una grande fonte di ispirazione, soprattutto per la sua opera sul Processo di civilizzazione (Über den Prozeß der Zivilisation. Soziogenetische und psychogenetische Untersuchungen), la cui prima parte fu scritta nel 1939, ancora sotto il nazismo, mentre la seconda parte fu scritta quando era in esilio. La sua opera fu pubblicata nel 1976. La versione italiana fu edita in Italia nel 1988. Da una parte, di nuovo come in Weber, mi interessava per il suo approccio storico. L’avevo già citato nella mia tesi di dottorato, in particolare per la sua opera sulla Società di corte (Die höfische Gesellschaft). Molto illuminante il suo concetto di configurazione, di questa catena. Una volta chiesi a Elias quali fossero i riferimenti sociologici per la sua impostazione storica. Pensavo che mi rispondesse la scuola di Braudel, ad esempio, ma disse solo: «A scuola ebbi un ottimo professore di storia» – finché gli fu possibile frequentare la scuola sotto il nazismo.
Come iniziò la sua carriera universitaria, come furono i primi sviluppi della sua carriera fino all’abilitazione e poi la chiamata come professore ordinario?
Dopo che mi ero addottorato con Arnold Gehlen, divenni subito assistente universitario e dopo neanche un anno, cosa oggi impensabile, ottenni un posto di «ricercatore a tempo indeterminato» (Beamter). Un vero e proprio privilegio. Al contempo, mi sono sposato ed ebbi una prima figlia (la seconda l’ho avuto molti anni dopo). Mia moglie era un’insegnante di inglese e francese, che mi ha anche dato moltissimi stimoli intellettuali per quanto riguarda la letteratura inglese e francese. Data la mia posizione privilegiata nel sistema accademico tedesco, a partire dal 1974 – avevo 31 anni allora –, divenni docente universitario nel 1985, mentre mi sono abilitato anni dopo, senza alcuna fretta, nel 1992 a quasi quarant’anni. Nell’anno accademico antecedente, 1991/1992, sono stato Visiting professor all’Università di Leiden in Olanda prima della mia chiamata come professore ordinario nell’estate del 1992 presso il Politecnico di Dresda (Technische Universität Dresden, TUD) e professore sostituto (Lehrstuhlvertreter) all’Istituto di Scienze della cultura presso l’Università di Leipzig.
Molti sociologi tedeschi (ma non solo), a partire dagli anni Settanta, hanno messo in discussione la teoria marxista delle classi sociali, sostenendo che non fosse più applicabile alla società industrializzata dei consumi. Nei suo scritti, emerge chiaramente una critica nei confronti di questa tesi. Lei, come sociologo della cultura, cosa ne pensava?
È vero, c’erano tutti questi sociologi tedeschi, a partire da Schelzky, che sostenevano che le classi sociali non esistevano più.
Sono stato uno dei sociologi tedeschi che si opponevano a questa tesi, abbracciata da molti. Ero, e devo dire sono, fermamente convinto che le classi sociali, nella concezione di Bourdieu, esistano e continuino ad esistere. A questo proposito, mi ricordo un convegno sulle disuguaglianze sociali, promosso a Düsseldorf dall’Associazione tedesca di Sociologia (DGS), quando ne ero Presidente, in cui era presente anche Pierre Bourdieu. Mentre tanti sostenevano che la struttura delle classi sociali in Germania non esistesse più e che fosse solo un segno del passato, mentre esistevano solo diversi strati o milieu, tentai di scardinare la loro tesi, invitandoli tutti a uscire per un’ora e a passeggiare nella strada principale di Düsseldorf, con il compito di osservare i passanti. Se avessero visto le pellicce che indossavano le signore e le Porsche parcheggiate lungo i marciapiedi, forse si sarebbero resi conto che la struttura di classe non era svanita.
Avevo tenuto anche corsi proprio sulle disuguaglianze e la società delle classi sociali, un insegnamento molto ambito che riscuoteva successo. Spesso si attribuisce la teoria delle classi sociali e della società divisa in classi al pensiero di Marx, ma la teoria la troviamo elaborata già negli economisti del Settecento, come ad esempio François Quesnay (1694-1774) e Adam Smith (1723-1790). Concezioni che coniugano la teoria della produttività con quella della distribuzione della ricchezza. E una variante di tale dottrina riguarda lo sfruttamento e l’iniqua distribuzione delle risorse, che tuttora si verificano nella nostra società. Il problema è che manca una consapevolezza di classe tra i lavoratori.
Per quali ragioni ha lasciato l’Università di Aachen e si è trasferito a Dresda nel 1992, capitale della Sassonia, in un Land della ex Germania orientale? Uno dei temi di ricerca sociologica che ha sviluppato da allora fino ad oggi riguarda l’arte figurativa della ex Germania orientale. Quali furono le motivazioni che l’hanno spinta a intraprendere molte ricerche empiriche in questo campo?
Semplicemente, ho vinto il concorso all’Università di Dresda come ordinario, all’inizio degli anni Novanta, e così mi sono trasferito a Dresda. Era un periodo molto affascinante, soprattutto per noi sociologi, un periodo di grandi trasformazioni sociali, economiche e politiche, nel nostro paese riunificato dopo quarant’anni. A un tratto, era diventato «tutto sociale»: dall’odore dell’aria, dal carbone, alle scarpe bagnate. Avevo l’occasione di trasferirmi a Leipzig ma ho preferito Dresda, perché mi piaceva di più. Era una vera avventura non solo intellettuale, ma anche una nuova esperienza di vita. Prima ancora che mi trasferissi a Dresda, mi interessava la Germania orientale. Mi interessavo agli artisti visivi – i pittori come Willi Sitte, gli scultori – proprio per riuscire a capire queste radicali trasformazioni sociali che erano in atto. Ho iniziato a parlare con loro, ad andare nei loro atelier, a intervistarli. Inizialmente, non era mia intenzione fare una ricerca sociologica qualitativa sul campo, ma volevo comprendere gli artisti e l’arte, che per me sono sempre stati un’importante chiave di lettura per decifrare il sistema politico e sociale di un paese. Ho iniziato solo dopo a sistematizzare le mie riflessioni teoriche e a elaborare diverse ricerche sociologiche.
Le sue ricerche empiriche sull’arte figurativa che cosa le hanno permesso di comprendere del nuovo contesto sociale in cui viveva?
Prima della caduta del muro, nella Germania orientale esisteva un modus vivendi molto particolare tra artisti e regime comunista. L’arte rappresentava, da una parte, uno strumento pedagogico a sostegno dell’ideologia comunista e il luogo dove fare emergere i problemi sociali e, dall’altra, anche uno strumento per il controllo sociale degli artisti.
Il regime della ex Germania orientale riconosceva all’artista un importante ruolo, quello ad esempio di aiutare la trasmissione dell’ideologia e lo sosteneva economicamente, affidandogli incarichi.
Dopo la caduta del muro, sono emerse grandi delusioni per la perdita di ruolo, per la perdita della propria identità, per la perdita di senso e per la difficile situazione economica in cui molti artisti si sono trovati, soprattutto le donne. Penso alla brava pittrice Angela Hampel, che per molto tempo ha dovuto svolgere un altro lavoro per poter sopravvivere nella Germania unificata. Avevano perso molti privilegi. Gli artisti si lamentavano del processo di mercificazione delle loro opere d’arte. Si vale come artisti solo se le proprie opere d’arte vengono vendute a un prezzo elevato sul mercato dell’arte. Vedevano la Germania dell’Ovest come noi guardiamo agli Stati Uniti, dove tutto è dettato dal mercato. Nella nuova Germania unificata, avevano la sensazione di non svolgere nessun ruolo rilevante nella società, di non esercitare nessun impatto su di essa. La loro vita aveva perso di senso (Sinnesverlust). Cosa che chiaramente non è vera. L’arte mantiene la sua autonomia anche nei paesi capitalistici.
Il grande processo di unificazione politica ed economica delle due «Germanie» ha portato con sé grandi diseguaglianze e conflitti sociali. Qual è il nesso con movimenti di destra quali Pegida e perché ha iniziato a interessarsi fin dalla sua nascita a questo movimento?
Mi sono sempre interessato alle forme di pregiudizio, alle ideologie dei conservatori e al neo-fascismo, su cui, tuttavia, fino ad allora non avevo mai fatto delle ricerche approfondite. Mi trovavo però a Dresda nel 2014, lì dove nacque il movimento «Pegida» – Patrioten Europas Gegen die Islamisierung des Abendands (Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente) –, che si è diffuso nel 2014-2015. Un nome un po’ strano, presumo che la maggioranza di loro non sappia cosa significhi l’Occidente. Non è certo l’Occidente degli antichi romani, a cui avrebbe pensato Adenauer. La stampa internazionale aveva delineato tale movimento come un movimento neo-nazista annunciando che il nazismo era di nuovo esploso in Germania. Così ne parlava il New York Times. Qualche neo-nazista c’era, però il movimento era più articolato e le motivazioni dei suoi membri erano ancora tutte da scoprire. I partecipanti, che si riunivano tutti i lunedì nella piazza principale di Dresda, non erano solo gli abitanti di Dresda, ma venivano da altre parti della Germania; dal Brandeburgo, dal Harzgebiet, da Tübingen ecc. Sono sempre andato ai raduni con i miei studenti, per fare delle osservazioni partecipanti. Volevo comprendere cosa stesse succedendo veramente. All’inizio erano 350 persone, poi il numero è salito fino a quasi 20.000. La tesi emersa dalle nostre ricerche, che sono contenute nel libro da me curato con Franziska Kunz e Tino Schlinzig, intitolato Pegida – Rechtspopulismus zwischen Fremdenangst und «Wende»-Enttäuschung?: Analysen im Überblick (Pegida – populismo di destra e la caduta del muro. Delusione? Prime analisi), è che il movimento debba essere compreso come risposta alla cocente delusione di alcune fasce della popolazione in seguito alla riunificazione. In altre parole, a riversarsi nelle strade erano le persone che erano rimaste ferite dalla caduta del muro, coloro che non erano riusciti a elaborare il crollo del regime comunista, che erano contenti di potere di nuovo mostrarsi sulle piazze (all’incirca un 20% della popolazione dei Länder della ex Germania orientale dichiara di stare oggi peggio economicamente e socialmente rispetto al passato). I partecipanti sono molto eterogenei, tra di loro non c’erano però accademici. Molte erano le donne, che spesso erano più radicali degli uomini. Molti di loro vivevano in grandi ristrettezze economiche, bastava guardare quanto erano mal vestiti. Veniva quasi da piangere per quanto erano poveri. Non erano solo la delusione e l’estraneità nei confronti del nuovo sistema sociale, che li spingevano a manifestare in piazza, ma anche la «sovrapposizione» (Überlagerung), per dirla con un concetto del sociologo polacco Ludwig Gumplowicz (1838-1909). Con la caduta del muro, molti posti di lavoro, quelli maggiormente privilegiati, sono stati occupati dalle persone che venivano mandate dalla Germania dell’Ovest (tra cui io), che, per il rinascente sistema capitalistico, erano più preparate, più competenti, più efficienti. E questo ha provocato una società divisa in due e ha suscitato un grande risentimento in molti, costretti ad accettare un qualsiasi lavoro mal pagato. Ha suscitato una ferita e un sentimento di inadeguatezza. E questo, come sociologo, lo devo comprendere. Se fossi un chimico, potrei ignorarlo, ma come sociologo non lo posso fare. Mi ero stupito che, ad ogni raduno, ci fossero queste bandiere rosse, color oro e nero simili a quelle scandinave. Si trattava invece della bandiera Wirmer o anche chiamata bandiera del Conte von Stauffenberg (1909-1944), quella che si è alzata il 20 luglio, il giorno in cui Stauffenberg fu ammazzato dopo il fallito colpo di Stato a Hitler. Questa bandiera era anche quella che si sarebbe sventolata nel caso invece in cui si fosse riusciti ad assassinare Hitler. Per molto tempo, non riuscivo a vedere nessun nesso tra il movimento «Pegida» e la bandiera di Stauffenberg. A lungo, mi sono chiesto come mai avessero scelto proprio quella bandiera come simbolo del loro movimento. La motivazione sottostante, che è stata confermata dalle mie ricerche, era che, come Stauffenberg voleva abbattere il sistema nazista, così anche loro, i veri patrioti tedeschi, vogliono porre fine ad un sistema partitico, che porta alla rovina la Germania e tutto l’Occidente. Inoltre, ai radumi spesso si vedevano alcune bandiere israeliane, il che mi ha stupito. Quando ho chiesto perché, mi hanno risposto che lo Stato israeliano era uno dei pochi Stati forti, capace di difendere i propri confini.
Come fondatore della sociologia della cultura tedesca, Lei ha ricoperto un importante ruolo nella DGS – Deutsche Gesellschaft für Soziologie (Società tedesca di sociologia) –, e l’ha presieduta dal 2003 al 2007. Come si colloca la sezione della sociologia della cultura sia all’interno della DGS, sia all’interno dalla più ampia società tedesca?
La sezione della sociologia della cultura è stata per molto tempo la seconda sezione più ampia della DGS, dopo quella dedicata ai gender studies. Sebbene negli ultimi anni il numero dei membri si sia ridotto, rimane una sezione molto vivace, poliedrica e sfaccettata. Già nel periodo in cui la presiedevo, la DGS però era anche divisa in molti sottogruppi. Un gruppo di ricerca molto attivo in questo momento è quello sulla sociologia dell’arte. Quando ero presidente, ho cercato di tenere insieme i gruppi della sociologia della cultura il più possibile. Ci sono non poche tensioni nel gruppo che si occupa di metodologia, in particolare tra sociologi qualitativi e quantitativi. Questi ultimi minacciano sempre di volersene andare dalla DGS, che mi sembra una strategia criticabile e poco lungimirante.
Vista la sua fama anche internazionale, quale rapporto ha avuto con la sociologia italiana? Che impatto ha avuto lo scambio con i sociologi italiani sul suo percorso di carriera accademica e intellettuale?
Negli ultimi decenni, ho sempre collaborato e sono stato in reciproco contatto con sociologi di diversi paesi stranieri, tra cui svizzeri, francesi, austriaci, spagnoli, italiani. Con i sociologi italiani ho avuto un ottimo rapporto, soprattutto con quelli dell’Università degli Studi di Trento, con cui avevamo istituito nel lontano 1995, grazie al sostegno del Ministero italiano della pubblica istruzione, un programma di doppia laurea, che è tuttora in vigore. Si tratta di un programma integrato di studio, che offre l’opportunità agli studenti tedeschi e italiani di frequentare una parte della loro carriera universitaria presso la Technische Unversität Dresden e presso l’Università degli Studi di Trento. Al termine del percorso formativo, lo studente ottiene il doppio titolo di studio tedesco e italiano. A suo tempo, ho lottato affinché lo studente ottenesse questo doppio titolo perché, in paesi come la Germania e l’Italia, dove si prosegue la propria carriera accademica o la propria carriera in un ente pubblico per concorsi, è bene che il titolo di studio venga subito riconosciuto. Questo programma congiunto di studio ha funzionato molto bene per parecchi anni. Va detto che erano di più gli studenti italiani che venivano a studiare da noi che non viceversa perché, per i sociologi tedeschi, non era così importante conoscere la lingua e la cultura italiana rispetto, ad esempio, a quanto lo fosse per gli studenti di storia dell’arte. Per gli studenti del Trentino-Alto Adige, invece, lo studio in Germania e il perfezionamento della lingua tedesca portavano un vantaggio nel mercato del lavoro. Ogni anno avevamo fino a venti studenti. Dopo la riforma universitaria di Bologna, questo programma di studio ha funzionato un po’ meno bene. Questo si deve, in parte, alla pressione a cui sono sottoposti gli studenti, che devono finire più velocemente possibile i loro studi universitari. Dall’altra parte, la burocrazia delle amministrazioni pubbliche, sia quella tedesca sia quella italiana – ho sempre pensato che fossero solo i tedeschi a essere grandi burocrati, ma mi sono ricreduto – ha rallentato il processo. L’impatto di questo scambio è stato molto fruttuoso per la mia carriera. Infatti, per dieci anni, dal 1999 al 2009, sono stato Visiting professor per un mese grazie ad un programma di scambio «per professori di fama internazionale» presso la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Trento. Lì ho insegnato nei mesi in cui abbiamo vacanza (estate/autunno e primavera) sociologia della conoscenza, che ho amato molto. Mi piace molto l’Italia come paese, è fonte di ispirazione, in particolare per me che mi occupo di sociologia dell’arte. Nel 2004, ho tenuto una laudatio in onore dell’artista Maurizio Cattelan, che ho intitolato «Un artista tra Nietzsche e Pinocchio», in occasione del conferimento della laurea honoris causa in sociologia presso l’Università degli Studi di Trento.
Ho insegnato anche in altre Università italiane: alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza» nel 1998; per molti anni, anche presso la Libera Università Maria SS. Assunta (LUMSA) a Roma; e, nel 2003, presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Dal 2009. sono membro corrispondente del Collegio San Carlo di Modena.
La Technische Universität Dresden fa parte dell’«European Sociology Network» (ESN) assieme all’Università degli Studi di Trento, l’Université Paris Cité René Descartes (Sorbonne), la Universidad de Granada, la University of Lancaster e la Katholische Universität Eichstätt. Questa rete di atenei offre agli studenti percorsi universitari per la laurea triennale, il master e i dottorati di ricerca.
Fin dall’inizio della sua carriera intellettuale, l’impegno civile e politico hanno giocato un ruolo decisivo. In che rapporto stanno per lei la scienza sociologica e la politica?
Sono arrivato alla sociologia grazie allo studio della scienza politica, al giornalismo e poi facendo politica nella SPD. Come le dicevo, la politica e il giornalismo mi hanno dato l’opportunità di accedere a mondi sociali che altrimenti mi sarebbero rimasti preclusi. Era l’entrata a pieno titolo nella società, che poi mi ha sempre interessato. Mi hanno interessato i processi decisionali, le istituzioni, l’ordine simbolico, l’arte, i movimenti sociali. Ancora oggi sono attivo nella politica locale. Sono membro del Senato della cultura della Sassonia (Säschsischen Kultursenats) composto da diverse personalità, esperti di cultura o attivi nel mondo della cultura del Land della Sassonia. Il compito dei membri del Senato è di fornire consulenza per le politiche del Land e dei suoi Comuni, sui temi riguardanti lo sviluppo del patrimonio culturale. A mio avviso, è importante che la sociologia mantenga un contatto con il proprio ambiente circostante. Con la riunificazione, lo Stato tedesco ha voluto mantenere e sostenere le attività culturali dei Länder orientali. Se nel resto della Germania lo sviluppo della cultura è appannaggio dei Länder, in quelli della ex Germania orientale c’è un sostegno aggiuntivo da parte dello Stato centrale. Ho sempre, però, tenuto distinti, in senso weberiano, tali ambiti, ma è importante che ci sia un mutuo scambio tra sociologia e politica.
Lo studio del movimento «Pegida» mi ha permesso di indagare più in profondità le grandi trasformazioni sociali e identitarie che stavano avvenendo dopo la riunificazione.
Qual è il ruolo oggi della sociologia tedesca e quale tendenze e direzioni intravede per la disciplina?
Oggi è molto diffusa la narrazione della sociologia come una scienza sociale che è stata in passato, soprattutto negli anni Sessanta del secolo scorso, di grande rilievo per la società, dirompente e forte rispetto ad altre discipline sociali. Lo sguardo è quasi nostalgico verso un glorioso passato, che ha vissuto tempi d’oro e che ha avuto un grande impatto nella società. E si pensa subito alla Scuola di Francoforte, giusto per fare qualche esempio. Ma è una narrazione falsante. A quell’epoca, la sociologia era tutt’altro che accettata e riconosciuta dall’establishment. Oggi, la sociologia è meno richiesta rispetto ad altre discipline che vanno per la maggiore, come le scienze della vita (life sciences). Queste si basano su uno sviluppo ecosostenibile come la biochimica, la bioinformatica, la biomedicina, la bioingegneria. Detto ciò, oggi più che mai, in Germania, la sociologia gode di uno statuto scientifico riconosciuto. Mai come oggi molti istituti di ricerca, non solo accademici, utilizzano sofisticate metodologie sia quantitative sia qualitative per i loro studi. Affinché la sociologia non perda efficacia e non voglia erroneamente essere tacciata di essere passatista, come già sosteneva il sociologo britannico marxista Michael Burawoy, essa non dovrebbe rinunciare al suo ruolo di public sociology, che alcuni autori tedeschi hanno avuto come, ad esempio, Ulrich Beck. Le sue tesi spesso esagerate, al limite del paradosso, erano capaci di fare emergere fenomeni e conflitti sociali altrimenti invisibili.
Lei è Senior Professor presso la Technische Hochschule Dresden (TUD), dove insegna e fa ricerca sulle teorie sociologiche, la storia del pensiero sociologico e la sociologia della cultura e dell’arte. I premi e le onorificenze che ha ottenuto durante la sua brillante carriera accademica e intellettuale fino ad oggi sono molti a partire dal Friedrich-Wilhelm-Preis dell’Università di Aachen (Rheinisch-Westfälische Technische Hochschule Aachen) del 1992. Lei è noto anche per essere il più prolifico sociologo tedesco. Detto questo, ha ancora qualche «sogno nel cassetto», che vorrebbe realizzare nei prossimi anni?
Certamente. Intendo realizzare un progetto di ricerca, coinvolgendo un ampio network di studiosi sul tema della storia e della divisione della Germania nel campo dell’arte. Lo scopo è quello di ricostruire la storia dell’arte e dei suoi sviluppi tra le due Germanie, che va intesa come una storia relazionale dell’arte (Beziehungsgeschichte) non separata l’una dall’altra. Il mio secondo progetto riguarda la scrittura di una monografia sulle opere di Gehlen, che oramai conosco molto bene. Infine, ho appena inoltrato una domanda alla DFG (Deutsche Forschungsgemeinschaft), per una ricerca non tanto sul movimento «Pegida», che per me è un movimento già in declino, bensì sulle strutture sociali e culturali dopo la caduta del muro di Berlino (la Wende). È un fenomeno molto significativo, ancora tutto da esplorare.