La rubrica «l’intervista» prosegue con un terzo illustre ospite: il professor Vincenzo Cesareo, recentemente insignito dal Presidente della Repubblica italiana della medaglia d’oro di benemerito della Cultura per l’area delle Scienze sociali.
Vincenzo Cesareo è senz’altro uno dei protagonisti della storia della sociologia italiana; dobbiamo anche a lui la progressiva autonomia ed il crescente prestigio della nostra disciplina rispetto ai «fratelli maggiori» d’oltralpe e d’oltre Atlantico. Partecipa sin dall’inizio alla faticosa costruzione di un associazionismo dei sociologi accademici, che ha avuto il suo coronamento proprio nell’Ais, di cui questa rivista è l’organo ufficiale.
Profilo
Vincenzo Cesareo è nato a Milano nel 1938. Si laurea nel 1964 in Scienze politiche all’Università Cattolica, con una tesi in Sociologia; dallo stesso anno è assistente presso l’Istituto di Sociologia dell’Università Cattolica, diretto dal Prof. Alberoni. Dal 1980, è professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano. Dal 2012, è professore emerito di Sociologia.
Nel settembre 2002, ha ricevuto il XXX Premio Scanno per la sezione Sociologia. Nel 2013, è stato insignito dal Presidente della Repubblica della medaglia d’oro di benemerito della Cultura per le Scienze sociali.
È stato Direttore dell’Istituto di Sociologia dell’Università Cattolica e, dal 1997 a tutto il 2005, è stato Direttore del Dipartimento di Sociologia. Ha diretto, dalla sua costituzione (1974) sino al 1990, il Centro per l’innovazione educativa del Comune di Milano. è stato il primo Presidente dell’Iprase (Istituto Provinciale di ricerca, aggiornamento, sperimentazione educativi) di Trento, dal 1990 al 1995. È Direttore della rivista Studi di Sociologia. È membro del Consiglio di amministrazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, del Comitato d’indirizzo dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma, della Consulta del Centro di Prevenzione e Difesa Sociale, del Comitato Scientifico dell’Istituto di ricerca Gemelli-Musatti sui problemi della comunicazione, del Consiglio di Amministrazione dell’Ambrosianeum e della Fondazione Luigi Moneta. Fa parte del Comitato direttivo del Centro di ricerche sulla cooperazione e del Centro studi e ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica. È Segretario generale della Fondazione Ismu per lo studio della multietnicità. È stato Presidente del Comitato ordinatore della Facoltà di Sociologia, istituita nell’anno accademico 2001-2002, presso l’Università Cattolica di Milano, dal 2001 al 2003.
Temi di ricerca
Dopo aver svolto una serie di ricerche empiriche aventi per oggetto gli insegnanti e il rapporto scuola-lavoro, dal 1977, si impegna nello studio del mutamento del sistema culturale e della devianza. Anche a seguito degli studi in precedenza condotti sul controllo sociale, da una parte e sui servizi sociali, dall’altra, a cominciare dal 1977 rivolge il proprio interesse teorico per i problemi del welfare state. In particolare, elabora diversi contributi sul tema della legittimazione, declinata nelle diverse ipotesi di stato assistenziale. Come sviluppo di questo tipo di riflessione, si impegna nell’analisi dei fattori di rigidità degli attuali sistemi sociali e sulle prospettive di una società flessibile. Dal 1980, conduce studi teorici e ricerche empiriche sui temi del lavoro, del welfare state, dei giovani e dei sistemi formativi. A partire dagli anni ’90, si occupa dei mutamenti culturali nella società italiana e del rapporto azione-struttura sociale, della devianza e della socializzazione. Contemporaneamente, coordina delle ricerche empiriche sulla religiosità in Italia e sull’imprenditorialità nel Mezzogiorno. Dalla seconda metà degli anni ’90, l’attenzione si concentra sulla multietnicità, sui processi di globalizzazione e, più recentemente, sulla società civile italiana: su questi due ultimi temi, assume anche la responsabilità della conduzione di ricerche empiriche a livello nazionale. Più recentemente, ha coordinato alcuni progetti di ricerca sui temi degli adulti giovani, della distanza sociale e del ruolo della società civile nei processi di integrazione europea e sulle migrazioni. Dagli inizi del 2000, ha approfondito i processi di mutamento socio-culturale, della soggettività e del narcisismo.
L’attività editoriale consiste in oltre 300 pubblicazioni scientifiche, tra volumi, saggi e articoli, fra cui ricordiamo: Insegnanti, scuola e società (Milano, Vita e Pensiero, 1968), Socializzazione e controllo sociale (Milano, FrancoAngeli, 1974), La società flessibile (Milano, FrancoAngeli, 1992), Società multietniche e multiculturalismi (Milano, Vita e Pensiero, 2002), La libertà responsabile. Soggettività e mutamento sociale, con I. Vaccarini (Milano, Vita e Pensiero, 2006), Sociologia. Teorie e problemi (Milano, Vita e Pensiero, 2003), L’era del narcisismo, con I. Vaccarini (Milano, FrancoAngeli, 2012).
Cominciamo la nostra conversazione con Vincenzo Cesareo ripercorrendo gli anni della sua formazione culturale. Come è accaduto che hai scelto di dedicarti alla Sociologia?
Negli anni del liceo, avevo maturato l’idea di intraprendere la carriera diplomatica. A tale scopo, mi sono iscritto alla facoltà di Scienze politiche perché più congruente con quel genere di prospettiva professionale. Da studente universitario cominciai anche a frequentare qualche seminario presso l’Istituto per gli studi di politica internazionale, proprio per acquisire delle conoscenze per quello che ritenevo sarebbe diventato il mio futuro lavoro. Nel frattempo, giunto al terzo anno di corso, ho chiesto al professor Alberoni di poter svolgere la tesi di laurea sotto la sua guida. Egli, che teneva il corso di Sociologia all’Università Cattolica dopo un trascorso di psicologo, mi propose di studiare il ruolo dell’insegnante, in vista di un importante convegno sull’Italia in trasformazione che si sarebbe tenuto l’anno seguente e che poi ebbe anche un grande rilievo. Benché il tema mi risultasse del tutto sconosciuto, accettai la proposta, anche perché ero rimasto molto interessato dalle sue lezioni e avevo cominciato a frequentare l’Istituto di Sociologia, attivato proprio da pochi anni presso la nostra Università. Terminati gli studi e laureatomi, ricevetti, come avveniva frequentemente allora a differenza di oggi, numerose proposte di lavoro da aziende pubbliche e private, ma l’opzione per la diplomazia era ancora forte. Stavo per avviarmi verso quel percorso formativo quando Alberoni mi chiamò per offrirmi una borsa del Cnr, che rappresentava in quegli anni una delle principali opportunità per iniziare la carriera di ricercatore; essa contemplava anche un compenso mensile di ben L. 99.000. Confesso che non è stato semplice e indolore decidere quale strada scegliere, ma dopo non poche titubanze, decisi di optare per rimanere in Università, anche perché nel frattempo la frequentazione del Dipartimento di Sociologia mi aveva consentito di ampliare la conoscenza di questa disciplina e di appassionarmi alle tematiche sociali. Erano anni indubbiamente di grande interesse per le trasformazioni sociali e culturali in atto e stava aumentando nel Paese la domanda di approfondirne la conoscenza. In ambito accademico, la Sociologia era poco sviluppata ed era rappresentata soprattutto dalla letteratura nord-americana, che fungeva da punto di riferimento. Solo nel decennio successivo, quindi negli anni ’70-’80, si attuò un vero e proprio sviluppo della disciplina, testimoniato dall’aumento degli insegnamenti e dall’istituzione di nuove facoltà, che si affiancarono a quella di Trento.
Come ho già accennato, il mio incontro con la Sociologia avvenne con la stesura della tesi di laurea, che contemplava anche una ricerca empirica sulla professione dell’insegnante. A tale scopo, dovetti interessarmi non solo di sociologia delle professioni, ma anche e soprattutto di sociologia dell’educazione, che negli anni ’60 era ben poco conosciuta e praticata in Italia, per cui presi in considerazione la già numerosa letteratura statunitense e, in minor misura, l’inglese e la francese. Ciò mi indusse ad allargare lo sguardo a tematiche di più ampio respiro, come quella dei processi di socializzazione, del rapporto scuola società, dei condizionamenti socioculturali, del successo e insuccesso scolastico.
Come hai maturato la scelta sia della disciplina in sé, sia dell’area di studi, sia del particolare approccio di studio alla società che hai poi seguito?
Proprio durante il convegno sull’Italia in trasformazione del 1965, incontrai il professor Achille Ardigò, che mi motivò a coltivare il campo della sociologia dell’educazione, concepita e studiata come ambito specifico delle discipline sociologiche. Non si tratta di precisazioni bizantine, ma della necessità di collocare dal punto di vista epistemologico, teorico e metodologico questo settore di studi proprio per distinguerlo da una cosiddetta sociologia educativa, che costituisce una sorta di ibrido tra Sociologia e pedagogia. A distanza di tempo, devo riconoscere che non fu un’impresa semplice conquistare la pari dignità per la giovane sociologia dell’educazione italiana rispetto ad altre discipline storicamente molto più affermate aventi per oggetto i processi educativi, quali la pedagogia e la psicologia. Col passare del tempo, le diffidenze e le resistenze da parte dei cultori di queste ultime si ridussero notevolmente e si avviarono anche delle valide collaborazioni con studiosi di questi settori scientifici. Proprio attraverso queste esperienze, ebbi modo di provare sul campo come fosse diventata sterile la distinzione delle discipline basata solo sulla specificità dei rispettivi oggetti di analisi, mentre uno stesso oggetto può essere affrontato contemporaneamente e congiuntamente da più discipline, ciascuna delle quali offre il proprio contributo di conoscenza. Si supera, pertanto, il tradizionale monopolio tematico, mentre si apre la strada per una collaborazione costruttiva tra i diversi saperi che si confrontano e convergono su uno stesso oggetto in una prospettiva interdisciplinare, sempre più necessaria di fronte alla complessità di numerosi ambiti di studio. Per rimanere a quello dell’educazione, la Sociologia ha pieno diritto di interessarsene con il proprio particolare approccio, teso ad approfondire l’analisi dei sistemi di azione e delle loro interrelazioni, che altre scienze non affrontano. Nel frattempo, aumentava il numero dei sociologi interessati alle tematiche educative e così ho ritenuto opportuno promuovere già negli anni ’70 un gruppo, del tutto informale, di studiosi impegnati in questa specifica disciplina. Ad esso partecipavano sociologi di diversi atenei e di diversi orientamenti culturali e scientifici e ciò ha consentito un proficuo confronto e l’avvio di numerosi progetti comuni. Quest’esperienza è stata, nel suo piccolo, antesignana dell’Ais, nell’ambito della quale si dette poi subito vita ad una sezione dedicata alla sociologia dell’educazione.
Dopo aver contribuito a introdurre la sociologia dell’educazione del nostro Paese, ho ricoperto la prima cattedra di professore ordinario di questa disciplina e continuato a interessarmi ad essa, ma progressivamente allargando la mia attenzione ad altre tematiche. è stato proprio lo studio dei processi formativi a indurmi ad affrontare argomenti, quali la stratificazione sociale e le disuguaglianze, non solo a livello scolastico. In quel periodo, prevalevano approcci teorici di tipo funzionalista e strutturalista, con forti influenze di quello marxista. L’alternativa era offerta dall’individualismo metodologico, che riscuoteva scarso interesse da parte dei sociologi italiani, nonostante gli sforzi di Dario Antiseri, che stimo molto per la sua onestà intellettuale e per la sua lucidità argomentativa. Con lui ho avuto più volte animate e piacevoli discussioni, senza però che Antiseri riuscisse a convincere del tutto me e che io riuscissi a scalfire minimamente la sua granitica certezza teorica. D’altra parte, le teorie strutturaliste non mi convincevano del tutto, a causa del loro spesso eccessivo determinismo non comprovato dai riscontri empirici. Di qui la curiositas di impegnarmi nello studio del rapporto tra azione e struttura, che mi ha portato a teorizzarlo nei termini di circolarità: le azioni creano le strutture, le quali, a loro volta, retroagiscono sulle azioni condizionandole, ma non necessariamente determinandole. In questo percorso, mi è stato di particolare aiuto l’apporto di Merton, sia per il suo approccio teorico di medio raggio, sia per come ha approfondito il rapporto tra teoria e ricerca. Dagli anni ’80, ho conservato questo interesse per il rapporto tra azione e struttura che pone il cruciale problema della libertà umana nella vita associata. In questo percorso di studio, che peraltro continua tuttora, ho tratto degli utili insegnamenti da Ardigò, Boudon, Habermas, Sennett, Taylor, personaggi profondamente diversi tra loro, ma tutti e cinque dotati di un’elevata capacità interpretativa dei fenomeni sociali. Anche tramite il loro apporto, che desidero ricordare con riconoscenza, ho elaborato l’approccio denominato «costruzionismo umanistico». Alla sua elaborazione hanno concorso quattro elementi: primo, la già accennata continua attenzione per il rapporto circolare azione–struttura; secondo, il contributo del costruzionismo sociale, che enfatizza la realtà sociale come risultante dei processi di costruzione; terzo, il riferimento al concetto di persona, rivisitato in chiave sociologica; quarto, lo studio della genesi e delle diverse declinazioni della soggettività assunte nel corso della storia. Tengo a precisare che non si tratta di una teoria, che come tale pretende di spiegare i fenomeni sociali, ma, per l’appunto, più modestamente, di un approccio, cioè un modo per affrontare l’analisi di tali fenomeni. Più precisamente, si tratta di prendere in considerazione l’essere umano non come individuo astratto e fungibile, ma come persona, unica, concreta, relazionale, dinamica e storica con le sue potenzialità, ma anche con i suoi limiti. Essa agisce in un contesto dove è in grado di produrre dei cambiamenti, dove si costruiscono e si modificano le istituzioni, che una volta organizzate, retroagiscono sulle persone. Di qui, la rilevanza che assume la processualità e quindi, necessariamente, la dimensione storica nello studio dei processi e dei fenomeni sociali. Contestualizzazione e storicizzazione costituiscono pertanto due esigenze ineludibili per il sociologo.
Puoi parlarci delle persone che sono state importanti nella maturazione della tua scelta e nella tua formazione culturale e scientifica successiva? Quali sono stati gli autori e gli approcci di analisi più significativi, attraverso cui hai articolato i tuoi studi e la tua formazione? Ce n’è stato uno che ti ha aperto improvvisamente la prospettiva «giusta» di analisi alla società?
Tra le numerose persone che ho avuto la fortuna di incontrare negli anni della mia formazione iniziale, preciso iniziale, perché per uno studioso la formazione non termina mai, ne indico almeno tre: Francesco Alberoni, Achille Ardigò e Giuseppe Lazzati. Il primo mi ha introdotto alla Sociologia e mi ha costretto a leggere e commentare le opere dei padri fondatori della nostra disciplina: da Comte a Marx, da Durkheim a Tönnies, da Simmel a Parsons, che negli anni ’60 era solo in minima parte conosciuto nel nostro paese. Sono grato ad Alberoni per le acute ed originali analisi sul mutamento sociale e sul nesso tra consumi e società. Egli aveva anche una notevole capacità di saper cogliere i segni dei tempi nell’impostare le ricerche empiriche. Di Ardigò ricordo sempre con ammirazione la forte personalità morale e la spiccata curiositas, la vissuta e testimoniata religiosità, il rispetto profondo per le persone, la grande sensibilità nei confronti delle questioni sociali, l’originale lettura dei mondi vitali e della post-modernità. Egli è stato pioniere nell’avviare nuove piste di ricerca, le cui ipotesi si innestavano sempre su approfonditi riferimenti teorici, come nel caso della salute, del welfare e del terzo settore. Ma, per me, Ardigò è stato anche e soprattutto maestro di vita assieme a Luzzati che, dopo gli anni bolognesi, mi volle in Università Cattolica. Entrambi sono stati per me dei riferimenti preziosi sotto il profilo morale e culturale. Sotto il profilo strettamente scientifico, ho preso in considerazione, come è ovvio, i contributi di molti altri autori, ma, confesso, senza arrivare ad individuarne uno con cui pienamente identificarmi. C’era sempre qualche aspetto che non mi convinceva e qualche domanda a cui non trovavo risposte esaurienti. Tra i tanti che mi hanno suscitato notevoli interessi, mi limito a citare Smelser, Bourdieu, Merton, Touraine, Adorno, Arendt. Da questo elenco, si può evincere che i miei riferimenti teorici sono stati alquanto eterogenei. La scelta dipendeva da quello che, di volta in volta, mi si offrivano per approfondire l’analisi di un determinato fenomeno e, in particolare, per approfondire quel rapporto fra libertà personale e struttura sociale che costituisce il filo rosso della mia riflessione sociologica. Di qui, il mio interesse per gli approcci sia conflittuali sia consensuali, delle analisi che enfatizzano la stabilità così come il mutamento socioculturale, che si concentrano su una dimensione micro, meso o macro, a condizione che mi potessero offrire degli elementi utili per proseguire il mio percorso di ricerca. Se dovessi, quindi, attribuirmi un’etichetta, penso che alla fine mi definirei un sociologo eclettico, aperto agli apporti conoscitivi e interpretativi in grado di dare risposta alle mie curiosità senza chiusure verso scuole ed autori.
Potresti indicarci tre o quattro volumi che non dovrebbero assolutamente mancare nel bagaglio di un sociologo anche al giorno d’oggi? E per quali motivi?
Se dovessi effettivamente limitarmi a pochi volumi, le preferenze cadrebbero sui classici, che nella mia esperienza personale sono stati e continuano ad essere fondamentali; in modo particolare, Durkheim con la divisione del lavoro sociale, Weber per economia e società, Simmel per i suoi contributi sociologici. La scelta potrebbe sembrare alquanto provocatoria e confesso che, difatti, lo è. Essa nasce dalla crescente preoccupazione per la declinante considerazione che si riscontra nei confronti dei classici, cioè dei padri della Sociologia, i quali, questa almeno è la mia opinione, sono tutt’ora e saranno nel futuro dei riferimenti ineludibili per la nostra disciplina. Il loro contributo costituisce, infatti, una fonte inesauribile per la conoscenza sociologica a cui continuamente attingere. Lo studio dei classici consente di disporre delle fondamenta della nostra disciplina; come una qualsiasi costruzione, sono la base su cui può crescere un edificio: quanto più le fondamenta sono solide, tanto più sarà solido il resto della costruzione. Basti considerare le pubblicazioni degli ultimi vent’anni per constatare come i riferimenti ai classici siano decisamente diminuiti; di qui il mio interrogativo: questo dipende dal fatto che non si studiano perché si giudicano obsoleti? Oltre a questa scarsa attenzione per i padri fondatori della Sociologia e, più in generale, per la storia della Sociologia, registro anche una scarsa attenzione nei confronti della dimensione storica nel condurre l’analisi dei fenomeni sociali. A mio parere, ciò è da ricondursi all’enfasi sul presente che contraddistingue la cultura contemporanea e che arriva anche a influenzare i sociologi, in quanto uomini e donne del nostro tempo. Con questa considerazione non intendo certo sottovalutare l’importanza e la necessità degli studi sociologici contemporanei per il loro contributo all’interpretazione della realtà attuale e dei mutamenti in atto, ma insisto nel sostenere che una maggior utilizzazione del contributo offerto dai nostri classici, nonché una maggiore attenzione alla dimensione storica, potrebbe accrescere l’autorevolezza delle nostre analisi e, forse, anche rilanciare la nostra disciplina, di cui ritengo ci sia un grande bisogno proprio in questi primi anni nel nuovo millennio. Con piacere noto che questa stessa esigenza è condivisa da Alessandro Cavalli, quando afferma l’importanza della storia della Sociologia e dell’attenzione per i processi storici. Noto, invece, con una certa preoccupazione, che la storia della Sociologia e la storia dei fenomeni sociali sono alquanto trascurate da parte dei giovani sociologi in formazione, i quali, per l’esperienza diretta che ho di molti di loro, presentano peraltro notevoli doti intellettuali, buona conoscenza della cultura sociologica contemporanea e forte motivazione. A tal riguardo, sono molto grato al professor Andrea Bixio per avere attivato un gruppo di lavoro finalizzato proprio a visitare e, se possibile, riattualizzare giacimenti sociologici, soprattutto con riferimento alla tradizione italiana. Sempre a questo riguardo, mi permetto anche di raccomandare una più attenta riflessione sul rapporto Sociologia–società, in altre parole, di impegnarci nel coltivare una sociologia della Sociologia.
Quali sono gli elementi che, secondo te, possono determinare, o hanno determinato, l’attuale crisi della nostra disciplina?
Innanzitutto, la scarsa attenzione per quello che è il nostro patrimonio, accumulato nel tempo, di conoscenze ed essersi sganciati dalla dimensione storica. Il secondo elemento è che non teniamo sufficientemente presente la rilevanza dei processi e non prestiamo sufficiente attenzione alla questione tempo; siamo molto centrati sul presente, non riusciamo a cogliere i segni dei tempi, proprio perché non approfondiamo adeguatamente l’analisi del corso del tempo. Le altre questioni sono invece legate a quella che è stata la storia della Sociologia negli ultimi anni. Molto sinteticamente, abbiamo avuto il boom negli anni ’70, con anche un sovraccarico di aspettative nei suoi confronti. Si pensava, da parte di coloro che chiedevano la nostra collaborazione, che noi potessimo dare la soluzione di quasi tutti i problemi; e, da parte nostra, c’era la presunzione di poter effettivamente fornire la soluzione di quasi ogni problema, con delle derive che sono state a volte anche un po’ sociologistiche. Forse, abbiamo stabilito nessi eccessivamente forti tra cause ed effetti dei fenomeni sociali, ponendoci in una prospettiva fortemente deterministica, che lasciava poco spazio a quelle che sono, invece, la contingenza e la stocasticità che si accompagna ai fenomeni sociali, e devono essere tenute in giusto conto nella spiegazione. Quindi, c’è stato, forse, un eccesso di aspettative nei nostri confronti e c’è stata una presunzione da parte nostra di poter dare una soluzione a tutto. A questa fase, ne è seguita, poi, una dove non si è potuta mantenere una capacità di risposta adeguata a quelli che erano i problemi e le aspettative nei confronti della Sociologia ed anche in cui si è forse ecceduto in una forma di contributo sociologico spesso panflettistico, che non teneva sufficientemente conto dei necessari riscontri empirici. Si è arrivati, così, a produrre dei contributi pseudo-sociologici e alquanto panflettistici. Tutto questo, unitamente alle altre ragioni dette in precedenza, ha contribuito e ben spiega come si siano potuti ridurre la credibilità e l’ambito di presenza della Sociologia. Peraltro, non basta qualche chiacchiericcio televisivo per ridare rilevanza alla nostra disciplina. Questa contrazione del peso della Sociologia ha consentito ad altre discipline di allargarsi e di occupare degli spazi che sarebbero nostri, o meglio, anche nostri. Credo che, per uscire da questa situazione, occorra aumentare la nostra credibilità e la nostra legittimazione con dei contributi sociologici che, innanzitutto, affrontino i grandi temi della vita contemporanea. Per limitarmi a un solo esempio, quello del welfare. Registro con amarezza che, pur in presenza di rilevanti contributi di sociologi, ricevono maggior attenzione quelli di studiosi di altre discipline che, pur legittimamente, si interessano a questa stessa tematica. è quindi necessario impegnarci per una nostra maggiore presenza basata sulla scelta di temi cruciali e sulla credibilità della nostra disciplina, credibilità che comporta soprattutto un forte rigore metodologico e la capacità di mostrare determinate risultanze alla luce di riscontri empirici rigorosamente validati.
Sono convinto che, soprattutto in un momento come questo, ci sarebbe tanto bisogno della Sociologia, e lo sostengo non per difesa corporativa. Dobbiamo, quindi, assolutamente riconquistarci uno spazio nel dibattito pubblico e nell’incontro con le altre discipline, senza cadere nuovamente nel sociologismo, ma attraverso un apporto della Sociologia che sia serio, rigoroso e non dogmatico o ideologico; solo così il nostro contributo potrà essere fondamentale per comprendere, conoscere e interpretare questo nostro particolarissimo momento storico.
Tu hai dato un enorme contributo, non soltanto dal punto di vista scientifico, ma anche dal punto di vista culturale ed organizzativo allo sviluppo e al consolidamento della Sociologia in Italia, soprattutto per quanto riguarda la formazione dei giovani ricercatori. Potresti dirci come è nata questa idea e quali sono i punti forti che hai voluto infondere in queste iniziative?
Dopo che l’Aiss (Associazione italiana di scienze sociali), a cui per ragioni anagrafiche non ero riuscito a partecipare, ha cessato di operare, era subentrato un diffuso scetticismo in merito alla possibilità e persino all’utilità di proporre una nuova associazione di sociologi. Siamo alla fine degli anni ’70 e, assieme ad alcuni colleghi, collaboravo col professor Ardigò nell’organizzare i sociologi che lo avevano assunto quale riferimento, non solo scientifico, ma anche culturale: era, per l’appunto, il gruppo denominato «amici di Ardigò». Ma proprio quell’esperienza, seppure informale, mi ha portato a ritenere che, a fianco di gruppi di ricerca, scuole, che sono il lievito della comunità scientifica se non si riducono a difendere solo interessi particolaristici, fosse necessario disporre di un’associazione, che raccogliesse tutti i sociologi accademici dopo che si era esaurita l’esperienza decennale della Aiss (1957-1967). In un convegno, organizzato da Gianni Statera, a Roma, nel 1981, si discussero diverse ipotesi e, il 5 aprile 1982, fu costruito un comitato provvisorio di 11 persone, di cui facevo parte, che organizzò a Viareggio il congresso fondativo dell’Ais nell’ottobre del 1983, che elesse Ardigò quale il primo Presidente e un Comitato direttivo nel quale fui eletto. A distanza di un trentennio, continuo a essere convinto dell’opportunità di quell’iniziativa, che ha consentito non solo di disporre di una rappresentanza ufficiale della nostra comunità sociologica, ma anche di poter avere occasioni di incontri e confronto scientifico, di cui peraltro si continua a registrare una certa carenza, anche fuori dell’Ais.
Oltre ad avere attivamente concorso alla costituzione dell’Associazione Italiana di Sociologia, di cui continuo ad essere un convinto sostenitore, il mio impegno di «operatore culturale» in ambito sociologico ha riguardato la vita del gruppo denominato «sociologia per la persona», di cui fin dalla sua costituzione, nel 1995, sono coordinatore nazionale. Si tratta d’una realtà costituita da numerosi studiosi di diverse università e di differenti discipline sociologiche, che hanno raccolto l’eredità intellettuale e morale di Achille Ardigò, con la sua attenzione per la libertà e la dignità della persona. Questa opzione di fondo trova radici in differenti concezioni di pensiero, da quella cristiana ad altre che condividono, comunque, la centralità della dignità degli esseri umani e, quindi, il primato della persona nell’organizzazione sociale e nelle appartenenze comunitarie. Assieme a questo comune sentire, all’interno di SpE convivono posizioni scientifiche e culturali anche molto diverse, che comunque sono fonte di ricchezza perché favoriscono lo sviluppo della nostra disciplina. Coerentemente con l’identità del gruppo, si è subito avviata una riflessione, tuttora in progress, in merito a cosa comporti a livello teorico e di ricerca empirica porre la persona al centro dell’analisi sociologica. Questo percorso è contrassegnato da una serie di documenti e pubblicazioni. Una particolare attenzione è sempre rivolta, da parte di SpE, alla formazione dei giovani sociologi, con l’attivazione di una serie di iniziative loro dedicate, che vanno dal tutoraggio, a seminari di approfondimento tematico, all’incontro annuale di Pontignano, giunto alla 13ª edizione, in cui viene assegnato il premio Ardigò al miglior contributo presentato. L’idea di occuparci in maniera specifica dei giovani è nata dalla osservazione delle difficoltà che spesso incontrano nella loro formazione e dal fatto che da essi dipende il futuro della nostra disciplina; di qui, l’impegno nei loro confronti, che ho cercato di estendere anche al di fuori del mondo accademico. Nelle diverse iniziative in cui sono stato coinvolto, come Direttore del Centro per l’innovazione educativa del Comune di Milano, Presidente dell’Istituto provinciale per la ricerca e la sperimentazione di Trento, Segretario generale della fondazione Ismu, ho infatti sempre cercato di promuovere la presenza di giovani sociologi nei gruppi di lavoro e di ricerca, nella profonda convinzione della utilità del loro contributo.
Quali consigli e quali raccomandazioni daresti oggi a un giovane laureato che volesse intraprendere gli studi di Sociologia?
Per prima cosa, gli chiederei di riflettere attentamente sul percorso che intende intraprendere, allo scopo di verificare le motivazioni, alla luce delle oggettive difficoltà cui andrà incontro: motivazioni forti e realistica consapevolezza dei problemi da affrontare costituiscono due requisiti ineludibili per chi intende affrontare questo percorso. Solamente a fronte di una motivazione profonda e maturata nonostante il difficile periodo che stiamo attraversando, mi sentirei di incoraggiare un giovane ad iniziare la carriera di sociologo. Deve, cioè, trattarsi di una scelta guidata da una libertà responsabile, per riprendere un tema a me particolarmente caro. Una volta iniziato questo cammino, che deve prevedere la frequenza di un corso di dottorato, gli direi di impegnarsi in quello che definisco Cem, cioè classici, epistemologia e metodologia. Il Cem è infatti la base indispensabile su cui innestare lo studio della letteratura sociologica contemporanea e per affrontare i successivi approfondimenti teorici. Così come robuste fondamenta consentono di costruire un solido edificio, analogamente quanto più forte è quello zoccolo duro di conoscenze sociologiche costruito da Cem, tanto più sarà facile il cammino dello studioso. In base alla mia ormai lunga esperienza e alla luce della storia di molti giovani che ho avuto modo di incontrare, aggiungo anche tre consigli. Il primo consiste nel non limitarsi a considerare solamente i contributi che sono dei soliti noti, ma ad esplorare anche altri meno conosciuti, per non cadere in quello che definisco conformismo sociologico: ci si allinea e ci si adegua a «ipse dixit» pure autorevoli, la cui citazione diventa una sorta di passaggio obbligato e che non è politicamente corretto omettere. Il secondo suggerimento riguarda la necessità che le tesi che si sostengono siano adeguatamente supportate da analisi rigorose e convincenti. A volte, le pur encomiabili sensibilità e attenzioni, nonché l’entusiasmo per i problemi sociali, possono giungere a delle conclusioni affrettate e anche esprimere delle denunce che non trovano adeguato sostegno nella ricerca svolta che le precede, la quale dovrebbe dimostrarne l’attendibilità. Ciò può dar luogo a contributi scarsamente scientifici, che rischiano di ridursi a letteratura panflettistica, che può anche avere una rilevanza, ma non sotto il profilo scientifico. Ritengo che questo genere di deriva, non raramente riscontrata, abbia contribuito alla diminuita credibilità della nostra disciplina. Il terzo suggerimento che mi permetto di rivolgere ai giovani è quello di non avere troppa fretta nello scegliere una specializzazione, cioè nel concentrarsi esclusivamente su un particolare ambito di ricerca sociologica. A giustificazione di questo invito, non solo ricordo l’esigenza di acquisire quello zoccolo comune di conoscenza sociologica che assicuri le fondamenta su cui costruire personali percorsi di studio, ma anche segnalo la necessità di non contribuire a frammentare il sapere sociologico in tante discipline e sotto discipline diverse, sempre più distanti e sempre meno comunicanti tra loro. In qualche misura, questa tendenza riflette il processo di crescente frammentazione sociale che caratterizza la vita contemporanea, ma comporta non pochi rischi. A tale riguardo, i dottorati dovrebbero essere di sociologia tout court; si tratta di una proposta che senza dubbio incontrerà non poche critiche, ma che mi sento di formulare per onestà intellettuale. Se questi sono alcuni suggerimenti che mi sento di rivolgere ai giovani che vogliono intraprendere gli studi sociologici, mi sento anche di aggiungere che, in un momento particolarmente critico sotto il profilo istituzionale, all’impegno dei giovani deve aggiungersi anche l’impegno dei seniors nell’accompagnare i giovani nella propria formazione; un impegno che si concretizza nel dedicare loro del tempo, nell’offrire opportunità di ricerca e di contatti nazionali e internazionali, nell’essere esigente ma anche generosamente disponibile all’ascolto e al consiglio, demandando anche ad altri colleghi per specifiche consulenze, riducendo il più possibile i compiti amministrativi e di segreteria, affinché essi possano dedicarsi il più possibile allo studio ed alla ricerca. Se si esige molto dai giovani da parte di chi non lo è più e occupa posizioni di responsabilità, è doveroso impegnarsi nei loro confronti assumendo gli oneri relativi. Sempre facendo riferimento alla mia esperienza, ritengo che tra costoro vi siano notevoli potenzialità che m’inducono a ben sperare sul futuro della nostra disciplina.
Venendo alle tue riflessioni più recenti, gli anni della tarda modernità hanno portato a conseguenze estreme la caduta di partecipazione e il diffondersi dell’individualismo già paventato dalla Sociologia degli anni ’80 e ’90. Tu, che ha conosciuto anche la stagione della partecipazione sociale politica e culturale, come vedi l’evoluzione di questi ultimi tempi e quali linee ritieni più probabili per il futuro? A partire anche dal volume scritto con Vaccarini, in cui venivano delineati alcuni profili di uomo, ne esiste forse uno in formazione sotto i nostri occhi? E, se questo è vero, come si potrebbe tratteggiare il suo profilo?
Nello studio della soggettività di cui mi sono occupato da tempo e, recentemente, assieme a Vaccarini, ho avuto modo di evidenziare come essa abbia assunto direzioni diverse nel corso della storia dell’umanità e come anche attualmente si possano coglierne le differenti espressioni. Ai nostri giorni, assume un notevole rilievo un tipo di persona che abbiamo definito, nel nostro volume La libertà responsabile, homo psicologicus, il quale è connotato proprio da una forte dose di individualismo. Nella tarda modernità, questo tratto distintivo si è indubbiamente molto diffuso e tende a radicalizzarsi, tant’è che ritengo opportuno parlare di iper individualismo. Però, a mio parere, occorre distinguere l’individualismo della modernità, fino a oltre la metà del secolo scorso, da quello della contemporaneità (definita tardo moderno, o postmoderno). Per riprendere Lipovetski, il primo tipo di individualismo, pur ponendo al centro l’individuo con le sue esigenze personali, conservava l’aggancio, seppure sempre problematico, con la dimensione collettiva, per cui permane spesso, in modo precario o conflittuale, l’adesione ai valori e alle regole comuni, nonché ad appartenenze comunitarie. Il secondo individualismo, quello che definisco iper individualismo, si connota invece per il progressivo venir meno di questi legami, che sono recisi, o comunque trascurati. Facendo riferimento a quel delicato ed essenziale equilibrio, approfondito da Dahrendorf, tra opzioni e legature, prevalgono quindi decisamente le opzioni, mentre vengono meno le legature che, com’è noto, sono essenziali per la tenuta della vita sociale. Di conseguenza, come sosteneva Bauman, aumenta la libertà, ma diminuisce la sicurezza. La tensione per questa tematica ci ha portato, successivamente, a definire, seppure in termini metaforici, l’epoca attuale come l’era del narcisismo, a causa della rilevanza che quest’ultimo sta assumendo. L’era del narcisismo dimostra come il narcisista sia impregnato di individualismo radicale, per cui concetti, quali solidarietà, attenzione all’altro e bene comune sono diventati del tutto obsoleti. Questo iper individualismo narcisista, proprio a causa della sua diffusione, può arrivare a mettere a rischio la vita collettiva, accentuando il processo di frammentazione, peraltro già in corso e minando la coesione sociale. Alla luce di queste considerazioni, va quindi interpretato lo stesso deficit di partecipazione di cui si discute con comprensibile preoccupazione. Ma proprio perché, anche a motivo della frammentazione, il panorama dell’umanità è alquanto frastagliato e dalle prospettive incerte, non si può certo concludere che necessariamente dovrà comunque dominare l’iper individualismo narcisista. Alcuni recentissimi riscontri empirici sulla popolazione giovanile italiana consentono di cogliere dei segnali in controtendenza, che fanno meglio sperare per il prossimo futuro, in quanto, accanto ad una sempre rilevante presenza di homo psicologicus, si possono intercettare anche profili di giovani congruenti con quello che abbiamo definito homo civicus, che è in grado di compiere scelte autonome e responsabili, che alimenta rapporti sociali impegnativi, che è capace di tensione progettuale ed è aperto al futuro. Queste considerazioni mi inducono a suggerire due tematiche su cui sarebbe necessario un particolare impegno da parte dei sociologi: la coesione sociale, della quale si era avviata la discussione al convegno dei cinquant’anni della rivista Studi di sociologia, tenutasi a Milano nel 2013; e le giovani generazioni, su cui, per esempio, l’Istituto Toniolo e l’Università Cattolica stanno svolgendo una vasta indagine che consentirà di monitorare il fenomeno nel corso dei prossimi anni.