Renate Siebert è nata a Kassel il 29 aprile 1942. Nel 1961, ha iniziato gli studi di sociologia presso la Johann Wolfgang Goethe-Universität, Institut für Sozialforschung, di Francoforte, dove ha conseguito la laurea nel 1968, discutendo una tesi, con Theodor W. Adorno, sul pensiero di Frantz Fanon. La tesi è stata pubblicata nel 1969, da Europäische Verlagsanstalt; nel 1970, sono uscite le traduzioni in italiano, francese, spagnolo e, nel 1974, quella inglese. Dopo la laurea, ha proseguito l’attività presso lo stesso Istituto, con Adorno, Habermas, von Friedeburg, in qualità di collaboratrice scientifica, svolgendo una ricerca sulle forme di razzismo, latente e/o manifesto, presenti nelle rappresentazioni dei problemi dello sviluppo e del sottosviluppo offerte nei libri scolastici. La ricerca è diventata un testo adottato dalle scuole, pubblicato da Leske Verlag.
Nel 1971 si è trasferita a Milano, dove ha svolto attività didattica, presso la Scuola Superiore di Formazione in Sociologia e la Facoltà di Scienze Politiche della Statale. In questa città, ha preso avvio, fra l’altro, la sua collaborazione con il GRIFF (Gruppo di Ricerca sulla Famiglia e la Condizione Femminile), costituitosi, a quel tempo, con l’obiettivo di diventare il principale punto di riferimento cittadino per gli women’s studies, luogo d’incontro e dibattito del femminismo milanese. Sono anni in cui Renate Siebert si stava orientando a porre la condizione delle donne – e il loro sguardo sulla realtà – al centro della sua attività scientifica, oltre che del suo impegno civile e politico. Si tratta di una prospettiva da cui sono scaturite, nel periodo successivo al suo trasferimento all’Università della Calabria – nel 1974 –, alcune fra le sue ricerche più innovative e conosciute, come Le donne, la mafia, pubblicata nel 1994 dal Saggiatore e tradotta in inglese e in tedesco.
In Calabria, ha avuto incarichi di insegnamento presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, quella di Scienze Economiche e Sociali e quella di Scienze Politiche. A Scienze Economiche e Sociali è stata poi chiamata come docente di Sociologia del Mutamento, in qualità di associata nel 1986 e a Scienze Politiche di ordinaria nel 2003, assumendo anche le funzioni di Preside vicaria. Negli anni Settanta, l’Ateneo stava cercando di costituirsi come un polo di rilievo nazionale e internazionale, dopo l’inaugurazione della sede di Arcavacata: un obiettivo a cui Renate Siebert ha contribuito, sia con la qualità indiscussa della sua attività didattica e scientifica, sia con iniziative, quali la fondazione del Centro Interdipartimentale di Women’s Studies «Milly Villa» e del Centro Studi, Ricerca e Documentazione «Nosside», di cui è stata Presidente, oltre che Direttore della Rivista del Centro pubblicata da Rubbettino. È stata delegata del Rettore presso l’Osservatorio Regionale per la lotta alla mafia e al crimine organizzato. Ha coordinato la sezione Vita Quotidiana dell’Ais, nel periodo 1996-1999. Ha, inoltre, svolto un’intensa attività di promozione culturale, quale membro del Consiglio d’Amministrazione della Fondazione Rubbettino, consulente editoriale del Saggiatore e di Rubbettino, curatrice della collana «Altera», sempre presso Rubbettino, collaboratrice di alcune reti televisive tedesche e della britannica BBC per la realizzazione di programmi culturali e documentari scientifici.
Il suo percorso l’ha portata a radicarsi profondamente nella realtà calabrese – e meridionale, in genere –, che Renate Siebert ha cercato di comprendere con le sue ricerche e il suo impegno politico e civile. È stata Assessore alla Cultura e ai Servizi Sociali della Provincia di Cosenza nel periodo 1995-97 ed ha promosso numerose iniziative a sostegno della condizione femminile, di contrasto alla cultura della criminalità, al razzismo, agli stereotipi che alimentano il pregiudizio. Al suo coinvolgimento nella realtà locale ha, comunque, sempre fatto da contraltare una presenza da protagonista nel dibattito nazionale e internazionale, grazie alle sue pubblicazioni e ai numerosi interventi a convegni e seminari, un po’ ovunque in Italia e in Europa.
Nel 2007, ha scelto di andare in pensione, pur continuando a svolgere un’intensa attività di studio e ricerca, come testimoniano i saggi, articoli, volumi, in italiano e in inglese, della sua produzione più recente.
Fra le sue numerose pubblicazioni, segnaliamo, in particolare, i seguenti volumi: Kolonialismus und Entfremdung - zur politischen Theorie Frantz Fanons, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt/Main, 1969 (trad. it. Il pensiero di Frantz Fanon e la teoria dei rapporti tra colonialismo e alienazione, Feltrinelli, 1970), pubblicato in francese da Maspero, in spagnolo da Siglo Veintiuno Editores e in inglese da Monthly Review Press; Kritische Analyse von Schulbüchern zur Darstellung der Probleme der Entwicklungsländer und ihrer Positionen in internationalen Beziehungen, Institut für Sozialforschung, 1970 (con K. Fohrbeck); Heile Welt und Dritte Welt - Medien und politischer Unterricht, Leske Verlag, 1971 (con K. Fohrbeck, A. J. Wiesand); Esiste la donna? Prefazione e cura dell’edizione ridotta di Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, 1976; Interferenze - lo stato, la vita familiare, la vita privata, Feltrinelli, 1979 (con L. Balbo, a cura di); Le ali di un elefante - Sul rapporto adulti/bambini in un paese in Calabria, Franco Angeli, 1984; È femmina, però è bella - Tre generazioni di donne al Sud, Rosenberg & Sellier, 1991; Le donne, la mafia, Il Saggiatore, 1994 (Ed. Paperback, EST, Milano, 1997), pubblicato in inglese da Verso e in tedesco da Hamburger Edition; La mafia, la morte e il ricordo, Rubbettino, 1995; Mafia e quotidianità, Il Saggiatore-Flammarion, 1996; Lorica. Un ritratto a più voci, Rubbettino, 1996; Andare ancora al cuore delle ferite. Intervista a Assia Djebar, La Tartaruga, 1997; Il piacere della Sociologia, Rubbettino, 1998 (a cura di); Cenerentola non abita più qui. Uno sguardo di donna sulla realtà meridionale, Rosenberg & Sellier, 1999; Essere e diventare sociologi, Rubbettino, 1999 (a cura di); Relazioni pericolose. Criminalità e sviluppo nel Mezzogiorno, Rubbettino, 2000 (a cura di); Storia di Elisabetta. Il coraggio di una donna sindaco in Calabria, Pratiche Editrice, 2001; Razzismo: il riconoscimento negato, Carocci, 2003 e 2009; Organized Crime and the Challenge to Democracy, Routledge, 2003 (con F. Allum, a cura di); Incontri fra le righe. Letterature e scienze sociali (con Sonia Floriani, a cura di), Pellegrini Editore, 2010; Voci e silenzi postcoloniali. Frantz Fanon, Assia Djebar e noi, Carocci, 2012; Andare oltre. La rappresentazione del reale fra letterature e scienze sociali, Pellegrini Editore, 2013 (con Sonia Floriani, a cura di).
Per molto tempo ho conosciuto Renate Siebert solo attraverso i suoi scritti. In particolare, agli inizi degli anni Ottanta, la lettura di Interferenze, il libro da lei curato con Laura Balbo, ha offerto la risposta che cercavo al bisogno di trovare un quadro di riferimento solido – sotto il profilo della ricostruzione storica, dei riferimenti teorici, dell’articolazione fra la dimensione politico-istituzionale e quella della vita privata – per la mia ricerca sul tempo delle giovani donne. Da allora, ho seguito con attenzione le sue pubblicazioni, che sono state una fonte inesauribile di ispirazione, particolarmente per la messa a fuoco di una prospettiva di analisi sulla costruzione identitaria dei soggetti che, a partire dai comportamenti e i linguaggi del quotidiano, potesse svelare il modo, spesso implicito, in cui operano i condizionamenti di contesto nella percezione di sé e delle proprie opportunità. Nel suo lavoro ho sempre apprezzato l’estremo rigore teorico e, insieme, l’inesauribile curiosità conoscitiva, che la porta a immergersi nella ricerca con uno sguardo aperto alla scoperta e il coraggio di mettere in discussione le conoscenze consolidate.
L’ho incontrata per la prima volta solo verso la fine degli anni Ottanta, in occasione delle riunioni con Paolo Jedlowski e il gruppo di giovani ricercatori dell’Università della Calabria, con cui si stava concretizzando l’idea di creare un network internazionale per lo studio della memoria. Uno degli aspetti di Renate che mi hanno maggiormente colpita è la sua noncuranza verso le logiche di potere e verso il bisogno di protagonismo, così diffuso nelle università e nelle comunità scientifiche, in genere. È un tratto che, associandosi alla sua non comune capacità di concentrarsi – senza pregiudizi e preconcetti – sulle questioni di cui si sta occupando, le consente di guardare la realtà, riuscendo a vedere, oltre l’apparenza dei fenomeni, anche ciò che si cela nelle zone d’ombra: «un universo pluridimensionale, dinamico, stratificato che occorre esplorare», come nota Monica Massari introducendo la raccolta di saggi in suo onore.
Pensando al complesso profilo, scientifico e personale, di Renate Siebert, mi balza alla mente l’idea della frontiera. Non solo perché la sua esperienza di vita attraversa, intrecciandoli, molteplici contesti geografici e culturali, ma soprattutto perché il suo sguardo sembra costantemente orientato verso ciò che sta oltre i confini: della cultura occidentale, degli stereotipi sulla condizione delle donne, sulla mafia, sul “diverso”, della nostra capacità di scienziati sociali di leggere la realtà in cui siamo immersi.
Vorrei iniziare dagli studi che hai compiuto presso l’Institut für Sozialforschung di Francoforte, un luogo cruciale nella storia del pensiero sociologico, in un momento – gli anni Sessanta – nel quale, in Germania come ovunque nel mondo, si stava preparando la stagione dei movimenti, a cui la sociologia critica ha offerto alimento teorico e culturale. Potresti parlarci del significato di quel periodo per le tue scelte professionali e di vita?
Direi che gli anni Sessanta a Francoforte sono stati fondamentali per me. La mia generazione, cresciuta negli anni Cinquanta in una Germania profondamente devastata dall’esperienza nazista e ancora guidata in molti campi da personaggi compromessi col Terzo Reich, era disperatamente in ricerca di «altro», di idee democratiche, di letteratura, cultura ed arte di libertà (quella appunto diffamata e proibita dal regime nazista come «arte degenerata»). Eravamo alla ricerca di nuovi padri, di adulti e di persone pubbliche credibili e, soprattutto, di un orizzonte di conoscenza capace di aiutarci a emergere dalla palude sinistra e puzzolente che aveva contaminato tutto ciò che era alle nostre spalle. Ancora al liceo avevo conosciuto persone che mi parlavano di Francoforte, dell’Istituto e della storia dei suoi insegnanti in maggioranza ebrei ritornati dall’esilio negli Stati Uniti. Optavo per questa particolare «sociologia» ancora prima di aver conseguito la maturità e con soltanto un’idea vaga di ciò che volesse significare questa disciplina. L’importante per me era l’interesse per la configurazione della società, per le libertà civili e, soprattutto, la credibilità degli insegnanti. Sovrapponevo, nei primi tempi e in modo piuttosto ingenuo, «sociologia» e «impegno socio-politico». Tuttavia, la militanza nel crescente movimento degli studenti che consisteva per una parte rilevante proprio anche nello studio e nella discussione accesa con i rappresentanti della «teoria critica» nell’Istituto, mi ha aiutato a diventare pian piano una sociologa. In questo percorso la figura di Adorno è stata centrale per me, anche se non capivo fin da subito il suo linguaggio, le sue lezioni e i suoi testi. Adorno era innanzitutto un maestro, una figura che appariva molto lontana, con la quale non sembrava facile avere un rapporto. Quando feci il primo esame con lui non sapevo nemmeno se fossi davvero preparata. Ma andò bene e lui mi propose per una borsa di studio molto ambita. Pensavo si sbagliasse. Ero molto insicura, al di là dell’apparenza. Con discrezione, da lontano, lui mi diede quella fiducia nelle mie risorse che a me mancava. Poi accettò, sia pur senza molta convinzione, di essere il mio relatore di laurea con una tesi su Frantz Fanon, originario delle Antille, rivoluzionario, psicoterapeuta e psichiatra durante la guerra d’Algeria e allora piuttosto sconosciuto. Ma al centro delle analisi di Fanon era la questione dell’alienazione coloniale e della sofferenza causata dal razzismo e analogamente, al cuore delle preoccupazioni teoriche di Adorno e del gruppo intorno a lui, stavano la comprensione e l’analisi dell’antisemitismo. Adorno non sapeva niente di Fanon, tuttavia un nesso teorico c’era. Lui accettò la mia proposta e quindi… si fidò di me. Per me questo fu molto importante.
La Scuola di Francoforte offriva un corso altamente qualificato, anche se poco ortodosso rispetto all’accademia dominante, perché rappresentava una critica alle tendenze positiviste che vigevano in una parte delle scienze sociali. Era interesse indagare e comprendere «ciò che c’è» ma sempre in un rapporto dialettico con «ciò che può essere». Tale prospettiva dava grande rilevanza alla memoria, ai motivi espliciti come a quelli impliciti dell’agire umano e sociale e non perdeva mai di vista, sul piano teorico-scientifico, i profondi nessi interdisciplinari tra filosofia, sociologia e psicoanalisi. Si facevano ricerche sull’antisemitismo, sul fascismo, il nazionalsocialismo, le tendenze autoritarie nel carattere degli individui e delle società. I processi di socializzazione e le istituzioni educative, dalla famiglia alla scuola all’università, erano sotto costante osservazione. La «teoria critica» era, insomma, la punta di diamante nella lotta alla rimozione che imperava nella cultura tedesca negli anni del dopoguerra. E vorrei aggiungere che il lavoro di ricerca svolto all’interno dell’Istituto, pur essendo sempre guidato da una forte enfasi teorica e qualitativa, non tralasciava mai i riscontri empirici e quantitativi. La critica a impostazioni positiviste era rivolta a considerazioni e ricerche prive di un respiro teorico ampio che fornisse senso al mero dato empirico.
Studiare a Francoforte significò anche imparare a elaborare e ad ammettere la possibilità di una riconciliazione. Adorno, con il suo dolore che si palesava solo nell’elaborazione teorica – lui non parlava mai di sé – lavorava nel senso della conciliazione. Era senz’altro uno dei motivi del suo rientro in Germania dopo l’esilio. Come scriveva in Dialettica negativa, la conciliazione non è la soppressione dell’alterità, bensì «la felicità di restare nella sua vicinanza». Ma con il Sessantotto le cose si complicarono ulteriormente anche per lui. Contestammo tutti i padri intellettuali, occupammo il suo Istituto. Per me fu particolarmente doloroso, in quanto in quel momento, appena laureata, ci lavoravo come collaboratrice scientifica. Lui continuava a ripetere: «Perché proprio a me?» ed era molto angosciato dalla violenza che queste nostre occupazioni esprimevano. Ci diceva che gli ricordavano una violenza che aveva già visto negli anni Trenta. E noi a dirgli: «No, questa è diversa». Soffrì moltissimo e forse non è un caso che sia morto nel 1969. Quando lui morì, io mi licenziai dall’Istituto e venni a vivere in Italia.
Come mai hai lasciato Francoforte, dove avevi iniziato un’attività di ricerca che, stando alle pubblicazioni di quegli anni, ti stava offrendo importanti riconoscimenti internazionali? Per quali ragioni hai scelto di trasferirti proprio a Milano?
Era da tempo che volevo lasciare la Germania. Dopo la laurea e dopo la conclusione di una ricerca sui contenuti razzisti latenti e manifesti nei testi scolastici, avevo la possibilità di un’ulteriore ricerca nell’ambito dell’Istituto che mi avrebbe portato per un anno in Tanzania. Ma sentivo un’irrequietezza che mi spingeva a mollare tutto e cominciare da capo – lontana dalla Germania. La morte di Adorno ha probabilmente accelerato questo processo. Ma prima di approdare a Milano sono stata per due anni in Sardegna con una borsa del Ministero degli Esteri tedesco per studiare i processi di deindustrializzazione nel Sulcis-Iglesiente. Esaurita la borsa mi sono trasferita a Milano, dove ho lavorato per due anni alla «Scuola Superiore di Formazione in Sociologia» presso l’Umanitaria. è stato questo il luogo dove ho incontrato la sociologia italiana, sul duplice livello del ventaglio teorico e empirico, come su quello dell’incontro con le sociologhe e i sociologi italiani in carne ed ossa. A Cagliari avevo avuto rapporti piuttosto con antropologi come Clara Gallini e Alberto Cirese che insegnavano lì. Devo dire che l’inizio del mio rapporto con «la sociologia» non è stato indolore. Sentivo intorno a me una certa diffidenza quando emergeva il dato che venivo da Francoforte; la teoria critica non sembrava molto apprezzata e, soprattutto, non era considerata sociologia. In quegli anni imparai a quasi nascondere le mie origini teoriche. Comunque sia, i due anni di lavoro in via Daverio mi sono stati molto utili, ho conosciuto persone generose e stimolanti, sia tra i docenti che tra i borsisti. Penso in particolare a Laura Balbo, in quegli anni direttrice della Scuola, e alla quale, da allora, sono legata da un’amicizia molto particolare. Ricordo con piacere il fatto che la mia ricerca su tre generazioni di donne al Sud, pubblicata nel 1991 (un lavoro che sento tutt’ora come uno spartiacque nel mio percorso intellettuale, perché ha segnato il momento in cui mi sembra di aver trovato una mia dimensione propria, sia come ricercatrice, sia come scrittrice in lingua italiana, sia come un modo mio di intendere la sociologia), contiene una dedica a Adorno e Balbo insieme. Il motivo, per me, era profondo: come in Germania Adorno, in Italia Laura Balbo. Entrambi hanno creduto in me proprio quando io stessa non ne ero in grado. In seguito, con Laura, abbiamo fatto parecchie cose insieme.
Negli anni del tuo soggiorno, Milano era un contesto culturale e politico, oltre che economico, molto vivace. In particolare, era un punto di riferimento importante per lo sviluppo degli women’s studies e, in genere, per i movimenti femminili in Italia. Qual è stato il tuo impatto con quella realtà e fino a che punto essa ha contribuito a orientare i tuoi interessi verso lo studio della condizione femminile?
Ho ricordi molto belli e vivaci dei due anni vissuti a Milano. Sullo sfondo dell’incontro quotidiano con la sociologia, con l’insegnamento, con il rapporto docenti-studenti mi sentivo via via come arrivata «a casa». In questo processo di crescita l’incontro col femminismo è stato molto importante. Fin lì la mia esperienza politica di movimenti di sinistra non conosceva un’articolazione di genere. A Francoforte, nel contesto della SDS, ero riconosciuta come l’esperta delle questioni dell’Africa. Tuttavia rimanevo timida e piuttosto silente. A Milano frequentavo il «Gruppo Gramsci», ma più come osservatrice che come militante. L’incontro col femminismo milanese, le lacerazioni della «doppia militanza», l’esperienza di un gruppo di autocoscienza e, infine, la fondazione e le attività del GRIFF (Gruppo di Ricerca sulla Famiglia e la Condizione Femminile) in Statale, mi hanno molto aiutato a trovare un mio posto nel mondo. Finalmente riuscivo a dire «io» con cognizione di causa. Lo sottolineo, perché non si trattava soltanto di un dato identitario intimo, personale, ma toccava fortemente la mia nuova «spina dorsale» intellettuale. Finalmente non mi nascondevo più. Era questa la mia biografia, con tutti i suoi pregi e difetti. Sì, venivo da Francoforte – ma lo stesso ero una sociologa, magari un po’ diversa da altri… Ora sembra quasi facile, ma allora non lo era. L’ho imparato presto a Cosenza, all’Università della Calabria.
A occhi esterni, il trasferimento a Cosenza rappresenta un «salto» di grande intensità nel tuo percorso. È stato veramente così? Quali erano le tue aspettative e quale l’impatto con la realtà che hai trovato?
Inizialmente non si è trattato propriamente di una scelta. A Milano ero disoccupata dopo la chiusura della «Scuola Superiore» e a Cosenza mi si offriva un incarico. Dovevo accettarlo. Ma piano piano l’inserimento a pieno titolo come docente universitaria è stato un passo importante. Nei primi anni ho dovuto spesso cambiare materia di insegnamento, dalla sociologia generale alla sociologia della famiglia, dalla metodologia alla sociologia del mutamento. Questi scombussolamenti istituzionali mi hanno via via insegnato a inseguire un mio personale percorso di studio e di ricerca e non farmi troppo travolgere da logiche che con me stessa avevano poco a che fare. Inizialmente brancolavo abbastanza nel vuoto, ma, come già accennato, con è femmina, però è bella ho poi trovato una mia via, sia sul piano teorico e di scelta dell’oggetto della ricerca, sia su quello metodologico. Con riferimento all’opera di Luisa Passerini, ho sviluppato un impianto di ricerca a carattere qualitativo, che a suo tempo avevo definito «a due voci»: si formava un rapporto diseguale in cui le intervistate mi affidavano la loro storia di vita mentre io, mediante un’interpretazione a carattere teorico, intrecciavo le loro parole col contesto socio-economico, con l’ambiente e con la storia. Ma anche con le contraddizioni all’interno dei loro stessi discorsi. Un’interpretazione, se vogliamo, ermeneutica del testo ricavato dalle loro storie; un’interpretazione che sviluppavo in due direzioni. Da una parte le dinamiche tra le donne di tre generazioni della stessa famiglia – figlie, madri, nonne – e, dall’altra, le dinamiche intergenerazionali nella comparazione delle tre generazioni prese come insiemi storicamente situati nel tempo. Infine si poneva la questione della restituzione che non è sempre stata facile da realizzare.
A Cosenza, ti sei inserita in un Ateneo che, con la nuova sede di Arcavacata, aspirava a consolidarsi, non solo come un polo di attrazione per tutto il Meridione, ma anche come un centro di innovazione scientifica e di dibattito internazionale. Puoi ricostruire per i nostri lettori il clima di quegli anni?
Sono stati anni turbinosi, da clima «di frontiera», specialmente i primissimi in cui la struttura si stava formando, mancava tutto, eravamo in pochi, sia studenti che docenti, la maggior parte dei docenti piuttosto giovani e parecchi che venivano dall’estero. L’esperienza del campus, la formazione di famiglie giovani (anch’io mi sono sposata in quegli anni con Paolo [Jedlowski, ndr] che però nei primi anni lavorava ancora a Milano), la nascita di molti bambini. I miei figli, nati nel 1978 e nel 1982, hanno ancora oggi amici dei tempi del CESTEP, l’asilo nido del campus. Questa esperienza del campus, ma anche della Calabria tutta, è entrata poi a far parte di è femmina, però è bella. La generazione base era formata da studentesse della nostra università – poi le loro madri e le madri delle madri. Quello che vorrei innanzitutto sottolineare è il fatto che l’Università della Calabria è nata con un respiro ampio, nazionale e internazionale. E non mi è mai apparso un luogo provinciale nel senso restrittivo del termine.
In Ateneo, sei stata una delle fondatrici di «Nosside» e del Centro «Milly Villa». Come sono nate e che significato hanno avuto queste iniziative?
Mi sono occupata soprattutto del Centro di Ricerca e Documentazione «Nosside», fondato nella seconda metà degli anni Ottanta. L’iniziativa nasceva dai rapporti fra un gruppo di donne calabresi, fuori e dentro l’università, e le molte iniziative nascenti di centri di donne in tutta Italia. Il nostro obiettivo era quello di sviluppare delle attività che mettessero in relazione gruppi e centri di donne fra varie realtà del Sud – senza dover sempre passare per delle mediazioni con le iniziative nel Nord. Infatti, in seguito abbiamo ospitato seminari, mostre e presentazioni di libri nell’interscambio tra Sicilia, Puglia e Calabria. Oltre al Centro avevamo fondato anche Nosside – Quaderni di scrittura femminile, una pubblicazione dedicata alle scritture d’esperienza. Nella mia idea Nosside nasceva un po’ sull’esempio del GRIFF. Vale a dire un Centro di studi delle donne che agisse come ponte tra la realtà universitaria e il territorio. Tra «l’intellettualità diffusa» delle donne della «doppia presenza» e l’intellettualità accademica delle donne inserite nell’Università. Sul piano istituzionale non è stato facile, ma alla fine siamo riuscite ad avere un luogo fisico in Università, pur non propriamente un centro universitario, e un finanziamento regionale per una biblioteca delle donne.
Il «Centro Interdipartimentale di Women’s Studies “Milly Villa”», invece, è nato dall’iniziativa di Donatella Barazzetti come centro universitario. Oggi esiste ancora la biblioteca «Nosside», mentre il Centro «Milly Villa» è diventato un punto di riferimento importante e di rilevanza europea per quanto riguarda anche ricerche con finanziamenti UE.
Che cosa ti ha maggiormente colpita della realtà calabrese che hai conosciuto? Come hai cercato di stabilire delle sinergie fra università e comunità locale?
Qui il discorso sarebbe lungo. Dopo le difficoltà iniziali (ero sola, senza soldi, senza casa, priva di precedenti esperienze accademiche) ho trovato un inserimento principalmente ad Arcavacata e dintorni. Forse di meno rispetto a Cosenza. Via via la Calabria, dopo il mio lungo precedente vagabondare attraverso il mondo, è diventata «casa». Era il luogo in cui invecchiavo, in cui entravo in relazione col morire e col nascere, facevo esperienza tangibile dello scorrere del tempo. In Calabria sono nati i miei figli, lì sono andati a scuola. Lì è venuto a vivere e a lavorare mio marito, da Milano. Lì abbiamo costruito casa. La Calabria, con la sua ruvidezza, con la sua natura imponente di montagne, boschi e mare, con i calabresi a volte ruvidi anche loro, ma estremamente cordiali e affettuosi, è stata sullo sfondo di tutto ciò. Ci ha accolti. A me in particolare ha insegnato la pazienza.
Come hai vissuto la tensione fra la tua attività di studiosa e il tuo impegno, politico e civile?
Come mi avevano insegnato le esperienze con le amiche del GRIFF a Milano, in generale non avvertivo tali tensioni. Cercavo sempre di far confluire le esperienze politiche e civili negli orientamenti concettuali, tematici e di ricerca, tuttavia in modo indiretto. Non sono dell’idea che sia sensato sovrapporli gli uni sugli altri, sono importanti le differenze. E vanno esplicitate. Ho fatto esperienza di questo soprattutto nella collaborazione a due grosse ricerche che coinvolgevano vari enti e sedi universitarie. Da una parte una ricerca europea, svolta in sette paesi e coordinata da Parigi, sul rapporto tra governo locale e partecipazione delle donne amministratrici e, dall’altra, una ricerca sulla partecipazione femminile alla criminalità mafiosa sul piano internazionale, coordinata dall’Università di Palermo. Dove ho avvertito incongruenze, impossibilità di mediazione e francamente conflitto è stato nell’esperienza di assessore ai servizi sociali e alla cultura della Provincia di Cosenza negli anni Novanta. L’esperienza della politica dei partiti e dei politici, specie nei confronti di una come me «senza partito», è stata molto deludente. Non ero capace di mediare, mi rompevo la testa in tutte le direzioni e dopo due anni, la metà del mio mandato, mi sono dimessa. è stata un’esperienza piuttosto dura, ero decisamente incapace di svolgere quel ruolo. Tuttavia, al ritorno al lavoro pieno in università, ho notato un cambiamento nel mio atteggiamento verso le attività accademiche: ero diventata meno propensa a farmi mettere i piedi in testa! Forse non lo si avvertiva nemmeno da fuori, ma io lo sentivo così.
Introducendo il volume Attraverso lo specchio: scritti in onore di Renate Siebert, Monica Massari osserva che una possibile linea rossa che collega tutta la tua produzione scientifica è il tema del silenzio. Sei d’accordo?
Con un’espressione che mi piace molto e con la quale volentieri mi identifico, Monica, in quel passaggio, parla di «orizzonti inediti sempre a cavallo fra i sotterranei dell’anima e i meandri intricati dei fenomeni sociali più concreti». A partire dagli insegnamenti della teoria critica mi sono sempre sforzata di mettere la soggettività, intesa come nodo variamente intrecciato tra le realtà materiali, storiche e ambientali e le dimensioni psichiche dell’individuo, al centro delle mie riflessioni. In tal contesto, la questione del silenzio assume effettivamente importanza. Innanzitutto come silenzio imposto da condizioni sociali schiaccianti – i «soggetti tacitati» – o da barriere interiori come «soglia di pudore e vergogna». E poi c’è il silenzio colpevole, l’omertà, la complicità con la violenza. Ma il silenzio, da strategia di sopravvivenza, può anche tramutarsi in conquista. Il silenzio come scelta, come segno della capacità di stare da soli.
Le donne, la loro condizione, ma anche il loro sguardo, spesso ignorato, sulla realtà sono un punto di osservazione privilegiato nei tuoi lavori sulla mafia, sulle dinamiche familiari, sul pregiudizio, sul rapporto fra culture. Potresti spiegare in che modo sei arrivata a mettere a fuoco questa prospettiva? Quali sono stati i problemi con cui ti sei dovuta confrontare?
Visto il mio percorso personale, non mi pare difficile comprendere queste scelte. Io sono cresciuta in una cultura dell’emancipazione, per quanto riguarda l’essere donna. La donna era considerata e si considerava inferiore, ma aveva la possibilità di progredire emancipandosi. L’essere donna e pensare che questo sia naturale e bello non faceva parte dei modelli culturali dominanti degli anni Cinquanta in Germania. L’ideale era quello di diventare brave come gli uomini. «Donne è bello» fu un insegnamento e una conquista del femminismo degli anni Settanta, almeno per me. Fatta esperienza personale di questo percorso, ho voluto partire da lì nel mio lavoro.
Uno dei temi con cui ti sei confrontata è quello della memoria, con riferimento alle memorie ferite, delle vittime di emarginazione, discriminazione, violenze e alla difficoltà di fare i conti con il proprio passato da parte degli autori di tali violenze. Come sei arrivata a mettere a fuoco il tema della responsabilità nei confronti della memoria?
La memoria rappresenta un potente antidoto alla rimozione. E come tale è stata in tutta la mia vita da giovane e da adulta un tema cruciale, sia sul piano politico, istituzionale e civile, sia su quello della vita intima, personale e dei meccanismi psichici. L’apparente smemoratezza circa i crimini del Terzo Reich delle generazioni adulte alle mie spalle è stata la spina nel fianco della mia generazione: non sappiamo, non ricordiamo, non abbiamo mai saputo. Ecco cosa bloccava l’accesso al passato e rischiava di ostacolare l’andare avanti. La mia generazione – che è poi sostanzialmente quella del Sessantotto tedesco – ha violentemente contestato questa tiepida de-nazificazione del dopoguerra, questa mancanza di democrazia, questa incapacità di prendersi la responsabilità della propria memoria, individuale e storica. I nostri sforzi miravano allora a una sorta di «seconda fondazione» della Repubblica Federale Tedesca, un paese veramente democratico, non più segnato dalle deformazioni antidemocratiche legate alla non-elaborazione del recente passato nazista e alla soffocante polarizzazione Est/Ovest della Guerra Fredda, non più succube di vecchie forme di educazione e di relazioni intergenerazionali e interpersonali autoritarie.
Tra l’altro, la mia ricerca Le donne, la mafia – il tentativo di una lettura di genere del fenomeno mafioso – più che essere un lavoro sulle donne di mafia è principalmente concentrata sulle donne contro la mafia. E in questo contesto ho molto lavorato sulla memoria come atto civile e responsabile di resistenza: l’elaborazione del lutto per la perdita di una persona amata, che da dolore intimo e personale di molte donne – mogli, madri e figlie di vittime della mafia – si trasforma in testimonianza e accusa circostanziata dei criminali assassini. A tal proposito mi sembra significativo che sia stato proprio un momento di memoria involontaria che, in qualche modo, mi ha stimolato ad intraprendere quel «viaggio agli inferi» che sono stati gli anni di lavoro sulla violenza mafiosa. Durante un’intervista sul libro dedicato alle donne al Sud, un giornalista mi chiese perché non avessi nominato mai la mafia. Era impossibile che nessuna delle donne interpellata ne avesse parlato. Certo che ne avevano parlato, risposi prontamente, salvo poi accorgermi che in realtà io avevo, del tutto inconsapevolmente, censurato i loro interventi su questo tema. Li avevo rimossi. Non potevo fare altro che constatare questa mia censura, per poi scoprire che proveniva da una mia angoscia remota. Era un’angoscia non tanto riferita alla mafia in quanto tale, ma piuttosto legata alla lettera anonima, alla telefonata anonima, al fatto che qualcuno ti controlli con prepotenza, al controllo capillare e violento che io non ho mai provato in modo diretto nella mia vita ma che, evidentemente, aveva toccato dentro di me una corda profonda. Anche adesso, a pensarlo, mi suscita angoscia. Cercando di capire, analizzando, riflettendo, maturò in me la convinzione che questo sentimento di panico fosse legato a qualcosa che verosimilmente avevo avvertito quando ero piccola, in un mondo segnato da un totalitarismo che aboliva la sfera privata e che si insinuava con il sospetto dappertutto. Anche se io non ho vissuto consapevolmente il nazionalsocialismo, ho vissuto gli effetti di devastazione che ha prodotto sugli adulti attorno a me. E da lì che è iniziata, dall’autoriflessione, la ricerca sulla mafia. Dall’intuizione che la mafia abbia un forte carattere totalitario. Non ho mai sostenuto che sia un totalitarismo – mi sembrerebbe un paragone del tutto incongruo – però in questi territori dominati e governati dalla «signoria territoriale» mafiosa si coglie una dimensione di istituzione totale. Proprio perché la mafia si insinua nella psiche e ti controlla anche quando non la vedi, non sai dove sia. Come in un sistema totalitario la sanzione di morte è sempre dietro l’angolo, è sempre presente. Per questo è così angosciosa, ti perseguita nei sogni, ti uccide prima dentro.
Il razzismo e il pregiudizio, in genere, sono centrali nei tuoi interessi di ricerca. In questo senso, uno dei tuoi lavori più innovativi è la ricerca che hai pubblicato da Carocci, nel 2003, in cui definisci il razzismo in termini di riconoscimento negato. Potresti dirci come è maturata questa ricerca?
La questione del razzismo, nella mia esperienza personale, è un tema irrinunciabile. Nel movimento degli studenti comprendere e combattere il razzismo era un nostro modo di affrontare il fanatismo antisemita dei nostri genitori e la loro incapacità di elaborare il lutto per i crimini commessi. Affrontare il razzismo nel presente offriva una possibilità di guardare avanti nonostante che il passato fosse bloccato dalle atrocità del genocidio del popolo ebraico. In tale prospettiva lavoravamo sia con gli immigrati italiani e greci, allora la maggioranza dei «Gastarbeiter» nella Repubblica Federale, sia attraverso rapporti di solidarietà e lavoro clandestino con i vari movimenti di resistenza anticoloniale e anti-apartheid che erano presenti nella Repubblica Federale. All’interno del SDS esisteva un gruppo di lavoro anticoloniale del quale fui per un certo periodo responsabile. Nasce in questi anni il mio interesse per l’opera di Frantz Fanon. Ed è a Peau noire masques blancs, innanzitutto, che sono tornata per analizzare il fenomeno del razzismo come un riconoscimento negato che genera dolore, sofferenza, alienazione.
In un lavoro del 2012, associ Frantz Fanon ad Assia Djebar. Potresti spiegare il senso di questa associazione fra l’autore con cui hai iniziato la tua attività scientifica e una personalità del mondo femminile di area islamica che hai conosciuto in anni recenti?
Voci e silenzi postcoloniali, tra tutto ciò che ho mai scritto, è il testo che mi è più caro. Si tratta del tentativo di fare interagire due personaggi – Frantz Fanon e Assia Djebar – che per molti versi sono differenti. Mi si è obiettato spesso che sarebbero addirittura inconciliabili: chi ama Fanon magari non apprezza Djebar, chi venera la femminista Djebar accusa Fanon di misoginia. Non è qui il luogo per entrare in merito a queste controversie. Quello che a me interessava era costruire una ipotetica interazione tra queste due voci indubbiamente differenti, ma tuttavia in forte sintonia su alcune questioni postcoloniali. Il tutto attorno al nucleo tutt’ora incandescente della questione «Algeria», della lotta per l’indipendenza dell’Algeria. Entrambi sono stati profondamente coinvolti nei destini di questo paese, Fanon come psichiatra in una clinica algerina e come combattente del FLN, Djebar come romanziera che ha dato voce ai silenzi delle donne algerine. Entrambi coinvolti a titolo diverso nella lotta per la liberazione, entrambi profondamente partecipi delle tragedie individuali e collettive causate dalla violenza coloniale e del riproporsi della violenza nell’era postcoloniale. Tra l’altro, si erano anche conosciuti nell’esilio in Tunisia negli anni Cinquanta e successivamente Josie, la moglie di Fanon, era diventata amica di Assia. Se Fanon, morto al momento stesso della conquista dell’indipendenza dell’Algeria, non ha fatto in tempo a denunciare i fenomeni del neo- e post colonialismo algerino (anche se ne ha parlato rispetto ad altri paesi africani), Djebar, morta solo di recente, ha tematizzato nei suoi romanzi e racconti in modo efficace e forte luci e ombre della decolonizzazione. Le lacune della memoria, la necessità di «andare ancora al cuore delle ferite» (come recita il titolo di una intervista che ho realizzato con lei nel 1996), sono temi cari alla scrittrice nel tentativo di afferrare la violenza nell’Algeria postcoloniale e che ha portato infine alla guerra civile degli anni Novanta. Loro, Fanon e Djebar, nelle intenzioni del mio testo, rappresentano le voci che ci possono aiutare a decifrare le vicende postcoloniali. Noi, invece, rappresentiamo il silenzio, o meglio la scarsa consapevolezza delle implicazioni delle violenze coloniali e postcoloniali e dei razzismi per il nostro futuro. Come scrisse Sartre nella sua prefazione a Les damnés de la terre, occorre uccidere il colonialista che vivacchia in ognuno di noi.
Il mio amore per entrambi ha dunque molte forme di radici. Attorno alla loro opera e attraverso i loro scritti io mi sono immersa di nuovo nell’universo dei temi che più mi hanno occupato nel mio percorso biografico: il razzismo, l’alienazione coloniale, le lotte di liberazione, parole e silenzi delle donne, la violenza e la contro-violenza, la memoria, le ferite della storia. Entrambi ne parlano con linguaggi per me meravigliosi, Fanon, da psichiatra, con evidente riferimento ai meccanismi psichici, Djebar, da scrittrice e storica, con la sua prosa potente e poetica. Inoltre entrambi, in modi diversi, toccano frammenti e momenti della mia biografia: l’Algeria che ho conosciuto negli anni Sessanta, poco dopo la fine della guerra d’indipendenza, le vicende coloniali e postcoloniali, il femminismo in contesti extra-europei, lo scrivere «nella lingua dell’altro» che, seppure in modi diversi da quelli analizzati da Assia Djebar, mi rimanda alla mia storia di migrante tra più lingue. E infine, e ancora, il tema della violenza e le modalità e possibilità di uscirne e di conquistare un futuro per il passato.