Marzio Barbagli si è laureato nel 1965 con una tesi in sociologia presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze e ha iniziato a collaborare alle attività di ricerca del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Firenze. Nei primi anni della sua carriera, ha lavorato come traduttore dal tedesco per l’editore Garzanti, come bibliotecario e come insegnante.
Alla fine del 1968, è entrato nell’Istituto Cattaneo di Bologna, che ha diretto sino al 1970 e con il quale ha continuato a collaborare negli anni successivi. Ha insegnato sociologia dell’industria presso l’Università di Urbino, quindi è diventato assistente ordinario e professore incaricato di sociologia presso l’Università di Bologna. Diventato ordinario nel 1975, ha insegnato prima presso l’Università di Trento e quindi dal 1979 presso l’Università di Bologna. Dal 2012 è professore emerito dell’Università di Bologna.
Marzio Barbagli dal 1979 è stato Visiting Scholar presso: Department of Sociology dell’Università di Edimburgo; Center for Studies in Higher Education, Università della California, Berkeley; Center for European Studies dell’Università di Harvard; Centro de Invetigationes y Studios Superiores en Antropologia Social de Occidente, Guadalajara, Messico; Doctorado en Sociologia dell’Università Autonoma di Barcellona; Survey Research Center dell’Università di Berkeley; Department of Antroplogy dell’Università di Stanford e Department of Government and International Relations dell’Università di Sidney.
Agli inizi degli anni Ottanta, con Gian Primo Cella, Arturo Parisi e Chiara Saraceno ha creato il dottorato in Sociologia dell’Università di Trento (ed è stato membro del collegio docenti sino al 2010).
Nel 1985, Marzio Barbagli ha fondato con Arturo Parisi e Gianfranco Pasquino la rivista Polis dell’Istituto Cattaneo ed è stato membro della direzione, della redazione e del comitato editoriale di numerose riviste: La Rassegna Italiana di Sociologia, Stato e Mercato, Quaderni Storici, Theory and Society, Inchiesta, Journal of Modern Italian Studies, European Journal of Crimology, Genesis.
Dal 1990, ha collaborato alle attività dell’ISTAT, di cui è stato membro del Consiglio Scientifico.
Marzio Barbagli è stato direttore del Centro Studi e documentazione del Comune di Bologna (1994-1998), dell’Osservatorio Nazionale sulle famiglie e le politiche locali di sostegno delle responsabilità familiari del Dipartimento per gli Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri; dell’Osservatorio sulle differenze del Comune del Comune di Bologna.
Direttore scientifico di quattro progetti promossi dal Ministero dell’Interno sul tema della sicurezza e delle migrazioni.
Dal 1970, fa parte dell’Associazione culturale e politica «il Mulino» e, nel 2006, è stato cooptato nella European Academy of Sociology. Dal 2014, è socio dell’Accademia nazionale dei Lincei.
Marzio Barbagli ha contribuito in maniera significativa allo sviluppo e diffusione degli studi sulla famiglia, svolgendo ricerche, anche in prospettiva storico-comparativa e demografica, sulla realtà italiana. Ha fatto conoscere i più innovativi studi di demografia storica svolti da ricercatori stranieri e ha portato il dibattito sulla famiglia in Italia a livello europeo.
Numerosissimi sono i contributi scientifici di Marzio Barbagli, che hanno toccato i temi della scuola, della famiglia, sia a livello storico che diacronico, della conflittualità familiare, delle immigrazioni, della sicurezza, della sessualità, della criminalità, della partecipazione civica, della devianza, del suicidio.
È autore, con Alessandro Cavalli e Arnaldo Bagnasco, del manuale Corso di sociologia, il Mulino, sul quale si sono formati tantissimi studenti dei corsi di sociologia.
Tre le sue opere principali si ricordano:
a) monografie: Storia di Caterina che per ott’anni vestì abiti da uomo, Bologna, il Mulino, 2014; Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e Oriente, Bologna, il Mulino, 2009; Dentro e fuori le mura. Città e gruppi sociali dal 1400 ad oggi, Bologna, il Mulino, 2012; La sessualità degli italiani, Bologna, il Mulino, 2010 (con Dalla Zuanna e Garelli); Immigrazione e sicurezza in Italia, Bologna, il Mulino, 2008; Prevenire la criminalità, Bologna, il Mulino (con Gatti); Fare famiglia in Italia, Bologna, il Mulino, 2003 (con Dalla Zuanna e Castiglioni); Sociologia della devianza, Bologna, il Mulino, 2003 (con Savona); Omosessuali moderni: gay e lesbiche in Italia, Bologna, il Mulino, 2001 (con Colombo A.); Immigrazione e criminalità in Italia, Bologna, il Mulino, 1998; Separarsi in Italia, Bologna, il Mulino, 1998 (con Saraceno); L’occasione fa l’uomo ladro. Furti e rapine in Italia, Bologna, il Mulino, 1995; Provando e riprovando, Bologna, il Mulino, 1990; La mobilità sociale in Emilia Romagna, Bologna, il Mulino, 1988 (con Capecchi e Cobalti); Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna, il Mulino, 1984; Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna, il Mulino, 1974; Le vestali della classe media, Bologna, il Mulino, 1969 (con Dei);
b) curatele: Stranieri in Italia. La generazione dopo, Bologna, il Mulino, 2011 (con Schmoll); I sommersi e i sanati. La regolarizzazione degli immigrati in Italia, Bologna, il Mulino, 2004 (con Colombo A. e Sciortino); Storia della famiglia in Europa, Roma, Laterza, 2003 (con Kertzer); Family life, I vol. 1500-1789, II vol. 1789-1913, III vol. XX secolo, New Haven, Yale University Press, rispettivamente, 2001, 2002, 2003 (con Kertzer); Rapporto sulla criminalità in Italia, Bologna, il Mulino, 2003; Perché è diminuita la criminalità negli Stati Uniti?, Bologna, il Mulino, 2000; Lo stato della famiglia in Italia, Bologna, il Mulino, 1997 (con Saraceno); Storia della famiglia italiana, 1750-1950, Bologna, il Mulino, 1992 (con Kertzer); Istruzione, legittimazione e conflitto, Bologna, il Mulino, 1978; Famiglia e mutamento sociale, Bologna, il Mulino, 1977; Scuola potere e ideologia, Bologna, il Mulino, 1972.
La produzione scientifica di Marzio Barbagli, sia come autore che come curatore di opere collettive, si caratterizza per una profonda sensibilità ai temi sociali emergenti, sempre trattati con estremo rigore, precisa documentazione e chiave di lettura innovativa. Numerosi i suoi lavori storico-comparati. Uno di questi, Congedarsi dal mondo, è stato tradotto recentemente da Polity Press con il titolo Farewell to the World ed è stato definito da Randall Collins «il più importante libro di sociologia del suicidio apparso negli ultimi cento anni».
Ci sono state esperienze significative che hanno segnato la tua formazione?
Quello che ha segnato la mia formazione è stato innanzitutto il fatto che io ero uno studente lavoratore, o meglio, un lavoratore studente, cha ha iniziato, subito dopo essersi iscritto alla Facoltà di Scienze politiche di Firenze, a lavorare in una banca a Milano, per necessità.
E questo ha fatto sì che la mia formazione sia stata a dir poco superficiale e soprattutto sia stata, se parliamo della prima formazione universitaria, molto faticosa. Mi sono laureato in ritardo, a ventisette anni, e questa esperienza di essere stato lavoratore-studente ha segnato gli inizi della mia carriera, in quanto la necessità di lavorare era un vincolo da cui non potevo prescindere.
Altre esperienze o persone che hanno svolto un ruolo importante per l’inizio della mia attività di ricerca sono state sia persone non conosciute, ma che mi hanno affascinato per le cose che facevano, sia persone che ho conosciuto che molto mi hanno aiutato.
Tra le prime, ricordo Danilo Dolci, antifascista, studente di Architettura al Politecnico di Milano, che nel 1950, poco prima della discussione della tesi, decise di aderire all’esperienza di Nomadelfia, comunità animata da Don Zeno Saltini. Danilo Dolci, dopo il suo trasferimento in Sicilia (1952), promosse lotte non violente contro la mafia, il sottosviluppo e i diritti del lavoro. Ai miei tempi, era una persona molto carismatica, che colpiva molto la fantasia e alimentava l’immagine di una sociologia che, in quanto orientata sui problemi sociali, si confondeva con il socialismo. Tale fase di sovrapposizione è andata avanti ancora per molto tempo. E come Danilo Dolci, sono state importanti per me tante altre persone che facevano attività di ricerca orientata alla politica e che ho conosciuto in vari gruppi e di cui non ti parlo per non farla tanto lunga.
Ho fatto la mia prima, utilissima, esperienza di ricerca all’inizio degli anni Sessanta, come assistente di Samuel Barnes, uno scienziato politico americano che studiava il Partito Socialista Italiano.
Il primo accademico che ha avuto un ruolo importante e che mi ha aiutato straordinariamente è stato Gianfranco Poggi, che allora era già professore universitario.
Come e quando è maturata la tua decisione di intraprendere la carriera di ricercatore e quindi accademica?
In parte per i motivi detti, il desiderio di fare il ricercatore c’era già quando facevo il lavoratore studente, ma era un sogno. La possibilità di iniziare la carriera di ricercatore è stata dovuta al fatto che dopo la laurea ho iniziato a insegnare in quel di Arezzo in una scuola media inferiore e mi è venuta l’idea di fare una ricerca sugli insegnanti, perché ero rimasto molto colpito, molto sorpreso dalla reazione dei miei colleghi per la riforma della scuola media inferiore. Non avevo ovviamente una lira per fare la ricerca, ma grazie a Gianfranco Poggi che in quel momento lavorava per il gruppo del Mulino e per l’Istituto Cattaneo, ho avuto l’idea di proporre loro questa ricerca. Loro mi hanno dato i pochi soldi che sono serviti per affrancare un questionario postale e ho avuto modo di realizzare la ricerca. Nello stesso tempo, il gruppo del Mulino mi ha proposto di diventare addirittura Direttore dell’Istituto Cattaneo. Mi sono allora trasferito a Bologna e ho iniziato a lavorare all’Istituto Cattaneo.
L’Istituto Cattaneo – siamo negli anni 1966-67 – era un luogo dove c’erano già vari ricercatori impegnati in altre ricerche ed era un ambiente molto vivace. Poi sarebbero venute le persone che tu hai conosciuto, che sono Anna Oppo, Arturo Parisi, Piergiorgio Corbetta e Vittorio Capecchi.
Quindi si aprì l’università. Vi fu allora una forte crescita del numero di studenti e di docenti e anch’io, che avevo avuto un iter irregolare, riuscii a entrare, grazie anche all’aiuto dei docenti del gruppo de il Mulino.
Se tu dovessi indicare i tuoi «quadri» di riferimento teorici ed empirici, a quali autori, scuole, approcci ti sei rifatto?
Sicuramente, quando io sono entrato all’università mi consideravo e mi dichiaravo marxista, non diversamente da molti sociologi miei coetanei. Poi, con il passare del tempo, sono rimasto affascinato dagli studi di Max Weber e ho iniziato a definirmi weberiano, un weberiano di sinistra, come si diceva allora. Ma, nell’ambiente che frequentavo, in quello dell’Istituto Cattaneo e dell’Università dove ho iniziato a insegnare, vi era un forte interesse più per la ricerca, per i documenti e i dati, che per i dibattiti teorici.
La tua biografia scientifica è caratterizzata dallo sviluppo, nel tempo, di tematiche emergenti che, negli anni successivi, hanno manifestato tutta la loro importanza, come segnale del cambiamento dei costumi e della realtà sociale, soprattutto italiana. Si pensi (quasi in ordine di tempo) alla scuola, alla famiglia, alle migrazioni e la loro connessione con i temi della sicurezza, alle rivendicazioni dei LGBT. Questa sensibilità «al nuovo che avanza» fa parte del tuo personale stile di lavoro, oppure ritieni che rientri (e debba rientrare) tra le caratteristiche di un ricercatore, soprattutto se sociologo? In altri termini, il sociologo e la sociologia hanno una loro vocazione esplicativa e/o comprensiva specifica, rispetto ad altri ricercatori e altre discipline?
È vero che mi sono occupato di temi assai diversi durante la mia vita. È altrettanto vero che, in molti casi, mi sono occupato di temi che non erano ancora all’ordine del giorno dei sociologi o degli intellettuali italiani. Ma non credo che sia compito del sociologo individuare e studiare temi e problemi in anticipo. Personalmente non l’ho certo fatto per questo, per essere in anticipo sugli altri. In genere, ho scelto gli ambiti di ricerca quasi sempre partendo da sorprese, da sorprese che alcune esperienze o alcuni dati suscitavano in me. Come ho detto, è nato da una sorpresa, provata facendo l’insegnante di scuola media subito dopo la riforma, il mio primo progetto di ricerca sugli insegnanti. Così, per fare solo qualche altro esempio, è nato da una sorpresa, provata questa volta analizzando dati statistici, il mio lavoro sugli immigrati e la criminalità. Ho iniziato a fare ricerca sulla storia della famiglia, immergendomi negli archivi e studiando censimenti del Cinquecento, all’inizio senza essere capace neppure di decifrare la grafia di coloro che li avevano compilati, perché ero rimasto sorpreso e colpito dal dibattito che c’era nelle riviste, dalla demografia storica, dalla pubblicazione di importanti contributi in Gran Bretagna, in Francia, un po’ in Germania, che rimettevano in discussione quello che si sapeva sulla famiglia e sui suoi mutamenti nel corso del tempo. Oppure è stata la sorpresa di vedere, da innumerevoli fatti, che le previsioni di Durkheim sull’andamento del tasso di suicidio nei paesi sviluppati erano errate a spingermi a fare ricerca in questo campo.
Penso di essermi liberato presto da uno dei vincoli e dei difetti dei sociologi della mia generazione: quello di scegliere un campo e un tema di ricerca influenzati dal proprio orientamento politico e ideologico. Peggio ancora: di iniziare a far ricerca per dimostrare una tesi che da questo orientamento politico ideologico discende.
Cambiare continuamente temi ha naturalmente degli svantaggi, perché ti costringe a entrare in un settore dove non conosci nessuno e nessuno ti conosce. Ma ha anche molti vantaggi: la possibilità di imparare moltissime cose nuove e di ipotizzare connessioni fra ambiti e aspetti della vita sociale fino ad allora non immaginati.
Hai iniziato la tua carriera scientifica negli anni Settanta, gli «anni d’oro» per la sociologia in Italia: si aprivano le facoltà di sociologia e i corsi di laurea in sociologia, la sociologia, come materia di insegnamento e di esame entrava nei corsi di Lettere e Filosofia, di Giurisprudenza ecc. Erano anni di espansione e di consolidamento ai quali tu stesso hai contribuito in maniera significativa e costruttiva con il tuo lavoro di studioso. Da un po’ di tempo, tale fase espansiva si è fermata, anzi si parla di una vera e propria retrocessione della sociologia in «serie b», tra le discipline che contano poco perché hanno poco da dire. A tuo avviso, dovendo fare una diagnosi di questo declino, a cosa attribuiresti maggiore responsabilità? 1. Al mutato clima politico, culturale ed economico, 2. alla debolezza della sociologia come disciplina teorico-empirica, che non è stata in grado di produrre adeguate «leggi» di sviluppo e previsione, 3. all’estrema frammentazione della sociologia a livello accademico, che non sempre è riuscita a sviluppare scuole e comunità scientifiche diverse, ma non conflittuali.
Il declino della sociologia c’è stato, se per declino intendiamo l’immagine che i media e gli appartenenti agli altri gruppi disciplinari hanno del nostro settore scientifico.
Il declino della sociologia dipende da tanti motivi e sicuramente dal fatto che la sociologia, essendo, come dire, una disciplina, un gruppo disciplinare che si è sviluppato molto rapidamente, davvero molto rapidamente, ha reclutato persone, un gran numero di persone incompetenti, che hanno screditato e continuano a screditare la sociologia. Tuttavia, se confrontiamo il livello di conoscenza scientifica, se confrontiamo la produzione scientifica dei sociologi italiani oggi, con quelle di quaranta anni fa (mi riferisco soprattutto alla società italiana, alla società europea), ci accorgiamo che si sono fatti molti passi avanti. Sicuramente, una parte dei giovani che sono venuti fuori dai dottorati hanno delle competenze che noi non avevamo e che abbiamo imparato in maniera autodidatta, e stanno facendo aumentare il livello delle nostro conoscenze.
Molti dei nuovi docenti di sociologia formatisi nei dottorati di ricerca hanno forse il limite di rimanere per tutta la vita chiusi nel loro orticello a studiare sempre le stesse cose e di non mettere mai il naso fuori dai confini disciplinari definiti dai bandi di concorso. Legato a questo vi è il limite di non porsi mai i grandi interrogativi per rispondere ai quali la sociologia è nata nel corso dell’Ottocento. Ci sono però delle importanti eccezioni, come quella dei ricercatori che fanno capo alla rivista Stato e Mercato, i sociologi economici, che hanno continuato ad affrontare problemi macro, a favorire un continuo interscambio fra sociologia, economia e scienza politica e hanno dato un contributo molto rilevante.
Sono circa venti anni che l’Università italiana è «un cantiere aperto» e molti di noi non hanno ancora compreso bene quale sia il progetto che si sta realizzando. I cambiamenti sono tanti: si pensi al passaggio ai corsi di laurea 3+2. Ma ve ne sono quattro che stanno incidendo profondamente sull’organizzazione anche futura dell’Università. Penso a: 1. istituzione dell’ANVUR e inizio dei processi di valutazione delle strutture, dei corsi di laurea e dei prodotti della ricerca; 2. introduzione di una logica premiale nella distribuzione dei fondi (alle Università e da queste, a cascata, ai dipartimenti e quindi ai ricercatori); 3. introduzione dell’abilitazione scientifica nazionale e 4. messa a esaurimento del ruolo di ricercatore a tempo indeterminato. Rispetto a questi cambiamenti, quali valutazioni ti senti di fare? Secondo te, in che direzione vanno? Vanno nella direzione giusta?
Il fatto di cercare di valutare la produzione scientifica per i concorsi e per la distribuzione dei fondi – l’ANVUR serve anche a questo – è apparentemente un principio sacrosanto. Il problema nasce, come sai meglio di me, dalla realizzazione di questo principio. Io ho sentito parlare solo persone che si lamentavano dell’ANVUR, ma non sono in grado di dare giudizi. Però, vedi, al di là, come dire, di questi primi tentativi di valutare, quello che a me colpisce, in questo caso per la sociologia e più in generale per le scienze umane, è la difficoltà non nel valutare il numero di pagine di un articolo, ma i contenuti. È facile distinguere tra prodotti scadenti e prodotti eccezionali, ma per il resto se tu prendi cinque sociologi bravi, che non hanno nessun interesse, e dai loro da leggere un articolo, questi verosimilmente ti danno valutazioni diverse perché hanno impostazioni diverse, quindi, come dire… mancano o perlomeno non sono abbastanza consolidati dei criteri di valutazione comuni. E questo non vale solo per la sociologia, ma per tutte le discipline umanistiche e sociali.
Per quanto invece riguarda un ambito di cui ho avuto esperienza – il reclutamento – mi sembra che l’introduzione dell’abilitazione nazionale sia stata un fallimento. Numero elevatissimo di candidati, numero spropositato di pubblicazioni che i commissari avrebbero dovuto leggere, la presenza di un commissario straniero che a volte non conosceva neanche l’italiano, che non dava alcun contributo, ma era indice della nostra provincialità e perifericità.
Però purtroppo tutti gli altri criteri di valutazione e meccanismi di reclutamento che ho visto durante la mia vita, essendo stato all’Università per 40 anni, erano assolutamente inadeguati, per usare un eufemismo. Ho fatto parte di commissioni di concorso in cui i commissari, lo sai bene, non erano interessati a valutare davvero, a valutare realmente la produzione scientifica. Erano interessati a difendere i propri, quelli del proprio gruppo e da questo punto di vista tutte e tre le cosiddette componenti dei docenti di sociologia hanno fatto dei disastri straordinari.
Oggi credo che sia in atto il tentativo di introdurre, nel contesto generale del funzionamento dell’Università, i modelli di altri paesi che, sul versante del reclutamento, favoriscono la chiamata di persone competenti e capaci. Un tentativo che, tuttavia, non mi pare sia finora del tutto riuscito. Ciò non significa, naturalmente, che anche nelle università italiane non ci siano dei docenti e ricercatori di grande valore.