Editoriali

02/08/2020

Maria Carmela Agodi

Editoriale (n.16 2020)


Questo numero di Sociologia Italiana è per tanti motivi un numero speciale. È il numero che, dopo l’elezione in gennaio dei nuovi organi statutari di AIS, segna il passaggio della Rivista, come da Statuto dell’Associazione, a una nuova Direzione e a un nuovo Comitato di Redazione. È contrassegnato con il nuovo logo ri-stilizzato di AIS, accompagnando il rinnovamento nella comunicazione su sito e media. Esce per la prima volta in open access grazie a Egea, che ha condiviso questa scelta per sottolineare il valore pubblico del contributo che il fascicolo intende dare alla riflessione collettiva sull’esperienza che da metà febbraio ha segnato il Paese e il mondo globalizzato di cui siamo parte. È datato luglio anticipando, rispetto alla scadenza semestrale di ottobre, l’uscita del 16° fascicolo della rivista, rimarcando la tempestività di tale contributo. E infine attesta quello che in questi mesi di inizio mandato abbiamo sentito come dovere: affrontare la crisi pandemica, che ha sconvolto la vita sociale, proseguendo con intensità e impegno il lavoro che ci è stato affidato; motivando la sociologia italiana a far pesare la rilevanza del contributo sociologico all’intelligenza collettiva dei fenomeni sociali e ad essere, nel senso più pieno, comunità scientifica. All’esperienza della pandemia il fascicolo è dedicato, senza che questa scelta segni una deviazione da un percorso scientifico e culturale, che si sviluppa coerentemente in un progetto editoriale che non ammette improvvisazione, né cedimenti, nel rispetto rigoroso dei criteri della qualità scientifica.

Nel passaggio di testimone da un comitato di redazione all’altro, la continuità con la storia della Rivista è assicurata dalla condivisione di un percorso, che ha visto intrecciarsi con essa le biografie personali di chi ora ne assume la responsabilità editoriale, e dal contributo di idee e di lavoro di chi ci ha preceduto, che viene convintamente raccolto.

Il numero zero di Sociologia Italiana – AIS Journal of Sociology usciva nell’ottobre 2012 per iniziativa del Consiglio direttivo AIS presieduto da Alessandro Bruschi, di cui avevo l’onore di far parte, rilanciando un’iniziativa già intrapresa dal Direttivo precedente, presieduto da Antonio De Lillo. La mia presenza nel Comitato di redazione è proseguita negli anni successivi, sotto la presidenza di Paola Di Nicola, con una vicinanza al progetto editoriale e al percorso ulteriormente compiuto che non si è mai interrotta. È il riconoscersi in quel progetto editoriale, per portarlo avanti e rilanciarlo verso un futuro da costruire collettivamente, che oggi dà il senso a una continuità che non è mera ripetizione né routine.

A tutta la redazione che, da questo numero, lascia la partecipazione diretta al lavoro della Rivista – ed in particolare a Marita Rampazi che chiude, con il dovuto riconoscimento di tutta l’AIS, otto anni di impegno fruttuoso come responsabile di redazione, prima, e poi come condirettrice con Enrica Amaturo – vanno i nostri ringraziamenti e la conferma di un impegno alla vocazione pluralista e aperta della Rivista. L’obiettivo sarà ancora quello di farne, come scriveva nel suo primo editoriale Alessandro Bruschi, «un’arena ampia e priva di steccati, un luogo di confronto e di riflessione» (Sociologia Italiana, n. 0, 2012, p. 7), perché è attraverso il confronto aperto che una comunità scientifica si costruisce e si rinnova.

Il numero che sarebbe dovuto uscire in ottobre prevedeva un Focus tematico dedicato a “Scienza e senso comune”. Abbiamo scelto di chiedere ai colleghi che stavano già lavorando ai saggi programmati di dare spazio a ciò che stava accadendo nei rispettivi campi d’indagine, dove Covid-19 stava monopolizzando il discorso scientifico e di senso comune. Abbiamo poi scelto di ampliare il Focus, accelerando il processo di revisione dei tanti contributi che ci venivano proposti.

Il fascicolo si apre con la rubrica Teoria e ricerca. In questa, sono stati riuniti tre saggi che, da prospettive teoriche diverse, si interrogano sulla centralità sociale della scienza nella tarda modernità, confermata (e non messa in questione) dalla variabilità degli atteggiamenti di fiducia/sfiducia da parte del pubblico, che segnalano la percezione del suo ineludibile coinvolgimento negli assetti del potere. Il riferimento al ruolo pubblico giocato dalla scienza nella crisi pandemica è esplicito in tutti e tre i saggi, pur essendo il respiro dell’argomentazione non circoscritto alla crisi in atto.

Il ruolo della scienza nelle società democratiche è al centro del contributo di Pendenza. Il saggio parte dai classici, in particolare dal Weber de La scienza come professione, per identificare il compito chiarificatore della scienza sul senso delle decisioni in un contesto di politeismo dei valori; nel riempire di contenuto il concetto di responsabilità; nell’orientare alla tolleranza nei confronti di orientamenti di valore e scelte diverse. Prosegue con il Popper de La società aperta, recependone il legame di affinità tra scienza e democrazia, di cui viene tuttavia sottolineata l’ambivalenza, che si manifesta, seguendo Beck, nel potenziale ruolo di contropotere che la scienza può giocare nei confronti della politica. La presenza sulla scena pubblica della scienza nel suo farsi, durante la crisi pandemica, viene interpretata «come un caso esemplare di uso sociale della scienza, umanisticamente orientato» (p. 20).

Lusardi e Tomelleri, nel loro saggio, prendono le mosse dalla irruzione della crisi pandemica in un contesto impreparato a fronteggiarla – quello dei paesi occidentali governati dalle tecnostrutture neoliberali – per interrogarsi sullo svuotamento della componente inattesa del futuro nella tarda modernità. La rinuncia alla tematizzazione di un quadro di valori, in relazione al quale la scienza può dare un contributo critico alle scelte collettive, esalta le attese prestazionali nei suoi confronti, alimentando il disorientamento di fronte alla diffusione di un virus sconosciuto. Non si tratta di un inatteso assoluto, ma di un cigno nero (Taleb) rimosso dall’orizzonte del possibile, che irrompe come effetto collaterale del neoliberalismo globalizzato (Giddens, Beck). «Fenomeni di spillover di virus da specie animali all’essere umano sono già avvenuti nel recente passato e figure di spicco del mondo scientifico e produttivo avevano segnalato la possibilità che questo accadesse nuovamente» (p. 34). La rimozione delle epidemie, della malattia, della morte – attraverso la loro sussunzione entro un orizzonte probabilistico che ne calcola l’incidenza secondo modelli assicurativi – è una componente della cultura che svuota il futuro, facendone la prosecuzione di un indefinito presente che non prevede alcun significato per il mutamento.

Non la rimozione, ma la normalizzazione dell’emergenza è tuttavia il meccanismo più potente attraverso cui il futuro viene svuotato della sua novità, dove l’emergenza non è rimossa dall’orizzonte del possibile (o affrontata dichiarando lo “stato di eccezione”), ma già preventivata. In questa prospettiva, farsi trovare preparati all’arrivo della prossima pandemia, o di un’altra crisi che non mancherà di presentarsi, non necessariamente implica una rottura con un ordine che non prevede alternative a se stesso. Questo tema viene approfondito nel saggio di Pellizzoni che sottopone ad elaborato scrutinio l’apparato concettuale con cui si affronta la questione del controllo sul futuro, come elemento fondamentale della governamentalità. Responsabilità – e irresponsabilità organizzata (Beck) – riguardo a un futuro considerato come scenario di azione, diventano la posta in gioco nella determinazione delle diverse strategie di fronteggiamento dell’emergenza, che nella prospettiva della preparedness viene normalizzata sussumendo, entro un medesimo orizzonte di rilevanze, passato, presente e futuro. L’ambiguità di questa prospettiva riguarda il suo orientamento bifronte riguardo all’interconnessione delle infrastrutture tecno-produttive con la natura e l’ambiente: alleanza riparatrice e/o ulteriore sfruttamento predatorio sono strategie alternative che aprono o chiudono futuri alternativi possibili.

Nel Focus tematico ci si interroga sul modo in cui scienza e senso comune hanno contribuito a delineare il senso dell’esperienza vissuta nella pandemia. Da una lettura complessiva dei diversi articoli, la crisi pandemica emerge come uno spettro attraverso cui l’analisi sociologica restituisce la molteplicità delle dimensioni di senso che in essa hanno giocato. Iniziata come un’emergenza sanitaria, essa ha colpito tutti gli ambiti del sistema sociale e della vita di relazione. La decisione di interrompere la maggior parte delle attività lavorative e di svago per evitare il collasso del sistema sanitario è sfociata nella chiusura dei luoghi pubblici, con un lockdown generalizzato. L’adesione alle misure del lockdown può essere interpretata come l’esito di un processo negoziale di attribuzione di senso alla situazione, che ha coinvolto scienza, expertise e senso comune. Le principali arene di questo processo sono stati i media. Il discorso sulla pandemia ha scatenato una vera e propria infodemia di notizie, campagne di comunicazione scientifica, commenti, dibattiti, che ha coinvolto in un’unica narrazione collettiva anche la comunicazione pubblicitaria e ha sollecitato, soprattutto online, forme espressive di cui si sono resi protagonisti sia artisti che persone comuni. All’inizio della crisi, è stata la scienza a dettare l’agenda nella sfera pubblica, mentre la gente comune si esprimeva attraverso pratiche e rituali di rassicurazione collettiva. Quando la diffusione del contagio è parsa rallentare, si è assistito a uno slittamento da una definizione sostanzialmente condivisa della situazione al proliferare di prospettive e punti di vista divergenti. Quello che emergeva era il risultato della reinterpretazione di differenze e diseguaglianze su cui la pandemia e le misure di contenimento adottate avevano prodotto i loro effetti, all’interno di nuove emergenti alleanze e di prospettive alternative nei confronti del post-pandemia.

Tra le possibili chiavi di lettura dei saggi, i curatori ne propongono tre. La prima si concentra sulle grandi narrazioni che hanno caratterizzato la sfera pubblica, in una convergenza sinergica tra scienza, varie forme di expertise e senso comune. La seconda guarda alle tensioni che, prima sotto traccia poi sempre più apertamente, hanno attraversato i diversi sistemi di conoscenza e di orientamento di senso, mostrando la dialettica interna sia alla scienza sia al senso comune. La terza interroga i framework entro cui la crisi è stata interpretata, da una prospettiva sociologica più profonda, che vi rintraccia in filigrana i dilemmi della tarda modernità. La posta in gioco, per l’analisi sociologica, è la possibilità di far emergere una prospettiva riflessiva e responsabile nei confronti delle alternative che si aprono e rispetto alle quali il futuro appare oggetto di decisione collettiva.

Completa il fascicolo l’intervista a Franca Bimbi, raccolta da Francesca Alice Vianello. In essa si ripercorrono, innanzitutto, gli anni della formazione, in un clima intellettuale e culturale, dove il conflitto delle idee e delle esperienze è vissuto come generativo e trasformativo. Poi si racconta del suo percorso accademico, tra Sociologia della famiglia e Studi delle donne. In AIS, è Segretaria a fianco del Coordinatore Vittorio Capecchi, della sezione Vita quotidiana. Dagli anni Novanta alla fine degli anni Duemila si sviluppa il suo impegno istituzionale in politica. Torna nel 2008 in Università, coordinando il Dottorato di Sociologia di Padova ed il progetto europeo Daphne. Intorno a lei, in confronti serrati, sociologhe e sociologi delle generazioni più recenti, la considerano interlocutrice e testimone di un modo impegnato e rigoroso di vivere la sociologia come professione.

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