Editoriale (n.26 2024)
Quasi un decennio fa parlando di datificazione e di sociologia della quantificazione alcuni studiosi (Espeland e Stevens, 1998) affermavano che i sociologi sono generalmente restii a indagare la quantificazione come fenomeno sociale a sé stante. Con la crescente datificazione della società contemporanea grazie anche allo sviluppo delle tecnologie digitali e alla diffusione dei Big Data, si sta verificando un cambiamento radicale del modo in cui si fa ricerca e di come si produce conoscenza sociologica. Nella società digitale, assistiamo a una progressiva ed esponenziale tendenza alla traduzione delle interazioni sociali in dati digitali. Le interazioni sociali mediate dalle tecnologie divengono dati a disposizione e accessibili anche a coloro che si relazionano in queste interazioni digitalmente oggettivizzate. Infatti, le piattaforme, le applicazioni e gli altri sistemi digitali consentono di agire in ambienti predeterminati, in cui le possibilità di azione e reazione vengono delimitate attraverso specifiche architetture e interfacce grafiche. Spesso, è anche possibile accedere ai propri e altrui dati, e reagire a essi attraverso un ventaglio di possibili azioni. In questo modo le interazioni vengono «inscatolate», rappresentando di fatto le uniche possibili all’interno di quello specifico sistema digitale.
Nonostante lo sviluppo del digitale abbia comportato, come sappiamo, una sorta di rivoluzione scientifica, ovvero il passaggio al «quarto paradigma», la sociologia della quantificazione però fatica a trovare un oggetto di studio ben definito, concetti teorici e metodologie condivisi. Sono molteplici i quesiti che si aprono parlando di società della datificazione e ognuno di questi trova una sua propria declinazione empirica. Una prima domanda, per esempio, può riguardare il processo che dà forma alla produzione di numeri e quando e come i numeri possono contribuire a modificare la realtà sociale. Forse, data la mole dei dati a disposizione sarebbe più opportuno indagare come governare la quantificazione. Questo perché i numeri giocano un ruolo importante e crescente nel governare la dimensione sociale e individuale.
La premessa è che i dati sono socialmente costruiti. Nonostante la retorica popolare contraria (Anderson, 2008), non esistono cose come i «dati grezzi». I dati non esistono prima dell’azione sociale, ma attraverso l’azione sociale (Bowker, 2013). E i dati non sono neutrali nel descrivere la realtà (Neresini, 2015), agiscono su ciò che descrivono, e retroagiscono su chi li utilizza e li costruisce. Inoltre, una volta stabilizzati, essi diventano autonomi, indipendenti dalle procedure di costruzione e senza memoria delle proprie origini. I dati non rappresentano quindi la realtà sociale, anzi partecipano alla sua costruzione. Essi non hanno solo una funzione simbolica, come vorrebbe l’epistemologia realista, volta a costruire un dato pezzo di realtà, ma anche una funzione connotativa e denotativa, perché contribuiscono attivamente alla formazione di fatti significativi per la scienza sociale e normativi per la società. Come sostengono Gitelman e Jackson (2013), i dati sono sia strutturati in modo attivo che prodotti in contesti specifici, essi sono oggetti e soggetti della conoscenza. Infine, e questo è determinante nella società digitale, i dati generano reazioni adattive negli attori a cui si riferiscono.
E allora come dovremmo governare a nostra volta i numeri? Dobbiamo semplicemente accettare la loro proliferazione, in qualsiasi forma, come inevitabile, o ci sono modi migliori o peggiori per usarli?