AIS

2015/6

Editoriale (Editorial), di Marita Rampazi


Con l’uscita del numero di Ottobre 2015, la Rivista compie tre anni di vita presentando due importanti novità. In primo luogo, il Consiglio scientifico si arricchisce della partecipazione di colleghi provenienti da Regno Unito, Portogallo, Spagna, Giappone, testimoniando, in tal modo, l’orientamento al dibattito internazionale, che ha guidato sin dall’inizio il progetto di questa pubblicazione. In secondo luogo, viene attivata una rubrica, rassegne, che contribuirà a potenziare la capacità della Rivista di proporre ai lettori alcuni fra i più interessanti temi «di frontiera» per la riflessione sociologica contemporanea, accanto a quelli che, strutturalmente, sono oggetto di interesse teorico e di ricerca per la nostra disciplina e a problemi connessi alla dimensione istituzionale del lavoro del sociologo, in Italia – e non solo.

In questa triplice direzione è stato concepito anche il numero di Ottobre, che si apre, nella rubrica teoria e ricerca, con un omaggio all’opera di Ulrich Beck, al quale il Consiglio direttivo dell’Ais ha dedicato un seminario, svoltosi a Roma il 19 maggio scorso, a pochi mesi dalla sua scomparsa. In quell’occasione, Walter Privitera è stato invitato ad aprire i lavori con una «lectio magistralis», che ha ricostruito il percorso intellettuale di Beck, mettendo in luce l’intima coerenza della sua riflessione sociologica, nel passaggio dal tema del rischio sino a quello, più recente, del cosmopolitismo. Nel saggio che pubblichiamo, Privitera riprende e articola la ricostruzione proposta a Roma, prendendo le mosse dalla caratterizzazione di Beck come erede dell’approccio diagnostico, specifico della tradizione sociologica tedesca. Una tradizione entro la quale assume particolare rilievo il tema dell’autonomizzazione sistemica di ambiti sempre più ampi della vita sociale quale aspetto specifico della modernità. Nella tarda modernità, Beck mostra come il processo di autonomizzazione entri in una nuova fase e giunga a interessare gli stessi individui, che si affrancano dai legami e dalle appartenenze consolidati, prendendo le distanze dai nessi normativi tradizionali della vita sociale. In tale prospettiva, si profilano i grandi interrogativi sui rischi – e le conquiste – cui è esposto l’individuo nella società post-tradizionale, sulle dinamiche di potere e il futuro della democrazia nell’età globale, che hanno orientato la riflessione scientifica e la passione civile di questo grande protagonista della sociologia contemporanea, come testimonia la rigorosa interpretazione proposta da Privitera.

Alcuni di questi interrogativi si ritrovano nel tema del secondo saggio, di Carlo Mongardini, sul significato culturale del limite. Quella che, per Beck, rappresenta la terza fase del processo storico di autonomizzazione, dove prende consistenza l’individualità post-tradizionale, costituisce, nel saggio di Mongardini, lo sfondo entro cui la vita raggiunge la dimensione dell’«illimitato», sviluppandosi senza confini né controlli, in un presente che «moltiplica le incertezze, le insoddisfazioni e le paure» e mette in crisi «la stabilità del legame sociale e le identità singole e collettive». Il saggio propone una riflessione sulla cultura del presente che sostiene tale dimensione, mettendo in rilievo l’ambivalenza connaturata al significato del limite, sia nell’esperienza individuale, sia nell’organizzazione della vita sociale e proponendo un ripensamento della funzione del limite, alla luce delle sue implicazioni in termini di potere, legittimità e libertà.

Il terzo saggio contribuisce ad articolare ulteriormente la riflessione, aperta dal saggio su Beck, in merito ai nuovi scenari che si prospettano alle identità collettive e individuali nella realtà de-tradizionalizzata contemporanea. In questo contributo, Paola Di Nicola sviluppa un’analisi critica dei movimenti di difesa delle identità culturali, mettendoli a confronto con i protagonisti delle lotte per il riconoscimento. La principale differenza fra i due tipi di movimenti consiste, per l’autrice, nella diversa articolazione fra diritti individuali e diritti collettivi, fra un tipo di radicamento che implica il progressivo annullarsi/confondersi delle diversità e forme di appartenenza comunitarie nelle quali viene, al contrario, enfatizzato il riconoscimento reciproco dei motivi di differenza. Un tema che, come mostra Di Nicola, oggi assume grande rilievo anche in funzione del varo di politiche orientate all’affermazione di un approccio multiculturale nell’organizzazione della vita sociale.

Nel quarto contributo ospitato dalla rubrica, Marialuisa Stazio propone una riflessione di ampio respiro sulla natura del lavoro intellettuale e creativo, con particolare riguardo al contesto universitario in Italia, optando per uno stile di scrittura irrituale, insieme ironico e appassionato, che purtuttavia non nasconde la solida conoscenza dell’autrice della letteratura scientifica sull’argomento. Una delle particolarità del saggio è costituita dalla scelta di non mettere in ombra gli aspetti del vissuto dello scienziato/ricercatore/docente universitario, solitamente espunti dall’analisi, in nome della ricerca dell’oggettività scientifica. Se non si tiene conto dell’intreccio che connette in modo inestricabile esperienza personale e creatività, tempo libero e tempo di lavoro, vita retribuita e vita non retribuita, non è possibile – sottolinea Stazio – mettere adeguatamente a fuoco la particolare natura e le attuali difficoltà della professione universitaria, soprattutto nel nostro paese. Si tratta di un paese, il cui tessuto economico e culturale sembra essere endemicamente inadeguato a mettere a frutto il valore proveniente dalle istituzioni formative e di ricerca. Una situazione aggravata, per chi lavora in università, dal progressivo definanziamento del sistema, dal blocco del reclutamento, da una pesante ipertrofia burocratica, dalla difficoltà di adeguarsi a nuove – tuttora problematiche – pratiche di valutazione e accreditamento.

Il tema del lavoro, declinato secondo la specifica angolatura delle prospettive professionali extra-universitarie dei laureati in Sociologia, ritorna nella rubrica focus. I due saggi ospitati in questa rubrica – il primo di Carla Facchini e Paolo Zurla, il secondo di Gianluca Argentin, Alessandra Decataldo e Giovanna Fullin – sintetizzano e, in parte, rielaborano i principali risultati di una ricerca nazionale, pubblicata recentemente dal Mulino[1]. All’indagine, promossa dal precedente Consiglio direttivo dell’Ais e realizzata grazie alla collaborazione del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca, hanno partecipato giovani ricercatori provenienti da diversi atenei italiani. Si tratta della prima di quest’ampiezza svolta in Italia, con l’obiettivo di raccogliere informazioni sull’iter professionale dei laureati triennali in Sociologia, considerati in un arco di tempo che va dal 2004 al 2010. Le rilevazioni, attuate con il metodo Cawi, hanno consentito di esplorare un complesso insieme di temi, relativi alla natura e qualità della formazione universitaria ricevuta, alla sua adeguatezza rispetto alle richieste del mercato del lavoro, alle caratteristiche delle professioni accessibili a questi laureati. Entrambi i contributi offrono importanti spunti di riflessione per ragionare criticamente sull’offerta formativa di tali corsi di laurea, valutando il rapporto tra aspettative iniziali ed effettiva formazione ricevuta, la coerenza tra quest’ultima e gli sbocchi professionali possibili, la disomogeneità esistente tra aree territoriali differenti, l’incidenza della dimensione di genere nelle performance accademiche e professionali.

L’intervista è dedicata a Franco Ferrarotti, un protagonista di primissimo piano del panorama sociologico nazionale e internazionale, a partire dai primi decenni del secondo dopoguerra. La peculiarità di Franco Ferrarotti, che rappresenta la chiave di lettura dell’intera intervista, è il fatto di presentarsi come un intellettuale dalle «molte vite». In quanto sociologo, ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della disciplina in Italia: ha vinto la prima cattedra di Sociologia messa a concorso nel nostro paese; ha promosso la nascita dell’Istituto di Sociologia all’Università «Sapienza» di Roma, aprendo la strada all’istituzionalizzazione della disciplina; nel 1951, ha fondato, con Nicola Abbagnano, I Quaderni di Sociologia e, nel 1967, La Critica Sociologica – rivista che pubblica ancora oggi –; è stato editorialista per diverse testate. Ma è stato anche molto presente nel dibattito internazionale: ha insegnato in alcune fra le più note università americane, come ricorda nel corso dell’intervista e ha ricoperto ruoli di prestigio, fra cui quelli di Directeur d’études nella Maison des Sciences de l’Homme a Parigi, fellow del «Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences», membro della New York Academy of Sciences. Fra le «vite» di Ferrarotti, dobbiamo ricordare anche le sue esperienze di deputato e di diplomatico. Una vita intensa, animata dalla passione per la conoscenza, da una costante curiosità per la realtà delle persone, da un forte impegno civile: sono tutte caratteristiche che emergono dall’intervista, intrecciandosi con una lucida analisi dei problemi delle società contemporanee, particolarmente di quella italiana.

Il numero si chiude con la nuova rubrica rassegne. Come si è accennato, si tratta di una rubrica pensata soprattutto per presentare temi che abbiamo definito «di frontiera», perché allo stato emergente nel dibattito nazionale e internazionale, e/o perché, essendo trasversali a diverse discipline, occupano una posizione relativamente marginale, rispetto alle questioni che strutturalmente sono al centro dell’attenzione nella nostra comunità scientifica. è il caso del tema presentato in questo numero da Antonio De Caro, che sintetizza le principali posizioni emergenti dal dibattito sull’Età Assiale: un tema nato in ambito filosofico, con Karl Jaspers che, alla fine degli anni Quaranta del Novecento, ha coniato questo termine per indicare lo sviluppo storico delle civiltà, tramite un processo di progressiva diversificazione, a partire da un nucleo originario unitario. Il concetto è stato ripreso in anni recenti da alcuni autori, appartenenti ad aree disciplinari differenti, nell’ambito della riflessione contemporanea sul dialogo tra le civiltà, che il lavoro di De Caro contribuisce a ricostruire nelle sue linee essenziali, mostrandone l’estrema attualità.

L’auspicio della Redazione è che questa prima rassegna stimoli colleghe e colleghi a proporre ulteriori contributi che possano alimentare la nuova rubrica, ampliando, in tal modo, il ventaglio di spunti di riflessione offerti ai nostri lettori.


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La pubblicazione, a cura di Carla Facchini, è uscita a metà 2015, con il titolo Fare i sociologi. Una professione plurale tra ricerca e operatività.